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Martedì 18 Novembre

ArtCritic favicon

Steven Meisel: Lo sguardo che trascende la moda

Pubblicato il: 4 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Steven Meisel trasforma la fotografia commerciale in un manifesto sociale. Questo visionario newyorkese dissseca la nostra epoca con il suo occhio implacabile, creando immagini che trascendono la moda per diventare veri e propri testimoni culturali, dove ogni dettaglio è sottoposto alla sua volontà creativa.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Steven Meisel non è un semplice fotografo di moda. È l’occhio implacabile che ha dissacrato la nostra epoca, la mano che ha scolpito l’identità visiva di un’intera generazione, e la mente che ha trasformato la fotografia commerciale in un vero manifesto sociale. Da quando ha posato il suo Instamatic sulla sua prima vittima consenziente negli anni ’70, questo newyorkese nato nel 1954 ha reinventato i codici di un mezzo che pensavamo di conoscere.

Meisel è quel genio inquietante che si nasconde dietro ogni copertina di Vogue Italia per più di due decenni, quel visionario che ha orchestrato lo scandaloso libro “Sex” di Madonna, quell’artista che ha creato quasi tutte le campagne Prada dal 2004. Ma ridurre Meisel alle sue prestigiose collaborazioni è come pretendere che Picasso fosse soltanto un decoratore di ceramiche.

Meisel è quel raro fenomeno nel mondo della moda: un uomo che è riuscito a infiltrarsi in questo circo di vanità per trasformarlo in teatro sociale. La sua fotografia non è una semplice documentazione, è un’insurrezione visiva permanente. Immaginate un po’: questo newyorkese che, fin dall’infanzia, inseguiva le modelle per le strade con la sua Instamatic per catturarne l’essenza, è diventato colui che ridefinisce ciò che consideriamo bello, scioccante o degno di essere guardato.

Il suo percorso è curiosamente ironico, questo laureato in illustrazione alla Parsons School of Design ha iniziato disegnando la moda prima di catturarla attraverso il suo obiettivo. Ha trasformato un occhio formato al tratto e al colore in una macchina per decostruire lo spettacolo sociale che chiamiamo “moda”. Questa metamorfosi non è casuale, rivela la profondità filosofica che sottende il suo lavoro.

Se esaminiamo la sua opera attraverso il prisma della filosofia esistenzialista di Simone de Beauvoir, il legame diventa evidente. Beauvoir ci ha insegnato che “Non si nasce donna, lo si diventa” [1], un’affermazione che risuona profondamente nel lavoro di Meisel. Le sue serie fotografiche non mostrano semplicemente delle donne, espongono come la società fabbrica “la donna” come concetto e come spettacolo. Prendete la sua famosa serie “Makeover Madness” per Vogue Italia nel 2005: modelle avvolte in bendaggi post-operatori, vestite di haute couture. Non è forse la perfetta illustrazione visiva della costruzione sociale del femminile che Beauvoir teorizzava?

Beauvoir scriveva che “il corpo della donna è uno degli elementi essenziali della situazione che essa occupa in questo mondo” [2]. Meisel coglie questa realtà con una dolorosa acutezza. Quando fotografa Kristen McMenamy al Ritz Parigi nel 1993, nuda tranne che per un sontuoso cappello, non si tratta di erotismo facile ma di una dimostrazione cruda di come il corpo femminile sia simultaneamente celebrato e oggettificato nella nostra cultura.

Il genio di Meisel risiede nella sua capacità di usare gli stessi strumenti dell’industria della moda, l’illuminazione impeccabile, la composizione perfetta, le modelle sublimi, per riflettere lo specchio verso di noi e dire: “Guardate cosa facciamo, guardate cosa celebriamo, guardate cosa puniamo”. È una forza filosofica mascherata da fotografia di moda.

Consideriamo ora il suo lavoro da un’altra prospettiva: quella della sociologia e in particolare delle teorie di Pierre Bourdieu sulla distinzione sociale. Bourdieu sosteneva che il gusto non è mai innocente, è sempre un marcatore di classe e uno strumento di dominio sociale [3]. Le fotografie di Meisel giocano proprio in questo territorio. Il suo “Black Issue” di Vogue Italia nel 2008, dove tutte le modelle erano nere, non era solo una celebrazione della bellezza nera, ma una critica incisiva dei meccanismi di esclusione presenti nell’industria della moda.

