Ascoltatemi bene, banda di snob, l’arte di Rosemarie Trockel (nata nel 1952 a Schwerte) è un vero pugno nello stomaco del conformismo artistico. Questa artista tedesca, la cui opera proteiforme sfida ogni categorizzazione semplicistica, ci costringe a ripensare le nostre certezze con un’audacia che fa tremare le mura delle istituzioni.
Cominciamo dalla sua magistrale decostruzione dei simboli domestici, in particolare attraverso le sue piastre di cottura monumentali che trasformano l’oppressione quotidiana in un manifesto visivo. Questi cerchi neri ossessivi, quegli occhi accusatori che ci fissano dai muri dei musei, non sono semplici ready-made duchampiani. No, rappresentano una trasmutazione alchemica del banale in sublime, un’elevazione sarcastica degli elettrodomestici al rango di icona contemporanea. Come avrebbe suggerito Linda Nochlin, queste opere costituiscono un’appropriazione sovversiva degli strumenti dell’oppressione domestica, trasformandoli in armi di distruzione massiccia dei pregiudizi di genere.
Ma attenzione, non cadete nella trappola di una lettura solo femminista. Queste piastre di cottura sono anche uno schiaffo ironico all’astrattismo geometrico maschile, un dito medio provocatorio a Malevic e ai suoi discepoli. In “Untitled” (1994), l’ordinato arrangiamento dei cerchi neri su sfondo bianco crea una tensione palpabile tra la banalità della quotidianità e la pretesa dell’arte minimalista. È proprio quello che John Berger chiamava “la dialettica del visibile e dell’invisibile”, dove l’invisibile è il peso delle convenzioni sociali nascosto dietro la superficie liscia degli elettrodomestici.
Le piastre di cottura di Trockel non sono semplicemente disposte a caso, seguono una coreografia precisa, una danza macabra che deride l’ossessione modernista per la griglia. Ogni cerchio nero diventa un buco nero che risucchia le nostre certezze sull’arte, sul genere e sulla gerarchia dei medium. È un gioco intellettuale feroce che ricorda ciò che Rosalind Krauss scriveva sulla griglia come prigione dell’arte moderna, ma Trockel trasforma questa prigione in un terreno di gioco sovversivo.
La seconda caratteristica della sua opera risiede nelle sue celebri “pitture lavorate a maglia”, queste opere monumentali prodotte industrialmente che abbattono i confini tra artigianato e belle arti. Non fraintendetemi: questi lavori a maglia non sono un omaggio nostalgico ai lavori a crochet delle nostre nonne. Sono manifesti tessili di una violenza concettuale rara. Utilizzando macchine per produrre queste opere, Trockel compie una doppia inversione: eleva il “lavoro femminile” al rango di arte pur meccanizzandolo, svuotandolo così della sua dimensione sentimentale tradizionale.
Questi maglioni monumentali, con i loro motivi ripetitivi di loghi ribaltati, il coniglio Playboy, la svastica, il martello e la falce, sono bombe a orologeria concettuali. Funzionano come virus informatici nel sistema dell’arte, corrompendo i codici stabiliti e creando nuove connessioni sinaptiche tra l’arte alta e la cultura popolare. Come ha brillantemente analizzato Arthur Danto, queste opere operano una trasfigurazione del banale, ma con una dimensione politica esplosiva che Warhol non avrebbe mai osato esplorare.
La ripetizione meccanica dei motivi nei suoi maglioni ricorda le tecniche di propaganda, ma Trockel le sovverte svuotandole del loro significato originale. Il coniglio Playboy, simbolo per eccellenza dell’oggettificazione femminile, diventa un geroglifico astratto, un significante fluttuante che perde il suo potere originario per diventare uno strumento di critica sociale. Questo è ciò che Geoffroy de Lagasnerie potrebbe chiamare una “deterritorializzazione” del potere: i simboli del patriarcato vengono dirottati e ribaltati contro se stessi.
L’aspetto più affascinante di questi maglioni è che funzionano simultaneamente come pittura astratta e come commento sociale. I motivi ripetuti creano strutture visive ipnotiche che competono con qualsiasi composizione modernista, portando al contempo un messaggio politico incisivo. È un’impresa concettuale che fa sembrare l’arte minimalista un esercizio di stile superficiale.
L’uso della macchina da maglieria industriale non è una semplice scelta tecnica, ma una dichiarazione di guerra contro l’espressionismo gestuale maschile. Sostituendo il gesto eroico del pittore con la precisione meccanica della macchina, Trockel smaschera l’atto creativo pur producendo opere di una bellezza glaciale. Queste superfici lisce e impersonali sono come specchi che restituiscono allo spettatore i propri pregiudizi sull’arte e sul genere.
La forza di Trockel è che mantiene un’ambiguità costante. Le sue opere non si riducono mai a una semplice critica femminista o a una pura esplorazione formale. Oscillano continuamente tra diversi livelli di lettura, creando un vertigine intellettuale che costringe lo spettatore a mettere in discussione le proprie certezze più radicate.
Il suo rifiuto sistematico di lasciarsi rinchiudere in una categoria è in sé un atto politico. Quando il mondo dell’arte ha cercato di ridurla a “l’artista che lavora a maglia”, ha iniziato a produrre video, sculture, installazioni. Quando si è voluto vederla solo come una femminista, ha creato opere che sfuggono a qualsiasi lettura di genere. Questa strategia di evitamento permanente è la sua firma più autentica.
Le installazioni più recenti di Trockel seguono questa logica di destabilizzazione permanente. In “Replace Me” (2011), un divano modernista ricoperto di plastica diventa una meditazione inquietante sul comfort borghese e sui suoi non detti. La superficie plastificata, con le sue tracce di pennello nere, evoca tanto una scena del crimine quanto una pittura astratta. È un oggetto che rifiuta di scegliere tra scultura e pittura, tra critica sociale ed esplorazione formale.
Il suo lavoro con la ceramica negli ultimi anni rappresenta forse la sua provocazione più audace. Creando forme che sembrano ispirate sia da meteoriti che da organi interni, continua a confondere i confini tra natura e cultura, tra organico e artificiale. Questi pezzi, con le loro superfici smaltate sensuali e le forme inquietanti, incarnano perfettamente l’ambivalenza che caratterizza tutta la sua opera.
La pratica di Trockel è una grande lezione su come l’arte possa mantenere il suo potere sovversivo nell’era del capitalismo tardivo. Rifiutando costantemente di dare al mercato ciò che si aspetta, evitando le trappole della firma stilistica, crea uno spazio di resistenza all’interno dello stesso sistema che critica.
Attraverso tutta la sua opera, Rosemarie Trockel mantiene una posizione unica: quella di un’osservatrice lucida che rifiuta sia il cinismo facile sia l’impegno ingenuo. Le sue opere sono macchine da pensiero che funzionano ancora a lungo dopo che le abbiamo distolte dagli occhi. Continuano a lavorare nella nostra mente, a erodere le nostre certezze, ad aprire nuove prospettive.
Il genio di Trockel risiede nella creazione di opere che funzionano simultaneamente come oggetti estetici seducenti e come bombe a orologeria concettuali. Ci ricorda che l’arte più potente è quella che rifiuta le soluzioni facili e mantiene vive le contraddizioni che ci definiscono.
















