Ascoltatemi bene, banda di snob, i corpi lacerati, deformati e intrecciati di Sema Maskili ci confrontano con la nostra selvaticità innata, quella che cerchiamo disperatamente di nascondere sotto la patina della nostra presunta civiltà. Le sue tele imponenti ti prendono alla gola al primo sguardo. Impossibile distogliere gli occhi da questi ammassi di carne dove l’anatomia umana, maltrattata da pennellate furiose, si trasforma in un teatro grottesco della nostra bestialità fondamentale. Raramente ho visto un dipinto contemporaneo così audace nel suo modo di esplorare gli abissi dell’anima umana.
Nata nel 1980 a Edirne, in Turchia, Maskili si è forgiata uno stile inimitabile dopo anni di studio rigoroso presso l’Università di Belle Arti Mimar Sinan di Istanbul. La sua formazione classica traspare nella sua padronanza tecnica, ma è nella deformazione espressionista che trova la sua vera voce. Le influenze sono evidenti: Gericault, Goya, Bacon, Freud, ma Maskili le assimila completamente per creare qualcosa di radicalmente personale. E fa male. Terribilmente male. Il suo lavoro ti strappa gli occhi per costringerti a vedere ciò che preferiresti ignorare.
La sua serie “Il Potere crea mostri”, che sviluppa dal 2017, rappresenta l’apice della sua visione artistica. Il titolo stesso è uno schiaffo concettuale, diretto, brutale, senza compromessi. In queste opere monumentali come “The Power Worshippers” (230 x 200 cm) o “Barbari” (185 x 145 cm), Maskili ci mostra senza filtri cosa la volontà di dominio fa ai nostri corpi e alle nostre menti. Le sagome umane si scontrano con una violenza animale, trasformandosi in masse di carne disarticolate, private di identità individuale, ridotte alla loro pulsione di dominio. L’umanità viene ridotta alla sua dimensione più cruda, quella di una lotta perpetua per la supremazia.
Questa esplorazione della violenza insita nella natura umana evoca inevitabilmente le teorie nietzschiane sulla “volontà di potenza”. Nietzsche, in “Al di là del bene e del male”, afferma che “la vita stessa è essenzialmente appropriazione, ferita, conquista dello straniero e del più debole, oppressione, durezza, imposizione delle proprie forme, incorporazione e, almeno nei casi più moderati, sfruttamento” [1]. È esattamente ciò che Maskili cattura nelle sue composizioni caotiche, questa pulsione primordiale di dominio che precede ogni morale, questa forza vitale che, quando è pervertita, trasforma gli esseri umani in predatori dei loro simili.
La pittura di Maskili non è semplicemente un’illustrazione dei concetti nietzschiani, li spinge al loro parossismo visivo, incarnandoli in corpi torturati che lottano per la loro sopravvivenza simbolica. Nella sua visione, la “volontà di potenza” non è quella forza creatrice che Nietzsche talvolta valorizzava, ma piuttosto il suo lato distruttivo, la sua deriva mostruosa quando non è più temperata da alcuna considerazione etica. I dipinti di Maskili sono popolati da superuomini degenerati, ubriachi del proprio potere ma privi di ogni umanità.
I loro corpi non sono semplicemente corpi, sono campi di battaglia ideologici, territori contesi dove si giocano lotte di potere viscerali. Guardate “Mob Psychology” (110 x 85 cm), dove la dinamica di gruppo si trasforma in una horda incontrollabile. L’opera analizza come l’individuo, assorbito nella massa, si spogli della sua umanità per abbandonarsi agli istinti più vili. Sono colpito dal modo in cui Maskili utilizza tonalità di giallo, verde e rosa agrumato per suggerire un’atmosfera tossica dove proliferano comportamenti abietti. Le sue scelte cromatiche sono di una precisione clinica, evocano la decomposizione morale con la stessa certezza con cui la gangrena segnala la morte imminente dei tessuti.
Attraverso le sue tele, Maskili si afferma come una delle voci più potenti dell’arte contemporanea turca. Non è un caso che sia stata una delle tre vincitrici del Luxembourg Art Prize nel 2022, prestigioso premio internazionale d’arte contemporanea. La sua visione artistica trascende le frontiere culturali per raggiungere una verità universale sulla nostra condizione umana. Fa parte di quelle artiste rare che riescono a cogliere qualcosa di essenziale della nostra epoca, quella tensione tra le nostre aspirazioni civili e le nostre pulsioni primitive che minaccia costantemente di far implodere il nostro fragile contratto sociale.
