Ascoltatemi bene, banda di snob. Susan Rothenberg non era un’artista, era una strega. Una strega che trasformava la tela in un palcoscenico teatrale dove i cavalli galoppavano verso il nulla, dove i corpi si smembravano per meglio rivelarsi, dove ogni colpo di pennello diventava un grido primordiale nel silenzio assordante degli anni ’70 newyorkesi. Quando questa donna di Buffalo arrivò nel SoHo minimalista con le sue tre tele equine nel 1975, non ha semplicemente esposto dipinti. Ha fatto saltare in aria quarant’anni di dogmi artistici con uno sguardo obliquo.
Vedete, Rothenberg padroneggiava perfettamente l’arte del paradosso teatrale. Come Antonin Artaud rivoluzionava la scena con il suo Teatro della Crudeltà, lei trasformava la pittura in uno spazio dove l’espressione pura soppiantava la rappresentazione. I suoi cavalli dal 1975 al 1980 non sono animali, sono attori su un palcoscenico spoglio, silhouette fantasmatiche che incarnano l’essenza stessa del movimento drammatico. In “Butterfly” del 1976, questo cavallo attraversato da diagonali nere evoca irresistibilmente le maschere di Artaud, quei volti deformati dall’intensità emotiva. Rothenberg, come il maestro del teatro crudele, comprendeva che la vera arte non diverte ma sconvolge, non rassicura ma inquieta.
Il genio di Rothenberg risiedeva nella sua capacità di fare teatro senza scenografia. Le sue tele funzionano come palcoscenici nudi dove l’azione si concentra sull’essenziale: il gesto, l’emozione grezza, la verità spogliata di ogni artificio. “Cabin Fever” del 1976 trasforma la claustrofobia in balletto espressionista, questo cavallo fantasma che danza la sua rabbia repressa su uno sfondo ocra che pulsa come un sipario teatrale. Rothenberg applicava istintivamente i precetti di Artaud: “Bisogna credere in un senso della vita rinnovato dal teatro”. I suoi dipinti rinnovavano il senso della pittura attraverso una teatralità primitiva e viscerale.
Questa dimensione teatrale spiega perché oggi le sue opere conservano tutta la loro forza d’impatto. Rothenberg non dipingeva cavalli, metteva in scena l’animalità umana. Le sue creature saltano, si imbizzarriscono, fuggono in uno spazio mentale dove regna una tensione drammatica costante. Peter Schjeldahl aveva ragione a definire la sua mostra del 1975 un “eureka” [1]. Fu infatti un momento di rivelazione, quello in cui la pittura americana riscoprì il suo potere incantatorio, la sua capacità di trasformare lo spettatore in testimone di un mistero ancestrale.
Ma Rothenberg non si limitava a un semplice richiamo alle arti primitive. Il suo approccio rivelava una comprensione profonda della psicoanalisi junghiana e della sua teoria degli archetipi. Carl Gustav Jung sviluppava l’idea che alcune immagini emergano spontaneamente dall’inconscio collettivo, portando in sé un carico simbolico universale. I cavalli di Rothenberg funzionano precisamente come questi archetipi junghiani: emergono sulla tela con l’evidenza di un sogno ricorrente, carichi di un’energia libidinale che l’artista stessa non cercava di domare.
Jung distingueva l’inconscio personale dall’inconscio collettivo, quel serbatoio di immagini primordiali condivise dall’umanità intera. Rothenberg attingeva direttamente a questo secondo livello, creando opere che bypassano l’intelletto per rivolgersi direttamente alle nostre pulsioni arcaiche. “United States” del 1975, con il suo cavallo fantasmatico che emerge da uno sfondo bicolore, evoca queste apparizioni oniriche che Jung analizzava nei suoi pazienti: manifestazioni spontanee dell’anima collettiva.
L’artista applicava senza saperlo il metodo junghiano dell’immaginazione attiva, quella tecnica terapeutica in cui l’analista incoraggia il paziente a lasciar libero corso alle immagini del proprio inconscio. Rothenberg dipingeva come si fa con l’immaginazione attiva, lasciando emergere quei cavalli misteriosi senza cercare di spiegarli razionalmente. Lei stessa dichiarava: “Dovete trovare cose che vi interessano e trovare modi interessanti per rappresentarle” [2]. Questo approccio intuitivo corrisponde esattamente a ciò che Jung raccomandava: fidarsi delle immagini che emergono spontaneamente, anche se il loro significato permane oscuro.
