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Tomoo Gokita: Pittore dei volti perduti

Pubblicato il: 10 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Tomoo Gokita trasforma riviste pornografiche e cultura popolare in dipinti enigmatici in cui i volti scompaiono sotto spessi strati di pittura. Ex grafico diventato artista culto, questo tokyoita maneggia il pennello come un’arma, creando ritratti privi di tratti e figure spettrali che interrogano la nostra ossessione contemporanea per la visibilità.

Tomoo Gokita è un pittore giapponese nato nel 1969 che si è fatto un nome deformando volti e sfumando i confini tra astrazione e figurazione. Ex grafico diventato artista, ha saputo trasformare le riviste pornografiche di suo padre e le wrestler americane in un linguaggio pittorico tutto suo. È un artista che gioca con le nostre paure primordiali, che trasforma le pin-up in creature senza volto, che fa della pittura un’arena di lucha libre dove reale e falso si combattono all’ultimo sangue.

Ecco il tipo di artista che il mercato dell’arte adora: un giapponese che ha digerito l’espressionismo americano, che cita Pollock senza mai nominarlo, che dipinge in bianco e nero perché è più elegante, e ora si mette al colore pastello perché bisogna rinnovare il catalogo. Le gallerie di New York lo adorano, da Mary Boone a Petzel, passando per Blum & Poe. Normale, Gokita dà loro esattamente ciò che vogliono: un esotismo dosato, una sofisticazione giapponese mescolata alla violenza americana, il tutto avvolto in un discorso sull’improvvisazione e l’incidente.

Ma non illudiamoci. Dietro questa facciata commerciale si nasconde un vero pittore. Gokita non è solo un prodotto di marketing, è un ossessionato del gesto, un maniaco della superficie, un alchimista che trasforma l’oscenità in poesia. Le sue tele sono battaglie schierate tra controllo e caos, tra figura e sua dissoluzione. Quando dipinge, sembra voler soffocare i suoi soggetti sotto strati di grigio, seppellirli vivi nella materia pittorica.

La storia di Gokita inizia negli anni ’90, quando abbandona gli studi artistici per diventare grafico. Disegna volantini per i club di Tokyo, realizza copertine di dischi, vive la vita notturna giapponese. Ma l’artista che è in lui non può tacere. Nel 2000 pubblica “Lingerie Wrestling”, una raccolta di disegni che diventa cult. Donne in biancheria che si scontrano, tracciate a carboncino e inchiostro. È violento, è sessuale, è divertente. È soprattutto una dichiarazione di guerra alla pittura buonista.

Da allora, Gokita ha continuato a perfezionare il suo arsenale. I suoi pennelli sono diventati armi di distruzione di massa. Prende una foto di una rivista, la proietta mentalmente sulla sua tela, poi la massacra metodicamente. I volti scompaiono sotto macchie astratte, i corpi si contorcono in pose impossibili, gli sfondi crollano in nebbie grigie. È un Francis Bacon rivisto da un otaku di Tokyo, un Willem de Kooning cosparso di cultura manga.

Ciò che colpisce in Gokita è la sua brutalità elegante. Ha quel modo molto giapponese di rendere la violenza accettabile, quasi raffinata. I suoi colpi di pennello sono precisi come colpi di spada, le sue composizioni equilibrate come giardini zen. Ma sotto questa superficie lucida ribolle una rabbia sorda, un desiderio di distruggere tutto e ricostruire tutto secondo le sue regole.

Il paradosso di Gokita è che afferma di improvvisare mentre tutto nel suo lavoro trasuda calcolo. “Non ho alcuna intenzione”, dice. Faccio fatica a crederci! Ogni gesto è ponderato, ogni incidente è provocato, ogni sorpresa è orchestrata. È un magnifico bugiardo, un illusionista che finge di non conoscere i suoi trucchi. Ci dice che dipinge senza pensare, ma le sue tele sono macchine da guerra concettuali.

Il suo rapporto con la cultura americana è interessante. È cresciuto con Playboy e i fumetti, con il jazz e i film di serie B. Suo padre lavorava per l’edizione giapponese di Playboy [1], e il piccolo Tomoo sfogliava quei magazine di nascosto. Quelle immagini lo hanno segnato a vita. Ma invece di copiarle ciecamente, le ha digerite, trasformate, giapponesizzate. Ha preso la volgarità americana e l’ha sublimata in eleganza tokyoite.

Le donne di Gokita sono spettri. Hanno perso il volto ma conservano il loro sex appeal. Fluttuano in un limbo grigiastro, a metà strada tra il erotismo e l’orrore. Sono Veneri sfregiate, Afrodite atomizzate. Gokita ci mostra ciò che resta del desiderio quando gli si toglie il suo oggetto, ciò che persiste della bellezza quando le si priva della forma.

Ma attenzione, Gokita non è solo un pittore dell’assenza. È anche un colorista segreto. Dal 2020, è tornato al colore, e le sue ultime tele esplodono di tinte pastello. Rosa polverosi, blu sbiaditi, verdi malaticci. È come se David Lynch avesse deciso di ridipingere un salotto da tè giapponese. Questi colori sono allo stesso tempo dolci e inquietanti, seducenti e ripugnanti.