La forza di Maskili risiede nel suo rifiuto categorico dell’estetica facile. Rifiuta la bellezza convenzionale per creare immagini che disturbano e scuotono profondamente. I suoi corpi distorti ricordano la visione di Michel Foucault sulle relazioni di potere che si inscrivono direttamente sul corpo umano. In “Sorvegliare e punire”, Foucault scrive che “il corpo è direttamente immerso in un campo politico; le relazioni di potere esercitano su di esso una presa immediata; lo investono, lo marchiano, lo addestrano, lo torturano, lo costringono a lavori” [2]. I corpi mutilati e intrecciati di Maskili illustrano perfettamente questa teoria, sono il terreno dove si esercitano i rapporti di forza e dominazione, i ricettacoli passivi delle violenze istituzionali e interpersonali.
L’approccio foucaultiano al corpo come sito d’iscrizione delle relazioni di potere trova nell’opera di Maskili una traduzione visiva impressionante. Ogni deformazione, ogni distorsione anatomica può essere letta come la manifestazione fisica di una violenza sociale normalizzata. In “Barbarians” (185 x 145 cm), i corpi ammassati, privi di volto distinto, evocano questa “anatomia politica” di cui parla Foucault, quei corpi docili prodotti dai meccanismi disciplinari della società moderna. Ma Maskili va oltre mostrando la ribellione della carne contro questi vincoli, il suo rifiuto di conformarsi totalmente alle norme che cercano di addomesticarla.
Gli spazi metafisici in cui Maskili colloca le sue figure amplificano la loro alienazione esistenziale. Questi sfondi astratti con transizioni luminose brusche, con i loro colori bloccati e i paesaggi incerti, simboleggiano un mondo che sfugge sotto i nostri piedi, un universo privo di punti di riferimento stabili dove gli esseri vagano senza direzione. Sono non-luoghi in senso antropologico, spazi di transizione dove l’identità e la storia personale si dissolvono nell’anonimato. Le figure di Maskili sembrano condannate a un’erranza perpetua in queste limbi pittoriche, né del tutto qui, né del tutto altrove, sospese in un intermezzo scomodo che riflette la condizione precaria dell’individuo contemporaneo.
Nella sua opera “Self-Portrait”, Maskili ci offre un momento di verità cruda di un’intensità rara. Si rappresenta con i capelli tagliati, in omaggio alla resistenza delle donne iraniane dopo la morte di Mahsa Amini. È un quadro che trascende l’estetica per raggiungere una dimensione politica forte, un atto di solidarietà che inscrive il suo lavoro nelle lotte femministe contemporanee. Attraverso questo gesto, Maskili afferma che l’arte non è solo un’esplorazione formale o concettuale, è un posizionamento etico di fronte agli abusi di potere, una presa di parola che impegna la responsabilità dell’artista di fronte alle ingiustizie del suo tempo.
Questo ritratto rappresenta un momento cruciale nel percorso di Maskili, l’istante in cui l’universale e il particolare, il personale e il politico si incontrano in una sintesi potente. Tagliandosi i capelli, l’artista fa del proprio corpo il luogo di una resistenza simbolica. Così si unisce alla lunga tradizione degli artisti che hanno utilizzato il proprio corpo come mezzo politico, ma lo fa con sobrietà evitando la trappola dello spettacolare. Non c’è nulla di gratuito in questo gesto, esso si inserisce nella logica profonda del suo lavoro sulle dinamiche di potere e la reificazione dei corpi.
Non aspettatevi di uscire indenni dall’incontro con l’opera di Maskili. I suoi quadri vi perseguiteranno, si incarneranno sotto la vostra pelle come schegge dolorose che nessuna pinzetta concettuale potrà estrarre. Vi costringe a guardare in faccia quella parte d’ombra che preferiamo ignorare, il nostro potenziale di mostruosità quando cediamo alla tentazione del potere. La sua opera è uno specchio spietato teso a un’umanità che di solito preferisce riflessi lusinghieri a verità scomode.
