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Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Sola al mondo : Gli autoritratti di Jenny Ymker

Pubblicato il: 14 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Nelle sue arazzi contemporanei, Jenny Ymker si rappresenta in situazioni stranamente familiari, trasformando le sue fotografie in arazzi tessuti. Il suo lavoro esplora l’alienazione e la solitudine, creando un universo visivo dove ogni scena diventa un invito alla contemplazione e all’interpretazione personale.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Jenny Ymker non è quello che pensate. Quest’artista olandese, che tesse arazzi con una tecnica ancestrale unita alla fotografia contemporanea, è riuscita a creare un universo singolare che disorienta tanto quanto cattura. Se non avete mai visto le sue opere, immaginate arazzi monumentali dove la stessa donna, l’artista stessa, appare sempre sola, immobilizzata in situazioni allo stesso tempo banali e assurde. Una donna seduta su un ceppo in mezzo a una foresta devastata, con una valigia in mano. Un’altra che letteralmente tampona il mare con un panno e un secchio. O ancora, colei che, in un salotto vuoto e triste, cerca qualcosa nella sua borsa mentre dei palloncini fluttuano sul soffitto.

Alcuni critici si limiterebbero a vedere in questo lavoro una semplice estetica malinconica o nostalgica. È proprio qui che mi discosto. Perché Jenny Ymker ci parla di alienazione esistenziale, della condizione umana contemporanea, e lo fa con un’ironia mordace che pochi sanno cogliere. I suoi arazzi sono specchi che ci riflettono la nostra stessa assurdità.

Il processo creativo di Ymker è singolare. Inizia mettendo in scena fotografie dove è sia regista sia modella. Sceglie con cura gli accessori, i vestiti, i luoghi. Poi trasforma queste foto in arazzi tessuti, o “gobelins” come li chiama lei stessa, evocando quelle opere tessute storicamente prodotte presso la Manufacture nationale des Gobelins di Parigi. Un approccio che associa il medium tradizionale dell’arazzo alla contemporaneità dell’autoritratto messo in scena.

Nella storia dell’arte occidentale, l’arazzo è stato a lungo considerato un’arte minore, relegata alla sfera domestica, all’artigianato “femminile”. Prendendo in mano questo medium, Ymker fa più che riabilitare una tecnica: sovverte i codici. Prende un’arte un tempo destinata a riscaldare i freddi muri dei castelli e a narrare le imprese dei potenti, e la trasforma in una narrazione personale, intima, stravagante.

Prendiamo la sua opera “Vervlogen” (Bygone): una donna (Ymker) è seduta su un divano in una stanza poco illuminata. Dei palloncini colorati fluttuano sul soffitto. È vestita sobriamente, assorbita dal contenuto della sua borsa, mentre una tazza e un piattino sono posati, solitari, sul tavolo. Il titolo ci indica che si tratta di “lasciare andare”. Ma cosa lascia andare? La festa che non si è tenuta? Gli invitati che non sono mai arrivati? O forse è una metafora più ampia sul passare del tempo, su quei momenti che ci sfuggono?

La forza di Ymker risiede nella sua capacità di creare immagini iconiche, nel senso che rimangono impresse nella nostra memoria, ma la cui iconografia resta aperta all’interpretazione. Lo storico dell’arte Ernst Gombrich avrebbe adorato questa ambiguità semiotica [1]. Nei suoi scritti sulla percezione visiva, Gombrich sottolinea come la nostra interpretazione delle immagini sia condizionata dalle nostre aspettative e dal nostro bagaglio culturale. Gli arazzi di Ymker giocano proprio su queste aspettative, le distorcono, creano un turbamento percettivo che ci costringe a rivedere il nostro rapporto con l’immagine.

Ciò che mi interessa particolarmente nel suo lavoro è la tensione permanente tra familiarità e estraneità. Julia Kristeva, nella sua analisi dell’”inquietante straniezza” (concetto preso in prestito da Freud), ci ricorda che ciò che è più disturbante non è l’alterità radicale, ma ciò che è quasi come noi, quasi familiare, ma non del tutto [2]. Le scene di Ymker operano esattamente in questo registro. Sono riconoscibili, una donna in un salotto o in un paesaggio, ma la loro logica narrativa ci sfugge.

