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Tra Mumbai e il mondo, l’opera di Atul Dodiya

Pubblicato il: 24 Luglio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Atul Dodiya trasforma la pittura in un’archeologia del presente, mescolando riferimenti europei e cultura popolare indiana. Dal suo atelier a Mumbai, questo artista di sessantasei anni crea opere in cui dialogano Picasso e Gandhi, rivelando le connessioni segrete tra memoria personale e storia collettiva in un linguaggio visivo di modernità sorprendente.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Atul Dodiya fa esplodere le nostre certezze con la delicatezza di un ladro che vi renderebbe un favore riorganizzando il vostro salotto. Questo artista di Mumbai non si limita a dipingere; esegue operazioni chirurgiche sulla storia dell’arte, cucendo Picasso a Gandhi, innestando Bollywood su Piero della Francesca con l’audacia tranquilla di un medico che sa esattamente dove piantare il suo bisturi.

Dal suo atelier di Ghatkopar, in questa Mumbai che digerisce quotidianamente le sue contraddizioni come uno stomaco sovradimensionato, Dodiya crea immagini che ci parlano di noi stessi con una precisione inquietante. Le sue tele non sono semplici superfici dipinte, ma territori dove si incontrano i fantasmi del nostro tempo. Quando trasforma sua moglie Anju nello stile dei ritratti del Fayum, non è per vanità da atelier, ma una meditazione sulla persistenza dell’amore attraverso i secoli.

La formazione parigina dell’artista, quell’anno 1991-1992 trascorso all’École des Beaux-Arts, funziona come un rivelatore chimico nella sua opera. Confrontandosi per la prima volta con gli originali dei suoi maestri, Dodiya comprende che l’arte non è una religione monoteista ma un sincretismo generoso. Questa rivelazione trasforma la sua pratica in un’archeologia attiva del presente, dove ogni strato di senso rivela una diversa stratificazione temporale.

L’inconscio come atelier: quando la psicoanalisi illumina la creazione

Il rapporto tra l’arte di Dodiya e i meccanismi dell’inconscio rivela una vicinanza affascinante con le scoperte freudiane sulla costruzione della memoria [1]. Come Freud aveva intuito già nel 1910 nella sua analisi di Leonardo da Vinci, l’artista opera per condensazione e spostamento, questi due meccanismi fondamentali che la psicoanalisi ha identificato nel lavoro del sogno. In Dodiya, questa operazione diventa manifesta nella sua serie “Girlfriends”, dove i volti di maestri antichi si sovrappongono ai tratti contemporanei in un processo che evoca la formazione dei ricordi-schermo.

L’artista procede tramite associazioni libere visive, assemblando elementi apparentemente disparati che rivelano, sotto l’analisi, una coerenza profonda. I suoi cabinet di installazione, in particolare la serie “Broken Branches” creata dopo le sommosse del Gujarat del 2002, funzionano come camere d’analisi dove gli oggetti dialogano tra loro secondo una logica che non è quella della coscienza razionale. Ogni elemento, fotografia ingiallita, frammento tessile, citazione dipinta, agisce come un significante che rimanda ad altri significanti in una catena associativa infinita.

Questo metodo ricorda la tecnica dell’attenzione fluttuante cara agli psicoanalisti, dove l’ascolto non si fissa su alcun elemento particolare per lasciare emergere connessioni inattese. Dodiya pratica un’attenzione fluttuante visiva, raccogliendo immagini, oggetti e riferimenti senza gerarchia prestabilita, permettendo agli accostamenti di operarsi secondo una logica inconscia. Le sue tele diventano allora luoghi di rivelazione dove il rimosso culturale e personale ritorna sotto forma plastica.

L’uso ricorrente del ritratto nella sua opera si illumina anche sotto l’angolo psicoanalitico. Il ritratto, in Dodiya, non è mai semplice rappresentazione ma sempre spostamento. Quando dipinge Bindu nello stile di Sayed Haider Raza, opera una condensazione temporale che rivela i legami nascosti tra icona popolare e avanguardia pittorica. Questa operazione di spostamento permette all’inconscio collettivo indiano di esprimersi attraverso forme apparentemente anodine.

La ripetizione, altro meccanismo centrale dell’inconscio, struttura profondamente la pratica di Dodiya. Le sue serie, siano esse sportelli metallici o paesaggi in miniatura, funzionano come variazioni su un tema ossessivo, rivelando attraverso le loro differenze i contenuti latenti che sostengono l’opera. Questa compulsione alla ripetizione, che Freud aveva identificato come al di là del principio del piacere, diventa nell’artista uno strumento di esplorazione dell’inconscio culturale indiano.

La temporalità particolare delle sue opere richiama anche la concezione freudiana del decoupage, dove un evento passato acquista senso solo alla luce di un’esperienza successiva. I riferimenti all’arte europea nell’opera di Dodiya funzionano pienamente solo se illuminati dalla sua esperienza parigina del 1991-1992, così come le sue evocazioni di Gandhi rivelano la loro urgenza solo dopo l’esperienza traumatica delle sommosse comunitarie.