Le campiture di colore violente e le pennellate frenetiche di Maskili ricordano l’espressionismo tedesco, ma con un’intensità contemporanea che testimonia le tensioni specifiche del nostro tempo. La sua palette, spesso dominata da verdi cadaverici, rosa carnagione e gialli malaticci, rafforza l’impressione di carne corrotta dalla violenza sistemica. Queste scelte cromatiche non sono casuali; traducono una visione lucida e disincantata dell’umanità, uno sguardo che ha attraversato le apparenze per raggiungere il nucleo duro della nostra condizione.
La tecnica pittorica di Maskili è particolarmente interessante. Il suo tratto alterna precisione anatomica ereditata dai maestri classici e deformazioni espressioniste che traducono la violenza delle emozioni. Questa dualità tecnica riflette perfettamente la tensione centrale della sua opera, quella tra il nostro strato superficiale di civiltà e le nostre pulsioni primitive. In alcune zone dei suoi quadri, controlla perfettamente il suo medium, creando passaggi di notevole finezza, prima di precipitare in gesti più impulsivi, quasi selvaggi, che suggeriscono la perdita di controllo, l’irruzione del caos nell’ordine precario dell’esistenza umana.
L’arte di Maskili si inscrive in una tradizione pittorica che risale a Goya e ai suoi “Désastres de la guerre”, dove l’orrore è mostrato senza concessioni. Come Goya, rifiuta di distogliere lo sguardo dagli abissi della condizione umana. Ma a differenza del maestro spagnolo, non documenta atrocità storiche specifiche, esplora solo i meccanismi psicologici universali che le rendono possibili, le strutture mentali che permettono agli esseri umani ordinari di compiere atti straordinari di crudeltà. È questa dimensione archetipica che conferisce alla sua opera la sua potenza universale.
Alcuni critici potrebbero vedere nel suo lavoro un pessimismo eccessivo, una visione riduttiva dell’umano che non lascerebbe spazio alcuno alla trascendenza o alla redenzione. Ma ciò significherebbe perdere l’essenza del suo approccio. Maskili non condanna l’umanità, la interroga con una lucidità implacabile. La sua pittura è uno specchio deformante ma necessario che ci rimanda alla nostra stessa ambivalenza morale, a quelle zone grigie della coscienza in cui i nostri principi dichiarati si scontrano con le nostre pulsioni inconfessabili. In questo senso, la sua opera è profondamente etica, ci invita a un’introspezione scomoda ma potenzialmente salvifica.
In “Power Causes Monsters Series (4)” (140 x 165 cm), Maskili affronta specificamente come le donne oppresse possano riprodurre gli stessi schemi di dominio tra loro quando si trovano in un contesto che valorizza la competizione e la gerarchia. È un’analisi fine delle dinamiche di potere che non si limita a una visione binaria oppressore/oppressa. Ella mostra come le strutture di dominio si interiorizzino e si perpetuino a tutti i livelli della società, come le vittime possano a loro volta diventare carnefici in un ciclo perverso che non fa che rafforzare il sistema che pretendono di combattere. Questa lucidità di fronte alle contraddizioni umane è proprio ciò che conferisce all’opera di Maskili la sua credibilità intellettuale e la sua profondità emotiva.
Il posto delle donne nelle dinamiche di potere è, del resto, un tema ricorrente nel lavoro di Maskili. Non perché ella adotti una posizione essenzialista che vedrebbe nella femminilità una garanzia contro la violenza, al contrario, mostra come le donne, tanto quanto gli uomini, possano essere corrotte dal potere quando lo esercitano secondo gli stessi paradigmi dominatori. Facendo ciò, si riallaccia alla prospettiva di Foucault sul carattere diffuso e onnipresente del potere, che non si riduce a una semplice relazione binaria tra dominanti e dominati, ma circola attraverso tutto il corpo sociale in una rete complessa di micro-relazioni.
Attraverso le sue mostre personali degli ultimi anni, inclusa la più recente “Power Causes Monsters” presso la Istanbul Concept Gallery (2023), Maskili ha sviluppato un linguaggio visivo coerente che esplora senza sosta le tensioni tra le nostre aspirazioni etiche e le nostre pulsioni animali. Il suo approccio non è solo estetico; è profondamente filosofico. Si iscrive nella tradizione dei grandi interrogatori della condizione umana, quegli artisti che non si limitano a rappresentare il mondo, ma cercano di rivelarne i meccanismi nascosti, gli ingranaggi invisibili che determinano i nostri comportamenti e le nostre relazioni.