“La moda è totalmente razzista,” ha dichiarato lo stesso Meisel. “Il fatto di scattare foto ti permette talvolta di fare una dichiarazione più ampia” [4]. Attraverso questa edizione emblematica, ha usato il suo potere per esporre come la moda costruisce la propria gerarchia sociale razzializzata, la propria economia di valore basata sull’esclusione. È esattamente ciò che Bourdieu chiamava la “violenza simbolica”, quella forma di dominio che si esercita con la complicità tacita degli dominati.

Meisel comprende che la moda è un sistema di segni che comunica e rafforza le gerarchie sociali. La sua serie “Super Mods Enter Rehab” (2007) mostra mannequin che interpretano tossicodipendenti glamour. Questa serie ha suscitato indignazione proprio perché metteva in mostra come la moda si appropria persino della sofferenza per trasformarla in uno spettacolo consumabile. Bourdieu avrebbe apprezzato questo gioco metanarrativo, una critica del sistema realizzata all’interno dello stesso sistema.

In “State of Emergency” (2006), Meisel mette in scena mannequin molestate da “poliziotti” durante una sessione fotografica. I corpi femminili glamour diventano il teatro di una violenza sociale stilizzata. Come scriveva Bourdieu, “il corpo è la più irrefutabile oggettivazione del gusto di classe” [5]. Meisel trasforma questi corpi in campi di battaglia sociologica.

La carriera di Meisel è costellata di momenti in cui usa il linguaggio della moda per mettere in discussione la moda stessa. Quando ha fotografato Madonna per il suo libro “Sex” nel 1992, non si trattava semplicemente di provocazione, era un’esplorazione di come i corpi (particolarmente femminili) sono codificati, di come la sessualità è costruita e messa in scena nella nostra cultura. Madonna e Meisel comprendevano entrambi che il sesso non è mai semplicemente naturale, è sempre culturalmente costruito, sempre performativo.

Ciò che è affascinante di Meisel è che opera dall’interno. A differenza della maggior parte dei critici della moda che lanciano le loro frecce dall’esterno, lui è nel cuore di questa macchina. Ha fotografato praticamente tutte le copertine di Vogue Italia per due decenni. Ha realizzato campagne per Versace, Dolce & Gabbana, Prada e innumerevoli altri marchi di lusso. È l’ultimo insider diventato sovversivo.

Questa posizione unica gli conferisce un’autorità incontestabile. Quando Simone de Beauvoir criticava la condizione femminile, parlava come donna; quando Bourdieu analizzava i meccanismi di distinzione sociale, parlava come accademico proveniente da un ambiente modesto. Meisel parla della moda come stilista. La sua critica è tanto più devastante perché arriva da qualcuno che conosce intimamente i meccanismi del sistema.

Alla fine della carriera, molti fotografi cadono nella ripetizione o nell’auto-parodia. Non Meisel. Ogni nuova serie è una reinvenzione. Questa capacità di rinnovarsi mantenendo una coerenza intellettuale testimonia un’intelligenza visiva eccezionale. Come scriveva Susan Sontag: “La fotografia è, prima di tutto, un modo di vedere” [6]. E il modo di vedere di Meisel è sempre in evoluzione, sempre alla ricerca delle contraddizioni della nostra epoca.

La sua recente retrospettiva “Steven Meisel 1993 A Year in Photographs”, presentata in Spagna, ci ricorda l’intensità creativa con cui lavorava già all’inizio della sua carriera. In un solo anno, aveva prodotto 28 copertine per Vogue e oltre cento editoriali. Questa produttività frenetica non è quella di un semplice tecnico, ma di un artista posseduto dall’urgenza di commentare il suo tempo.