C’è qualcosa di profondamente nevrotico nella pittura di Gokita. I suoi personaggi sembrano tutti soffrire di un disturbo dell’identità, come se avessero dimenticato chi fossero. Le famiglie che dipinge somigliano ad assemblee di fantasmi, le coppie a duetti di sonnambuli. In “The Dead Family” (2024), ci mostra una famiglia nucleare trasformata in natura morta. Papà, mamma e i bambini sono lì, ma c’è qualcosa che non va. I loro volti sono buchi neri, i loro corpi manichini disarticolati.

Questa ossessione per la cancellazione del volto non è casuale. Nella cultura giapponese, il volto è il luogo dell’identità sociale. Perderlo significa perdere il proprio posto nel mondo. Gokita gioca con questa angoscia fondamentale. I suoi personaggi sono emarginati, paria dell’immagine. Esistono ma non appartengono più alla nostra realtà.

La tecnica di Gokita è impeccabile. Usa acrilico e gouache per creare superfici perfettamente lisce, senza tracce di pennello. È una pittura industriale, quasi meccanica. Ma questa apparente freddezza nasconde una gestualità complessa. Gokita lavora a strati, aggiungendo e togliendo, costruendo e distruggendo. Ogni tela è il risultato di una lotta accanita tra l’artista e il suo medium.

Il suo rapporto con la storia dell’arte è ambiguo. Cita senza citare, prende in prestito senza rubare. Nel suo lavoro si trovano echi di cubismo, surrealismo, espressionismo astratto. Ma questi riferimenti sono digeriti, metabolizzati, trasformati in qualcos’altro. Gokita non è un parodista, è un cannibale. Divora i suoi maestri per rigurgitarli meglio.

L’influenza del catch messicano sul suo lavoro merita di essere approfondita. La lucha libre è un teatro della crudeltà dove le maschere nascondono l’identità dei combattenti. È esattamente ciò che fa Gokita con i suoi personaggi: li maschera, li anonimizza, li trasforma in archetipi. Le sue tele sono ring dove si affrontano forze primordiali: Eros contro Thanatos, figurazione contro astrazione, controllo contro caos.

Gokita è un artista importante? La domanda merita di essere posta. In un mondo dell’arte saturo di immagini, la sua strategia della cancellazione potrebbe essere salutare. Ci ricorda che vedere significa anche non vedere, che mostrare significa anche nascondere. Le sue tele sono enigmi visivi che resistono a interpretazioni facili.

Ma non facciamoci illusioni. Gokita gioca anche il gioco del mercato. Le sue collaborazioni con la moda e la musica, le sue esposizioni nelle gallerie alla moda, tutto ciò fa parte di una strategia commerciale ben collaudata. Ha capito che, per sopravvivere nel mondo dell’arte contemporanea, bisogna essere sia artisti che uomini d’affari.

Ciò che salva Gokita è il suo umorismo. Nelle sue tele c’è un umorismo nero, un senso dell’assurdo che impedisce di prenderle troppo sul serio. I suoi personaggi sfigurati hanno qualcosa di cartoonesco, le sue composizioni più drammatiche sfiorano il grottesco. È Beckett che incontra Tex Avery, Giacometti che incrocia Topolino.

L’evoluzione recente di Gokita verso il colore segna forse una svolta. Dopo anni trascorsi nei toni del grigio, ecco che si avventura nei pastelli. È forse un segno di maturità o una concessione al mercato? Difficile dirlo. Ma queste nuove tele hanno una freschezza inattesa, una leggerezza che contrasta con l’oscurità dei suoi inizi.

Nel panorama dell’arte contemporanea giapponese, Gokita occupa un posto a parte. Non ha la strategia pop di Takashi Murakami, né il minimalismo concettuale dei suoi compatrioti. È più vicino a un Yoshitomo Nara, ma più oscuro, più contorto. È un pittore che assume la pittura, che crede ancora nel potere dell’immagine dipinta.

Bisogna vedere Gokita come un sintomo della nostra epoca. I suoi volti cancellati sono forse una metafora della nostra stessa perdita d’identità nell’era digitale. Le sue figure fantasmatiche riflettono la nostra condizione di esseri derealizzati, fluttuanti tra il virtuale e il reale. Dipinge zombie per una civiltà zombie.

Paradossalmente, è cancellando i volti che Gokita rivela l’umano. I suoi personaggi senza tratti sono più espressivi di molti ritratti iperrealisti. Ci parlano di solitudine, alienazione, desiderio frustrato. Sono specchi torbidi dove possiamo proiettare le nostre angosce.