Ciò che colpisce nell’evoluzione di Maskili è la coerenza della sua visione artistica nel corso degli anni. Dalla sua prima mostra personale “Dağınık Düşler” (Sogni disordinati) nel 2006 fino alla sua attuale esplorazione delle dinamiche di potere, si percepisce una progressione logica, un approfondimento costante dei suoi temi prediletti. Ogni nuova mostra non rappresenta una rottura con le precedenti, ma piuttosto uno scavo più profondo degli stessi territori psichici, come se l’artista scavasse pazientemente un tunnel verso la verità sotterranea della nostra umanità.
La mostra “What is Good, What is Evil ?” (Che cos’è il bene? Che cos’è il male?) del 2017 segna una tappa importante nel suo percorso. Affrontando frontalmente la questione etica fondamentale che tormenta l’umanità dalle sue origini, Maskili colloca esplicitamente il suo lavoro in una prospettiva filosofica. Evoca allora la figura di Bosch e il suo “Giardino delle delizie”, stabilendo un parallelismo tra il suo approccio e quello del maestro fiammingo che, sotto le spoglie di un’immagineria religiosa, offriva una meditazione profonda sulle follie e i vizi dell’umanità. Come Bosch, Maskili crea la propria iconografia, il proprio linguaggio visivo per esplorare le contraddizioni morali della nostra specie.
Il lavoro di Maskili ci ricorda che l’arte contemporanea più significativa non è quella che conferma le nostre certezze, ma quella che ci confronta con le nostre contraddizioni più dolorose. In un mondo saturo di immagini levigate e markettate, confezionate per un consumo senza rischi, i suoi dipinti agiscono come una scarica elettrica, risvegliando la nostra sensibilità intorpidita dal bombardamento visivo quotidiano e riportandoci brutalmente all’essenziale: questa lotta perpetua tra le nostre aspirazioni civilizzate e le nostre pulsioni distruttive.
L’arte di Maskili è politica, ma non nel senso banale in cui difenderebbe questa o quella causa specifica. È politica in un senso molto più profondo, poiché interroga le fondamenta stesse del vivere insieme, le condizioni di possibilità di una società che non sarebbe semplicemente governata dalla legge del più forte. Esponendo senza veli la violenza latente che sostiene le nostre interazioni sociali, ci invita a immaginare altre modalità di relazione, altri modi di esercitare il potere che non passerebbero necessariamente attraverso la sopraffazione dell’altro.
A questo proposito, è tentante vedere nell’approccio di Maskili un’illustrazione delle tesi di Nietzsche sulla possibilità di una trasmutazione dei valori. Confrontandoci con l’orrore di ciò che siamo, o almeno di ciò che possiamo diventare quando cediamo alle nostre pulsioni di dominio, apre paradossalmente uno spazio per immaginare ciò che potremmo essere. La sua pittura non propone soluzioni facili, né rimedi miracolosi alla violenza umana. Si limita a porre la diagnosi con precisione chirurgica, lasciando a ogni spettatore la responsabilità di meditare sulle implicazioni di ciò che vede.
Se non siete pronti a essere destabilizzati, a mettere in discussione la vostra parte oscura, cambiate strada. L’arte di Sema Maskili non è fatta per decorare i vostri interni asettici o impressionare i vostri ospiti durante cene mondane. È lì per scuotervi, disturbarvi, costringervi a guardare ciò che preferireste ignorare, la violenza nascosta nel cuore stesso della nostra umanità. E forse, in questo confronto scomodo con noi stessi, troveremo le risorse per inventare nuovi modi di essere umani insieme, al di là dei cicli di violenza e dominio che finora hanno definito la nostra storia collettiva.
- Friedrich Nietzsche, “Al di là del bene e del male”, Opere filosofiche complete, Gallimard, 1971.
- Michel Foucault, “Sorvegliare e punire: Nascita della prigione”, Gallimard, 1975.
