Se alcuni fotografi di moda cercano di creare immagini senza tempo, Meisel cerca di catturare precisamente la temporalità della nostra epoca, le sue ossessioni, le sue paure, i suoi fantasmi. La sua fotografia è radicata nella storia, non come un documento passivo, ma come un intervento attivo. Non fotografa semplicemente la moda, fotografa la nostra relazione culturale con la moda, il nostro investimento psichico in quei tessuti e pose.

Beauvoir scriveva che “è attraverso il lavoro che la donna ha in gran parte superato la distanza che la separava dal maschio; è il lavoro che può solo garantirle una libertà concreta” [7]. In modo simile, Meisel utilizza il suo lavoro fotografico per colmare la distanza tra la superficialità presunta della moda e una critica culturale sostanziale. Il suo lavoro garantisce una libertà concreta alle immagini di moda, la libertà di essere più di semplici pubblicità, la libertà di portare un commento sociale.

Bourdieu, a sua volta, osservava che “il gusto classifica, e classifica chi classifica” [8]. Meisel, classificando e categorizzando costantemente attraverso le sue scelte visive, si sottopone lui stesso al giudizio. La sua longevità in un’industria notoriamente volatile suggerisce che ha guadagnato il diritto di classificare, di stabilire ciò che è degno di essere visto e come dovrebbe essere visto.

Forse la cosa più ironica è che lo stesso Meisel rimane in gran parte invisibile. Contrariamente ad altri fotografi famosi che coltivano la propria immagine pubblica, Meisel è notoriamente discreto, raramente fotografato, concede poche interviste. Questa assenza deliberata dal quadro pubblico contrasta con l’onnipresenza del suo lavoro. Diventa così una sorta di presenza fantomatica nel mondo della moda, ovunque e in nessun luogo contemporaneamente.

Questa postura ricorda quella del filosofo, che osserva il mondo senza necessariamente intervenire direttamente. Come Beauvoir, che analizzava le strutture sociali mantenendo una distanza critica, o come Bourdieu, che mappava i campi sociali riconoscendo la propria posizione in essi, Meisel osserva, documenta e critica rimanendo nell’ombra.

Ciò che distingue Steven Meisel non è la sua maestria tecnica (sebbene innegabile), né la sua capacità di catturare la bellezza (sebbene straordinaria), ma la sua volontà di trasformare la fotografia di moda in uno strumento di indagine sociale e filosofica. In un mondo dove le immagini sono sempre di più ma sempre meno significative, Meisel crea fotografie che richiedono e ricompensano l’attenzione.

Ci ricorda che vedere non è mai un atto innocente, è sempre un atto di giudizio, di classificazione, di posizionamento sociale. E in questa economia visiva sovraccarica che caratterizza la nostra epoca, il suo lavoro resta un invito a guardare con più attenzione, più criticamente, più in profondità. Non semplicemente per ammirare la superficie scintillante della moda, ma per scorgere le strutture profonde che sostengono questa superficie.

Steven Meisel non è solo un fotografo di moda, è un filosofo visivo, un sociologo dell’immagine, un antropologo del glamour. E in un mondo sempre più definito da immagini superficiali, il suo sguardo penetrante è più necessario che mai.


  1. Simone de Beauvoir, “Il secondo sesso”, Gallimard, 1949.
  2. Simone de Beauvoir, “Il secondo sesso, Volume I: I fatti e i miti”, Gallimard, 1949.
  3. Pierre Bourdieu, “La distinzione: critica sociale del giudizio”, Les Éditions de Minuit, 1979.
  4. Steven Meisel, intervista per 032c Magazine, dicembre 2008.
  5. Pierre Bourdieu, “La distinzione: critica sociale del giudizio”, Les Éditions de Minuit, 1979.
  6. Susan Sontag, “Sulla fotografia”, Christian Bourgois, 1979.
  7. Simone de Beauvoir, “Il Secondo Sesso, Volume II: L’esperienza vissuta”, Gallimard, 1949.
  8. Pierre Bourdieu, “La Distinzione: Critica sociale del giudizio”, Les Éditions de Minuit, 1979.
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Riferimento/i

Steven MEISEL (1954)
Nome: Steven
Cognome: MEISEL
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 71 anni (2025)

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