La transizione di Rothenberg verso i frammenti corporei negli anni ’80 conferma questa lettura junghiana. Teste disincarnate, mani fluttuanti, corpi smembrati: tanti motivi che la psicoanalisi identifica come manifestazioni dell’inconscio traumatizzato. Ma in Rothenberg questi smembramenti non traducono una patologia, al contrario rivelano una salute artistica eccezionale. Lei comprendeva intuitivamente che l’arte autentica deve prima decostruire per poi rivelare.
“Blue Head” del 1980-1981 illustra perfettamente questo approccio. Questa testa monumentale che fluttua nello spazio pittorico evoca gli archetipi della Grande Madre analizzati da Jung, queste figure materne primordiali che infestano l’immaginario collettivo. Rothenberg non cercava di illustrare la teoria junghiana, la viveva attraverso la sua pittura, trasformando ogni tela in una seduta di analisi collettiva.
Il suo trasferimento nel New Mexico nel 1990 segnò una nuova fase della sua esplorazione archetipica. Il deserto americano, con le sue vaste distese e la sua luce cruda, risvegliava in lei altre sfere dell’inconscio collettivo. I suoi dipinti di questo periodo, come “Dogs Killing Rabbit” del 1991-92, rivelano una comprensione più brutale delle pulsioni primitive. Jung parlava dell’ombra, quella parte oscura della personalità che la civiltà reprime. Rothenberg dava corpo a quell’ombra in scene di violenza naturale di bellezza terrificante.
Questa evoluzione conferma l’intelligenza emotiva straordinaria di Rothenberg. Non si limitava a dipingere soggetti, mappava i territori segreti dell’anima umana. Ogni fase della sua opera corrisponde a una discesa più profonda negli strati dell’inconscio, dai cavalli simbolici degli anni ’70 fino alle scene oniriche delle sue ultime decadi.
L’artista lavorava anche nella pura tradizione dell’individuazione junghiana, quel processo attraverso il quale l’individuo integra progressivamente i vari aspetti della sua personalità. I suoi rari autoritratti, come quello visibile in “Red Studio” del 2003, mostrano una donna che si rappresenta volontariamente in modo incompleto, senza braccia né collo, una semplice presenza fantasmagorica. Questo approccio rivela una consapevolezza acuta dei limiti della rappresentazione di sé, un’umiltà che caratterizza gli individui che hanno raggiunto un livello avanzato di individuazione.
Il genio di Rothenberg risiedeva infine nella sua capacità di trasformare l’arte in terapia collettiva. Le sue tele funzionano come spazi transizionali dove lo spettatore può proiettare i propri archetipi, rivivere i propri traumi, riconoscere le proprie pulsioni. Creava opere che guariscono senza pretendere di curare, che rivelano senza presumere di spiegare.
Questa dimensione terapeutica spiega l’impatto duraturo del suo lavoro. Nell’epoca in cui l’arte contemporanea a volte sembra compiacersi nella provocazione gratuita o nell’intellettualismo sterile, Rothenberg ci ricorda che la pittura può ancora toccare direttamente l’anima. Le sue ultime opere, come “Buddha Monk” del 2018-19, confermano questa vocazione spirituale. Questa scimmia meditativa dai gesti molteplici evoca le divinità indù, quelle figure archetipiche che incarnano i diversi aspetti della coscienza umana.
Rothenberg è morta nel maggio 2020, ma il suo lascito perdura in ogni tela che osa ancora affrontare l’inconscio collettivo. Ci ha mostrato che l’arte vera non si limita a decorare le pareti dei collezionisti, ma abita duramente l’immaginario di chi l’ha incontrata. In un mondo saturo di immagini digitali effimere, i suoi dipinti conservano quell’aura benjaminiana dell’opera d’arte autentica, quella presenza insostituibile che trasforma la contemplazione in esperienza spirituale.
Perché Susan Rothenberg non ha mai dipinto cavalli. Ha dipinto la nostra umanità allo stato grezzo, le nostre paure e speranze più primitive, i nostri sogni e incubi più segreti. Ci ha ricordato che l’arte, quando raggiunge la sua verità, non diverte ma inizia. E questa iniziazione, ne portiamo ancora oggi le tracce indelebili nel nostro sguardo trasformato.
- Peter Schjeldahl, critico d’arte, citato in varie fonti sulla mostra del 1975 a 112 Greene Street
- Citazione di Susan Rothenberg, Museum of Modern Art, New York.
















