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Martedì 18 Novembre

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Shepard Fairey : L’illusione ribelle di un buon business

Pubblicato il: 19 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Shepard Fairey trasforma lo spazio urbano in un catalogo visivo di resistenza politica. I suoi poster serigrafati, riconoscibili dalle tonalità rosse e nere, deviano i codici della propaganda per mettere in discussione il potere costituito e incoraggiare il pubblico a uscire dalla sua letargia consumistica.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Non so cosa sia più imbarazzante: l’ossessione di Shepard Fairey per il pastiche sovietico o la nostra compiacenza collettiva verso il suo riciclo permanente. Permettetemi di essere franco: Fairey ha costruito una carriera sull’appropriazione stilizzata e la mercificazione della ribellione, trasformando la protesta in un accessorio di moda per adolescenti privilegiati.

Dal suo primo adesivo “Andre the Giant Has a Posse” nel 1989 fino ai suoi ultimi manifesti per cause progressiste, Fairey ha perfezionato un’estetica immediatamente riconoscibile: grafiche pulite, una palette limitata (rosso, nero, crema) e un’aura artificiale di resistenza. Questo artista americano nato nel 1970 a Charleston, South Carolina, laureato alla Rhode Island School of Design, ha certamente talento per la composizione visiva, ma la sua arte soffre di una contraddizione fondamentale: critica il capitalismo consumista pur sfruttandolo con notevole abilità.

L’ironia non vi sfuggirà: mentre le sue opere murali denunciano “il potere del denaro” o “la corruzione politica”, il suo marchio di abbigliamento OBEY prospera vendendo t-shirt a giovani convinti di acquistare un pezzo di autenticità ribelle. Ammiravo quasi l’audacia del paradosso: creare un impero commerciale basato sull’anti-consumismo. È geniale marketing, certo, ma è anche una forma di dissonanza cognitiva elevata a forma d’arte.

Fairey ama presentarsi come un discendente spirituale dei costruttivisti russi e dei propagandisti rivoluzionari. Prende in prestito il loro vocabolario visivo con una convinzione tale che si potrebbe quasi dimenticare che siamo nel 2025, non nel 1925. I suoi poster dai colori saturi, gli angoli acuti e le composizioni dinamiche evocano effettivamente Aleksandr Rodchenko ed El Lissitzky. Ma mentre questi pionieri d’avanguardia reinventavano il linguaggio visivo per una nuova società, Fairey riproduce formule collaudate per decorare le camere degli adolescenti.

La critica più dura che si possa muovere a Fairey è forse quella dell’appropriazione culturale senza profondità. Ruba allegramente i movimenti artistici del passato senza veramente comprenderli o onorarli. Quando prende in prestito l’iconografia socialista per vendere felpe con cappuccio, non fa solo decontestualizzazione: neutralizza completamente il carico politico originario dei simboli che ricicla.

Il suo manifesto “Hope” per Barack Obama nel 2008 rimane la sua opera più conosciuta e, ironicamente, il suo lavoro più compiuto. Per una volta, il suo stile visivo serviva perfettamente il messaggio: la speranza di un cambiamento politico tangibile. Ma anche questo trionfo è finito in controversia legale quando l’Associated Press lo ha citato in giudizio per aver utilizzato senza autorizzazione una loro fotografia come base per il poster. Questa vicenda rivela un aspetto inquietante del suo approccio: una certa disinvoltura rispetto alle questioni di originalità e attribuzione.

Le retrospettive del suo lavoro, inclusa quella presentata nel 2019 a Grenoble durante lo Street Art Fest, emanano invariabilmente una sensazione di già visto. Le stesse formule grafiche, gli stessi slogan vagamente contestatari, la stessa estetica accuratamente calibrata per sembrare pericolosa senza esserlo mai davvero. L’arte di Fairey è come una versione pastorizzata della ribellione: abbastanza provocante da suscitare un brivido a un banchiere ma mai abbastanza sovversiva da minacciare davvero lo status quo.

Esaminiamo ora il suo rapporto con l’arte concettuale. Se consideriamo il concetto di arte come linguaggio, come teorizzato da Joseph Kosuth, l’opera di Fairey presenta una dissonanza interessante. Kosuth, nel suo saggio “L’arte dopo la filosofia” (1969), sosteneva che “l’arte esiste solo concettualmente” e che il suo valore risiede nella sua capacità di mettere in discussione la natura stessa dell’arte [1]. Fairey sembra aver compreso questa idea a metà: i suoi adesivi “OBEY” interrogano effettivamente il nostro rapporto con le immagini e i messaggi nello spazio pubblico, ma questa interrogazione viene rapidamente diluita dalla massiccia commercializzazione di queste stesse immagini.