La forza di Gokita è che non cerca di rassicurarci. Le sue tele sono scomode, disturbanti, talvolta ripugnanti. Non ci offrono rifugio, né consolazione. Ci confrontano con ciò che preferiremmo non vedere: la nostra stessa vacuità, la nostra stessa mostruosità. Eppure, c’è bellezza in questo lavoro. Una bellezza malata, perversa, ma comunque bellezza. I grigi di Gokita hanno infinite sfumature, le sue composizioni un’eleganza morbosa. È arte che fa male, ma è arte.

In fondo, Gokita è un romantico oscuro. Crede ancora nella pittura come medium di rivelazione, come mezzo per accedere a verità nascoste. Le sue tele sono sedute spiritiche dove convoca i fantasmi del nostro inconscio collettivo. Pin-up sfigurate, famiglie morte, lottatrici spettrali: tante apparizioni che infestano il nostro immaginario contemporaneo.

Il successo internazionale di Gokita dimostra che ha toccato un nervo scoperto. Le sue immagini parlano un linguaggio universale, quello dell’angoscia postmoderna. New York, Londra, Tokyo: ovunque i suoi fantasmi trovano un’eco. Forse questo è la globalizzazione: abbiamo tutti gli stessi incubi. Ma Gokita rimane profondamente giapponese. Nel suo lavoro c’è quella capacità tipicamente nipponica di estetizzare l’orrore, di rendere bello ciò che dovrebbe essere ripugnante. Le sue tele sono come haiku dell’apocalisse, giardini zen piantati di cadaveri.

Cosa pensare della sua ultima mostra “Gumbo”? Il titolo è rivelatore. Il gumbo è quel ragù della Louisiana in cui si mescola di tutto e di più. È esattamente ciò che fa Gokita: getta nella caldaia della sua pittura tutti i rifiuti della nostra cultura visiva e mescola finché non ottiene qualcosa di nuovo.

Gli spaventapasseri della sua ultima serie sono particolarmente eloquenti. Questi guardiani dei campi dovrebbero spaventare gli uccelli, ma da Gokita sono loro ad avere l’aria terrorizzata. Galleggiano in paesaggi indefiniti, fantasmi di un mondo rurale scomparso. Perfetta metafora dell’artista contemporaneo: uno spaventapasseri che non spaventa più nessuno.

La domanda che si pone adesso è: dove va Gokita? Continuerà a esplorare il colore? Tornerà al bianco e nero? Si ripeterà o si reinventerà? Il futuro lo dirà. Ma una cosa è certa: ha già segnato la sua epoca. Le sue immagini senza volto sono diventate le icone del nostro tempo. In un mondo saturo di selfie e social network, Gokita ci ricorda il potere della cancellazione. Le sue tele sono antidoti all’overdose narcisistica contemporanea. Ci dicono: guardate, possiamo ancora scomparire, possiamo ancora nasconderci, possiamo ancora essere misteriosi.

Forse questo è il messaggio ultimo di Gokita: in un mondo di trasparenza totale, l’opacità diventa sovversiva. I suoi personaggi mascherati sono resistenti, partigiani dell’ombra. Rifiutano di giocare il gioco della visibilità a tutti i costi. Tomoo Gokita non è il più grande pittore della sua generazione, ma è uno dei più necessari. Ci mostra ciò che non vogliamo vedere, dipinge ciò che preferiremmo dimenticare. Le sue tele sono memento mori per l’era di Instagram, vanità per il XXI secolo.

Allora sì, ascoltatemi bene, banda di snob: Gokita merita la vostra attenzione. Non perché sia di moda, non perché si venda bene, ma perché tocca qualcosa di essenziale. Ci parla di cosa significa essere umani in un’epoca in cui l’umanità stessa è messa in discussione. L’arte di Gokita è una forma di resistenza. Resistenza alla facilità, alla trasparenza, all’evidenza. Le sue tele esigono di essere osservate attentamente, decifrate, perse. In un mondo che va troppo veloce, ci obbligano a rallentare. In un mondo troppo rumoroso, ci invitano al silenzio.

E forse questo è il vero talento di Gokita: far tacere i chiacchieroni e far riflettere gli snob. Nel circo dell’arte contemporanea, è l’acrobata che cade apposta, il clown che non fa ridere nessuno. È colui che ci ricorda che l’arte non è fatta per piacere, ma per disturbare. Allora, banda di snob, la prossima volta che incontrate una tela di Gokita, prendetevi il tempo di guardarla davvero. Dietro quei volti cancellati, quei corpi contorti, quei colori malati, forse c’è uno specchio. E in quel specchio potreste benissimo intravedere il vostro stesso fantasma.


  1. “La fascinazione di Gokita per le artiste femminili è un altro tema chiave della sua opera… Questa fonte di ispirazione emerge frequentemente nei suoi dipinti… L’influenza deriva probabilmente dall’infanzia dell’artista, poiché suo padre era coinvolto nel design dell’edizione giapponese della rivista Playboy” (Fonte: Massimo De Carlo Gallery)
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Riferimento/i

Tomoo GOKITA (1969)
Nome: Tomoo
Cognome: GOKITA
Altri nome/i:

  • 五木田智央 (Giapponese)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Giappone

Età: 56 anni (2025)

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