L’opera “Mopping” illustra perfettamente questa dimensione. Una donna strizza l’acqua del mare con un pezzo di tessuto e un secchio. Un’azione inutile, interminabile, assurda. Non è forse questa una metafora perfetta della condizione umana contemporanea? Ci consumiamo in compiti infiniti, la cui utilità ci sfugge, in un mondo che sembra sempre più insensato. Albert Camus avrebbe visto in Ymker un’artista del sentimento assurdo per eccellenza.

C’è qualcosa di profondamente cinematografico nell’opera di Ymker, non nel senso del movimento, dato che i suoi personaggi sono immobili, ma nella costruzione dell’inquadratura, in quella sospensione temporale che ricorda alcune scene fisse del cinema di Michelangelo Antonioni o Ingmar Bergman. Registi che, come lei, sapevano creare immagini in cui la solitudine umana si dispiega in tutta la sua complessità visiva.

La solitudine, proprio lei, è onnipresente nel suo lavoro. Ma non una solitudine romantica, eroica. Piuttosto una solitudine ordinaria, quotidiana, quella che ci abita anche quando siamo circondati dagli altri. “Ho lavorato nel campo della sanità per un certo periodo”, spiega Ymker. “Se una persona non è più in grado di raccontare un evento, per quanto piccolo sia, questa persona perderà progressivamente il senso di significato, di importanza” [3]. Questa riflessione sull’importanza del racconto, della capacità di raccontarsi, attraversa tutta la sua opera.

In “The sky is deep”, una donna è in piedi su un tronco d’albero in mezzo a un campo di ceppi tagliati, apparentemente in cammino con una valigia in mano. Dove sta andando? Come passa da un tronco all’altro? Domande assurde, ovviamente, poiché l’immagine la fissa in questo istante sospeso. È proprio questo momento indeciso, assurdo, che sembra durare eternamente e che viene presentato così chiaramente, a conferire all’opera il suo carattere iconico o meglio carismatico. L’iconografia dell’opera è soggetta a diverse interpretazioni, ma l’immagine stessa rimane memorabile.

La stoffa stessa dell’arazzo contribuisce a questa estetica. La struttura granulare del tessuto conferisce alle immagini una qualità particolare, a metà strada tra la precisione fotografica e una certa granularità che evoca i primi tempi della fotografia. Questa materialità rafforza l’impressione di immagini sospese fuori dal tempo, come se emergessero da una memoria collettiva confusa.

Tecnicamente, il processo di creazione è molto interessante. Una volta scattata la fotografia, Ymker la trasforma in un motivo di tessitura. In collaborazione con il tessitore, seleziona i colori appropriati di lana e cotone. Vengono prima tessuti dei campioni per permettere degli aggiustamenti, prima che l’arazzo definitivo venga realizzato. Ciò che mi piace di questo processo è la trasformazione di un’immagine istantanea (la fotografia) in un oggetto che richiede settimane, se non mesi, di lavoro meticoloso. È un rallentamento deliberato, quasi una forma di resistenza all’accelerazione costante della nostra epoca.

In alcuni dei suoi arazzi, Ymker ricama poi alcune parti dell’immagine per accentuare elementi specifici. In “Bevroren tranen” (Lacrime congelate), ispirato al “Viaggio d’inverno” di Franz Schubert, i pezzi di ghiaccio sono ricamati con fili d’argento. Questa attenzione ai dettagli, questa ibridazione delle tecniche, apporta una dimensione tattile in più all’opera.

Jenny Ymker si inscrive in una linea di artiste donne che utilizzano l’autoritratto come strumento di esplorazione identitaria e sociale. Cita lei stessa Cindy Sherman e Francesca Woodman tra le sue influenze. Come Sherman, usa il proprio corpo come veicolo narrativo, assumendo diversi ruoli per interrogare meglio il nostro rapporto con il mondo. Ma mentre Sherman gioca con gli stereotipi mediatici e cinematografici, Ymker esplora territori più intimi, più esistenziali.