Secondo Kosuth, la vera arte concettuale deve mantenere una tensione critica con le istituzioni che mette in discussione. In Fairey, questa tensione critica è costantemente compromessa dalla sua fretta di trasformare le sue creazioni in prodotti commerciali. Il suo lavoro diventa così una sorta di simulacro di arte concettuale, che ne imita i gesti senza conservarne la radicalità filosofica.

È particolarmente rivelatore che Fairey abbia dichiarato: “Considero il mio lavoro come un’esperienza fenomenologica”. Questo riferimento alla fenomenologia suggerisce la volontà di inserirsi in una seria tradizione filosofica. Ma la sua interpretazione della fenomenologia sembra superficiale, ridotta all’idea di base di provocare una reazione nello spettatore. La fenomenologia di Husserl o anche di Merleau-Ponty è molto più di una semplice teoria della percezione; propone una riconsiderazione fondamentale del nostro rapporto col mondo vissuto. Fairey ne estrae concetti isolati senza realmente confrontarsi con la loro complessità.

Ciò che è veramente frustrante nell’opera di Fairey è che contiene i germi di una critica sociale potenzialmente potente, ma questa critica è costantemente sabotata dalla sua stessa mercificazione. I suoi poster “We The People”, creati in reazione all’elezione di Donald Trump, illustrano perfettamente questa contraddizione: veicolano un messaggio progressista lodevole pur servendo principalmente a rafforzare il marchio “Shepard Fairey” e a generare vendite di prodotti derivati.

Nel campo dell’arte urbana, Fairey occupa una posizione particolare. Contrariamente a Banksy, il cui anonimato mantiene una certa integrità contestatrice, o a JR, i cui progetti comunitari hanno una reale dimensione sociale, Fairey ha scelto di diventare un marchio riconoscibile, un’azienda, un logo. Questa decisione non è necessariamente condannabile in sé, ma limita inevitabilmente la portata critica del suo lavoro.

Il rapporto di Fairey con la cultura pop rivela anche i limiti del suo approccio. Si presenta come un commentatore della società dei consumi, ma il suo commento si presenta invariabilmente sotto forma di oggetti di consumo. I suoi riferimenti alla cultura punk e skateboard degli anni ’80 e ’90 tradiscono una nostalgia per un’epoca in cui la controcultura sembrava avere ancora un potenziale sovversivo. Ma nel 2025, i suoi prestiti a questi movimenti somigliano di più a citazioni culturali che a una vera continuazione del loro spirito.

Per capire meglio le contraddizioni nell’arte di Fairey, è utile confrontarlo con Andy Warhol, un’influenza evidente sul suo lavoro. Warhol aveva l’onestà intellettuale di abbracciare pienamente la commercializzazione dell’arte. Non pretendeva di opporsi mentre vendeva serigrafie ai migliori offerenti. Come spiega Arthur Danto in “Andy Warhol” (2009), la forza di Warhol risiedeva nella sua capacità di confondere consapevolmente i confini tra cultura di massa e alta cultura, tra arte e commercio [2]. Fairey, invece, sembra voler mantenere un’immagine da ribelle pur seguendo esattamente lo stesso modello commerciale.

Questa ambivalenza si ritrova nel modo in cui Fairey tratta la questione dell’originale e della copia. Le sue serigrafie sono prodotte in edizione limitata, creando una rarità artificiale che contraddice il suo discorso sull’accessibilità dell’arte. Critica la società dello spettacolo pur partecipando attivamente ai suoi meccanismi. Guy Debord avrebbe senza dubbio riconosciuto in lui la perfetta incarnazione della sua teoria: una contestazione riciclata e trasformata in spettacolo.

Uno degli aspetti più sconcertanti del lavoro di Fairey è la sua tendenza a de-storicizzare i simboli che prende in prestito. Quando utilizza l’immaginario della propaganda sovietica o dei movimenti operai americani, li strappa dal loro contesto storico specifico per farne semplici segni estetici. Questa pratica è problematica perché riduce lotte politiche reali a semplici motivi decorativi.

Per essere giusti, Fairey ha sostenuto molte cause progressiste negli anni, dall’ambientalismo ai diritti civili. Il suo impegno per queste cause sembra sincero. Ma resta la domanda: la sua arte è veramente al servizio di queste cause, o queste cause sono al servizio della sua arte? Quando un manifesto “Defend Dignity” o “We The People” diventa principalmente identificabile come “un Shepard Fairey”, il messaggio rischia di essere oscurato dalla firma.

