Ascoltatemi bene, banda di snob, si è detto tutto e il contrario di tutto su Robert Mapplethorpe, ma nessuno ha veramente compreso l’essenziale: quest’uomo era un anatomista meticoloso dello sguardo. Un chirurgo della visione che dissezionava la realtà con l’ineccepibile precisione di un bisturi ottico. Nel suo laboratorio fotografico, ogni immagine diventa una lezione di anatomia in stile Rembrandt, dove la luce svolge il ruolo del bisturi, rivelando le strutture nascoste sotto l’epidermide del visibile.
Non fraintendetemi: questa ossessione chirurgica non ha nulla di freddezza clinica. Al contrario, traduce una fascinazione quasi maniacale per la bellezza delle forme, che si tratti dell’architettura di un fiore, della geometria di un corpo o della topografia di un volto. Mapplethorpe lavorava come un matematico posseduto dall’idea che sotto il caos apparente del mondo si nasconda un ordine segreto, un’armonia fondamentale che basterebbe scoprire per accedere a una verità superiore.
Questa ricerca della verità attraverso la forma rientra in una lunga tradizione filosofica che risale a Platone. Nel Timeo, il filosofo greco sviluppa l’idea che l’universo sia strutturato secondo principi matematici, che la bellezza riguardi le proporzioni e che l’armonia visibile sia solo il riflesso di un’armonia invisibile. Questa concezione platonica della bellezza, Mapplethorpe l’ha portata alle sue ultime conseguenze, creando un universo visivo in cui ogni elemento è sottoposto a una geometria rigorosa.
Prendiamo l’esempio delle sue nature morte floreali, in particolare la serie “Flowers” iniziata negli anni 1980. Queste immagini non sono semplici studi botanici, ma vere e proprie equazioni visive in cui ogni petalo, ogni stelo, ogni stame è posizionato con precisione matematica. Un calla bianco su sfondo nero diventa sotto il suo obiettivo una figura geometrica pura, quasi astratta, che ricorda le ricerche di D’Arcy Thompson sulle matematiche del vivente. Nel suo fondamentale libro “Forme e Crescita” (On Growth and Form, 1917), il biologo scozzese dimostrava come le forme naturali obbediscano a leggi matematiche universali. Mapplethorpe, forse senza saperlo, prosegue questa indagine, tracciando nella stessa carne dei fiori i principi geometrici che governano la loro crescita.
Ma questa ricerca della perfezione formale assume una dimensione ancora più affascinante quando si applica al corpo umano. Nei suoi ritratti e nudi, Mapplethorpe impone ai suoi modelli una rigore compositivo che trasforma la carne viva in architettura. La serie “Black Males”, che gli valse tante controversie, può essere vista come un’esplorazione sistematica delle possibilità scultoree del corpo umano. Fotografando i suoi modelli come statue greche, si inscrive in una tradizione classica che risale all’Antichità, pur sovvertendola con l’introduzione di un carico erotico esplicito.
Questa tensione tra classicismo e trasgressione trova la sua espressione più compiuta in “Man in Polyester Suit” (1980), un’opera che gioca deliberatamente con i codici del ritratto borghese tradizionale. L’uomo nero in completo a tre pezzi, fotografato con il suo sesso esposto, diventa una figura di Giano, rivolta sia verso il rispetto sociale sia verso una sessualità senza veli. L’inquadratura impeccabile e la qualità tecnica irreprensibile creano un contrasto sorprendente con il carico trasgressivo dell’immagine, costringendo lo spettatore a mettere in discussione i propri presupposti su ciò che può o non può essere oggetto di una rappresentazione artistica.
Georges Bataille, nel suo saggio “L’Érotisme”, sviluppa l’idea che la trasgressione non è la negazione del divieto ma il suo superamento, e che è proprio in questo superamento che risiede la possibilità di un’esperienza sacra. Mapplethorpe sembra aver integrato questa dialettica nel cuore stesso della sua pratica fotografica. Le sue immagini più esplicitamente sessuali sono anche le più rigorosamente composte, come se la trasgressione potesse realizzarsi solo nell’ambito di una forma perfetta.
Questa ricerca della perfezione formale raggiunge il suo apice nei suoi ritratti. Che fotografi celebrità come Andy Warhol o Grace Jones, artisti come Louise Bourgeois o Patti Smith, o degli anonimi, Mapplethorpe impone ai suoi modelli una frontalità ieratica che li trasforma in icone contemporanee. Walter Benjamin, in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, si preoccupava della perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’era della fotografia. Mapplethorpe risponde a questa preoccupazione creando una nuova forma di aura, interamente artificiale, prodotta dalla perfezione tecnica e dalla padronanza assoluta della luce.
Il suo ritratto di Patti Smith per la copertina dell’album “Horses” (1975) illustra perfettamente questo approccio. La cantante appare in una posa deliberatamente androgina, camicia bianca e cravatta nera leggermente slacciata, guardando l’obiettivo con un’intensità che sfida ogni classificazione di genere. La composizione ricorda gli autoritratti di Albrecht Dürer, in particolare quello del 1500 in cui l’artista tedesco si rappresenta come Cristo. Ma dove Dürer cercava di affermare la dignità divina dell’artista, Mapplethorpe crea un’icona profana che celebra l’ambiguità e la trasgressione delle norme sociali.
L’influenza della sua formazione cattolica si sente in tutta la sua opera, non come sottomissione ai dogmi religiosi, ma come un’appropriazione sovversiva dell’iconografia sacra. Le pose dei suoi modelli evocano spesso quelle dei martiri nella pittura religiosa, creando un dialogo inquietante tra sacro e profano. Il filosofo Michel Foucault, nella sua “Storia della sessualità”, ha mostrato come la repressione del desiderio nella tradizione cristiana abbia paradossalmente prodotto una proliferazione di discorsi sulla sessualità. Allo stesso modo, Mapplethorpe usa il vocabolario visivo del sacro per esplorare i territori più profani del desiderio umano.