L’opera “Escape”, realizzata per il castello di Muiden nell’ambito della mostra “Armata di bellezza, donne e potere dal Medioevo”, illustra perfettamente questa dimensione. Il pezzo prende come punto di partenza la falconeria, che per le donne di alta nascita nel Medioevo era un modo per sfuggire con eleganza al ricamo o alla passeggiata. In quest’opera, una donna tiene cinque falchi che volano in tutte le direzioni. Tuttavia, non viene tirata da una parte o dall’altra dagli uccelli ma resta al suo posto. Per Ymker, questa immagine rappresenta la libertà e la forza. C’è qui una sottile sovversione delle aspettative legate al genere. La donna controlla queste forze che potrebbero sbilanciarla. Rimane ancorata, sovrana. È una potente metafora dell’emancipazione femminile, senza essere didattica o esplicita.

Questa dimensione politica sottostante attraversa l’intera opera di Ymker. Non si tratta di una politica in senso partigiano, ma di una politica dello sguardo, della rappresentazione. Sceglie deliberatamente abiti, borse, scarpe del passato per rafforzare il senso di alienazione rispetto all’ambiente. Questa scelta non è casuale: colloca i suoi personaggi in una temporalità indeterminata, né del tutto contemporanea, né del tutto storica. È un limbo che ci destabilizza, ci obbliga a distaccarci dai nostri punti di riferimento abituali.

“Il mondo dell’immaginazione può sembrare più reale della realtà stessa”, afferma Ymker [3]. Questa frase potrebbe servire da manifesto per tutta la sua opera. Non cerca di riprodurre fedelmente il reale, ma di creare mondi che, proprio per la loro stranezza, ci parlano più profondamente della nostra condizione rispetto a una rappresentazione mimetica.

In “Hope”, un’opera del 2019, Ymker si ispira a una pratica del passato: inviare un palloncino con una cartolina con il proprio nome e indirizzo, nella speranza che qualcuno lontano la trovi e manderà una lettera. “È la speranza che qualcuno ti veda”, spiega lei. Non è forse, in fondo, ciò che tutti cerchiamo? Essere visti, riconosciuti, esistere nello sguardo dell’altro?

Questa ricerca di riconoscimento attraversa la storia dell’arte sin dalle sue origini. Il sociologo Pierre Bourdieu ha analizzato come il campo artistico fosse strutturato attorno a questa ricerca di legittimità e riconoscimento [4]. Ma Ymker sposta questa questione dal campo istituzionale verso un’interrogazione più esistenziale: come esistere autenticamente in un mondo in cui la visione dell’altro può allo stesso tempo convalidarci e alienarci?

La sua opera “Landscape in White”, realizzata nel 2020 per il centro di lotta contro il cancro Antoni van Leeuwenhoek, illustra questa dimensione esistenziale con una potenza particolare. L’arazzo mostra un paesaggio invernale. “Ma dopo l’inverno arriva la primavera e l’estate”, commenta Ymker. “Anche gli eventi della nostra vita conoscono queste stagioni. La persona nell’opera cammina con coraggio e fiducia su una corda solida. È questa fiducia e coraggio che voglio mostrare con questo arazzo a parete” [5]. In questo particolare contesto ospedaliero, l’opera assume una risonanza ulteriore, offrendo ai pazienti una metafora visiva di speranza e resilienza.

Ciò che mi piace nel lavoro di Ymker è la sua capacità di creare immagini che ci perseguitano a lungo dopo averle viste. I suoi “gobelins” sono come strani sogni di cui ci ricordiamo al risveglio, senza riuscire a coglierne completamente il significato, ma la cui atmosfera persiste. Evocano ciò che lo psicoanalista Jacques Lacan chiamava “il reale”, quella dimensione dell’esperienza che sfugge alla simbolizzazione, che resiste al nostro tentativo di metterla in parole [6].

Forse è per questo che le sue opere ci toccano così profondamente. In un mondo saturo di immagini esplicite, che non lasciano spazio ad ambiguità, Ymker crea spazi visivi dove il mistero può ancora abitare. I suoi arazzi non ci invitano a consumare passivamente immagini, ma a impegnarci attivamente nella loro interpretazione, a tessere le nostre storie a partire dai fili che lei ci offre.

Jenny Ymker è un’artista del silenzio, della sospensione, dell’intermezzo. I suoi personaggi abitano spazi transitori, non-luoghi, momenti di attesa. Sono come tutti noi: presi tra un passato che si allontana e un futuro incerto, cercando di dare un senso alla nostra presenza nel mondo. Ma, a differenza di molti artisti contemporanei che affrontano questi temi con cinismo o disperazione, Ymker mantiene una forma di dignità, anzi una speranza discreta.