Non posso fare a meno di pensare alla critica che Roland Barthes faceva della fotografia in “La camera chiara” (1980). Barthes distingueva lo “studium” (l’apprezzamento culturale, intellettuale di un’immagine) dal “punctum” (il dettaglio commovente che ci tocca personalmente) [3]. Le opere di Fairey sono ricche di studium, sono tecnicamente compiute e culturalmente codificate, ma crudelmente prive di punctum. Non ci raggiungono realmente, non ci toccano oltre a un riconoscimento intellettuale dei loro riferimenti.

Detto ciò, sarebbe ingiusto negare completamente l’impatto culturale di Fairey. La sua capacità di infiltrarsi nello spazio urbano con immagini che interrompono almeno momentaneamente il flusso dei messaggi pubblicitari merita di essere riconosciuta. In un mondo saturo di loghi commerciali, i suoi interventi possono creare istanti di pausa riflessiva, anche se questa riflessione è spesso di breve durata.

Inoltre, il suo uso delle tecniche di serigrafia ha contribuito a popularizzare questo mezzo presso una nuova generazione di artisti. La sua maestria tecnica è indiscutibile, anche se si possono criticare gli usi che ne fa. Gli strati sovrapposti delle sue opere, la loro ricchezza testurale e il loro equilibrio cromatico testimoniano una vera abilità artigianale.

Va anche riconosciuto che Fairey è riuscito a navigare nel mondo dell’arte contemporanea senza sacrificare la sua accessibilità, un equilibrio difficile da mantenere. Il suo lavoro può essere apprezzato a diversi livelli, da diversi pubblici, cosa non da poco. Che si sia un appassionato d’arte sofisticata o un adolescente che scopre l’arte urbana, si può trovare una porta d’ingresso nella sua opera.

Il vero paradosso di Shepard Fairey è forse questo: il suo successo commerciale su larga scala ha finito per convalidare il suo talento artistico agli occhi del mondo dell’arte, ma questo stesso successo commerciale compromette la credibilità del suo messaggio anti-establishment. È diventato esattamente ciò che pretendeva criticare: un marchio, un logo, un’impresa.

Nel 2025, mentre affrontiamo crisi ambientali, sociali e politiche di portata senza precedenti, l’arte di Fairey sembra stranamente innocua e datata. I suoi poster possono ancora decorare i muri delle università e dei bar alla moda, ma il loro potere di provocazione si è in gran parte eroso col tempo. Sono diventati segnali di virtù visiva piuttosto che veri appelli all’azione.

Se confrontiamo il suo impatto con quello di artisti come Ai Weiwei, il cui lavoro ha comportato un reale costo personale e politico, o Zanele Muholi, le cui opere documentano e affrontano ingiustizie sistemiche con un’urgenza palpabile, l’approccio di Fairey appare relativamente comodo e senza rischi.

Se avete seguito il mio ragionamento fin qui, capirete che la mia critica a Fairey non è tanto una critica del suo talento artistico quanto una critica della sua posizione ambivalente nei confronti del sistema che pretende di contestare. Vorrebbe essere allo stesso tempo il ribelle e il mercante, il critico e il beneficiario, l’outsider e l’insider.

Questa posizione è forse inevitabile nella nostra epoca in cui i confini tra controcultura e cultura dominante sono costantemente sfumati, dove la ribellione si trasforma immediatamente in una tendenza di marketing. Ma riconoscere questa realtà non significa che si debba accettarla senza critica.

In un’intervista con Juxtapoz nel 2019, Fairey dichiarava: “Credo che l’arte possa cambiare il mondo cambiando il modo in cui le persone vedono il mondo” [4]. Questa ambizione è lodevole, ma solleva una questione fondamentale: la sua arte cambia veramente la nostra visione del mondo, o conferma solo ciò che già sappiamo, offrendoci il conforto di una pseudo-contestazione senza gli inconvenienti di una vera messa in discussione?

L’opera di Shepard Fairey è uno specchio perfetto della nostra epoca: visivamente sorprendente ma concettualmente ambivalente, politicamente impegnata ma commercialmente complice, nostalgica di un tempo di resistenza autentica pur partecipando pienamente alla sua mercificazione. È proprio questa ambivalenza che la rende allo stesso tempo affascinante e profondamente frustrante, un simbolo perfetto delle nostre stesse contraddizioni collettive.


  1. Kosuth, Joseph. “L’arte dopo la filosofia”, Studio International, vol. 178, n. 915, 1969.
  2. Danto, Arthur. “Andy Warhol”, Yale University Press, 2009.
  3. Barthes, Roland. “La chambre claire : Note sur la photographie”, Gallimard, 1980.
  4. “Shepard Fairey : Still Obeying After All These Years”, Juxtapoz, vol. 211, 2019.
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Riferimento/i

Shepard FAIREY (1970)
Nome: Shepard
Cognome: FAIREY
Altri nome/i:

  • Frank Shepard Fairey
  • Obey

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 55 anni (2025)

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