Questa dimensione religiosa assume una risonanza particolare nei suoi autoritratti, in particolare quello del 1988, realizzato un anno prima della sua morte. Il fotografo vi appare mentre tiene un bastone sormontato da un teschio, il suo volto che fluttua nell’oscurità come una maschera mortuaria. La composizione evoca irresistibilmente le vanità del XVII secolo, quelle nature morte meditative sulla fugacità dell’esistenza. Ma dove i maestri olandesi cercavano di edificare moralmente lo spettatore, Mapplethorpe trasforma questo memento mori in un’affermazione paradossale della vita attraverso l’accettazione lucida della morte.
La malattia che lo portò via nel 1989 conferisce al suo lavoro una dimensione profetica. Gli ultimi anni furono contrassegnati da un’intensificazione della sua ricerca della perfezione, come se la consapevolezza della sua imminente fine lo avesse spinto a cercare nella forma pura una trascendenza che la carne ormai gli negava. Il filosofo Maurice Merleau-Ponty, in “L’Oeil et l’Esprit”, scrive che “la visione è un pensiero condizionato”. In Mapplethorpe questa condizione diventa sempre più astratta man mano che la malattia avanza, come se il suo sguardo cercasse di emanciparsi dalle contingenze del corpo per raggiungere una purezza geometrica assoluta.
La sua influenza sull’arte contemporanea è considerevole, non solo nel campo della fotografia ma in tutte le forme d’arte che esplorano le questioni di identità, sessualità e rappresentazione del corpo. La controversia che circondò la mostra “The Perfect Moment” nel 1989 può sembrare datata oggi, ma le questioni che sollevò sui limiti del consentito nell’arte e sul ruolo delle istituzioni culturali restano di grande attualità.
Il sociologo Pierre Bourdieu, in “La Distinction”, analizza come il giudizio estetico sia sempre socialmente condizionato. Le reazioni violente provocate dall’opera di Mapplethorpe rivelano i meccanismi di distinzione sociale in atto nella ricezione dell’arte contemporanea. Esponendo nei musei immagini esplicitamente sessuali realizzate con una padronanza tecnica impeccabile, costringe il mondo dell’arte a confrontarsi con le proprie contraddizioni e ipocrisie.
Il suo lavoro può anche essere analizzato attraverso la lente degli studi di genere e della teoria queer. Judith Butler, in “Trouble dans le genre”, mostra come il genere sia una performance sociale piuttosto che una realtà biologica. Le fotografie di Mapplethorpe, in particolare i suoi ritratti di drag queen e i suoi nudi androgini, illustrano perfettamente questa performatività del genere. Ogni immagine diventa una scena in cui le identità sessuali sono simultaneamente affermate e decostruite.
L’antropologo Claude Lévi-Strauss, in “La Pensée sauvage”, sviluppa l’idea che ogni cultura procede per classificazione e opposizione. Mapplethorpe gioca costantemente con queste opposizioni: bianco/nero, maschile/femminile, sacro/profano, vita/morte. Ma invece di mantenerle come categorie fisse, le fa dialogare, creando zone di ambiguità in cui i confini si confondono.
La fascinazione di Mapplethorpe per la geometria trova un interessante parallelo nelle ricerche del matematico Benoit Mandelbrot sulle frattali. Come Mandelbrot che scopriva motivi auto-simili nei fenomeni naturali apparentemente caotici, Mapplethorpe cerca nei suoi soggetti una geometria nascosta che si ripete a diverse scale. Un fiore, un corpo, un volto diventano sotto il suo obiettivo variazioni dello stesso principio di ordine formale.
Gilles Deleuze, in “Francis Bacon: Logica della sensazione”, analizza come la pittura possa catturare delle forze piuttosto che delle forme. Allo stesso modo, le fotografie di Mapplethorpe, nonostante la loro apparente rigidità formale, sono attraversate da forze vitali: desiderio, dolore, estasi. La perfezione della composizione non neutralizza queste forze ma anzi le intensifica, creando una tensione permanente tra ordine e caos. Questa tensione raggiunge il suo apice nelle sue immagini più esplicitamente sessuali. Georges Bataille, in “Le lacrime di Eros”, stabilisce un legame tra l’esperienza erotica e l’esperienza mistica, entrambe caratterizzate dalla perdita dei confini del sé. Le fotografie di Mapplethorpe che documentano la scena S&M newyorkese possono essere viste come un’esplorazione di questa dimensione mistica dell’erotismo, dove la violenza ritualizzata diventa un mezzo per accedere a una forma di trascendenza.
Robert Mapplethorpe appare come un artista profondamente paradossale: tecnicamente conservatore ma concettualmente radicale, classico nella sua ricerca della bellezza ma sovversivo nel contenuto, mistico nella sua ricerca di trascendenza ma materialista nella sua attenzione ai corpi. La sua opera ci ricorda che la bellezza non è sempre lì dove ci si aspetta e che l’arte più disturbante è spesso quella che ci costringe a guardare ciò che preferiremmo ignorare.
La sua ricerca intransigente della perfezione formale rimane un modello di ciò che la fotografia può realizzare quando è praticata con un’assoluta esigenza artistica. Le fotografie di Mapplethorpe possiedono questa rara capacità di raggiungerci nel profondo, di scuoterci e di modificare duramente la nostra percezione del mondo. Continuano a esercitare questo potere, costringendoci a confrontare i nostri limiti e le nostre contraddizioni, ricordandoci al contempo che la bellezza più pura può emergere dai luoghi più inaspettati.
