Il suo lavoro non cerca un aspetto spettacolare, non vuole abbagliarci con effetti tecnici o provocazioni facili. Opera in modo più sottile, più contenuto. È un’arte che richiede tempo, attenzione, che non svela subito tutti i suoi segreti. In un mondo artistico spesso dominato dall’immediatezza e dalla sovrabbondanza visiva, questa riservatezza è quasi sovversiva.

Senza dubbio è questa qualità che ha valso a Ymker il prestigioso Luxembourg Art Prize nel 2019, un riconoscimento internazionale meritato per questa artista che, dal suo atelier di Tilburg, tesse pazientemente un universo visivo unico, all’incrocio tra fotografia, arazzo e performance. Perché c’è una dimensione performativa nel suo lavoro, anche se si svolge senza pubblico. Ymker si mette in scena, abita fisicamente le situazioni che crea. “Per me è una parte essenziale del processo creativo, creare un certo mondo ed esserne parte io stessa in quel momento, stare in quella situazione per un po'” [3]. Questa esperienza corporea, questa vita fisica delle situazioni che rappresenta, infonde alle sue opere un’autenticità particolare.

La scelta stessa dell’arazzo come mezzo finale non è casuale. Contrariamente alla fotografia, che cattura un istante, l’arazzo si inscrive nella durata, sia nella sua creazione che nella sua materialità. Gli arazzi di Ymker resistono all’obsolescenza programmata delle immagini digitali contemporanee. Si inseriscono in una temporalità lunga, quasi anacronistica nella nostra epoca di accelerazione costante. Questa tensione tra contemporaneità e anacronismo attraversa tutta la sua opera. Le sue mise en scène sono attuali, ma i suoi personaggi sembrano provenire da un’altra epoca. Questo sfasamento temporale crea un effetto di distanziamento che ci permette di vedere il nostro presente con uno sguardo nuovo, distaccato.

Jenny Ymker ci ricorda che l’arte non deve essere fracassante per essere incisiva. Che le immagini più memorabili sono spesso quelle che sussurrano piuttosto che quelle che urlano. Che la bellezza può essere un veicolo di interrogativi potente quanto la provocazione. In un panorama artistico contemporaneo spesso dominato dal rumore e dalla furia, la sua opera è un’isola di silenzio eloquente.

Allora, la prossima volta che incontrerete uno dei suoi arazzi, prendetevi il tempo di soffermarvi su di essi. Lasciatevi abitare da queste immagini strane e familiari allo stesso tempo. Chiedetevi cosa risvegliano in voi. Perché, come diceva la stessa Ymker: “Nel mio lavoro rappresento situazioni con l’intenzione di evocare storie negli spettatori. Cerco sempre di non essere troppo letterale, affinché gli spettatori abbiano spazio per scoprire le proprie storie” [3].

Forse questo è, alla fine, il genio di Ymker: creare opere che sono meno oggetti finiti e più inviti a un viaggio interiore. Opere che ci tendono uno specchio in cui possiamo proiettare i nostri dubbi, le nostre erranze. Opere che, sotto la loro apparente semplicità, celano mondi interi da esplorare.


  1. Gombrich, Ernst. (1960). Arte e Illusione: uno studio nella psicologia della rappresentazione pittorica. Princeton, Princeton University Press.
  2. Kristeva, Julia. (1988). Estranei a noi stessi. Parigi, Fayard.
  3. Approccio artistico di Jenny Ymker, Luxembourg Art Prize, 2019.
  4. Bourdieu, Pierre. (1992). Le regole dell’arte: genesi e struttura del campo letterario. Parigi, Seuil.
  5. Sito internet del centro di lotta contro il cancro Antoni van Leeuwenhoek. Pagina sulla mostra “Jenny Ymker, Landscape in White” (visitata a maggio 2025).
  6. Lacan, Jacques. (1973). Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Parigi, Seuil.
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Riferimento/i

Jenny YMKER (1969)
Nome: Jenny
Cognome: YMKER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Paesi Bassi

Età: 56 anni (2025)

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