Architettura della memoria: lo spazio come manoscritto temporale

L’opera di Dodiya rivela una comprensione intuitiva dell’architettura come supporto mnemonico, concetto già sviluppato dai retori antichi, quei professori d’arte oratoria, nella loro arte della memoria [2]. Le sue installazioni funzionano come “palazzi della memoria” contemporanei, dove ogni elemento occupa una posizione strategica nell’economia generale del ricordo. Questo approccio trova la sua manifestazione più evidente nei suoi famosi sportelli metallici, queste superfici ondulate che trasformano l’atto di dipingere in una negoziazione con la costrizione architettonica.

Lo sportello, elemento di architettura vernacolare dei bazar indiani, diventa sotto il pennello di Dodiya una testimonianza urbana stratificata. Come quei manoscritti medievali in cui più testi si sovrappongono sullo stesso pergamena, gli sportelli dell’artista portano simultaneamente più temporalità: quella della loro funzione commerciale originaria, quella del loro dirottamento artistico, e quella delle immagini che supportano. Questa stratificazione temporale richiama direttamente le teorie di André Corboz sul territorio come palinsesto, dove ogni epoca lascia le sue tracce senza cancellare completamente le precedenti.

L’architettura in Dodiya non si limita agli elementi costruiti ma si estende alla strutturazione stessa dello spazio pittorico. Le sue composizioni procedono per zone e compartimenti, creando architetture interne che evocano ora le miniature moghul ora i polittici gotici. Questo approccio modulare gli permette di giustapporre temporalità eterogenee senza gerarchizzarle, riproducendo la logica stessa della città indiana dove templi millenari e centri commerciali ultramoderni coesistono senza soluzione di continuità.

La nozione di soglia, centrale in architettura, trova in Dodiya una traduzione plastica particolarmente ricca. I suoi cabinet vetrati funzionano come soglie temporali, permettendo il passaggio tra lo spazio dello spettatore e quello della memoria. Questi dispositivi evocano i reliquiari medievali, quelle architetture in miniatura concepite per rendere presente l’assenza, per attualizzare il passato nell’istante della contemplazione.

L’uso di fotografie nelle sue installazioni rivela un’altra dimensione architettonica del suo lavoro. Queste immagini, spesso scattate in musei europei o americani, catturano non solo le opere ma anche il loro ambiente architettonico: le cornici dorate, le cimase, i giochi di ombra e luce. Dodiya comprende che l’architettura museale partecipa pienamente al senso dell’opera, costituendo un elemento attivo della sua ricezione. Trasponendo questi frammenti di architettura istituzionale nelle sue composizioni, opera una critica sottile della geografia culturale mondiale.

La questione della scala, fondamentale in architettura, attraversa tutta l’opera di Dodiya. I suoi “baby shutters”, versioni miniaturizzate delle sue grandi persiane, mettono in discussione il nostro rapporto con la monumentalità e l’intimità. Questa variazione di scala non è un semplice esercizio formale, ma interroga le condizioni di ricezione dell’arte in un mondo in cui la riproduzione digitale ha abolito le gerarchie tradizionali tra originale e copia, tra formato grande e piccolo.

L’architettura temporale di Dodiya si manifesta infine nella sua concezione seriale del lavoro. Come un architetto che declina un programma seguendo differenti vincoli di sito, l’artista sviluppa i suoi temi secondo modalità che rivelano ogni volta nuovi aspetti del motivo iniziale. Questo approccio evoca le variazioni che Borromini sviluppava sul tema dell’ellisse, rivelando attraverso l’esaurimento sistematico delle possibilità formali la ricchezza insospettata di un elemento architettonico semplice.

Mumbai, matrice del mondo

È impossibile comprendere Dodiya senza afferrare la sua relazione simbiotica con Mumbai, questa città che funziona meno come sfondo e più come collaboratrice attiva della sua opera. Mumbai non produce solo immagini; produce un modo particolare di vedere, un regime scopico che trasforma la cacofonia visiva in un’armonia complessa. Dodiya è cresciuto in questa metropoli che assimila quotidianamente le sue contraddizioni, dove una baraccopoli può confinare con un grattacielo senza che nessuno se ne stupisca.

Questa geografia urbana traspare nel suo modo di comporre. Le sue tele procedono per accumulazione e giustapposizione, riproducendo la logica stessa della città indiana dove nulla è pianificato ma tutto finisce per trovare il proprio posto. Quando dipinge sua sorella bambina su una serranda commerciale, non fa che riprodurre su scala artistica questa convivenza del privato e del pubblico che caratterizza la vita mumbaikar.

La formazione dell’artista presso la Sir J.J. School of Art ancor anche il suo lavoro a una tradizione pittorica specificamente indiana. Questa istituzione, creata dagli inglesi ma rapidamente appropriata dagli artisti locali, incarna perfettamente questa capacità di détournement creativo che caratterizza l’arte indiana contemporanea. Dodiya eredita questa tradizione di adattamento creativo, trasformando le influenze europee in un linguaggio personale.

L’uso che fa del cinema popolare rivela un’altra faccia della sua radicazione urbana. Bollywood non è per lui una riserva di immagini kitsch ma un laboratorio dell’immaginario collettivo indiano. I suoi riferimenti a Satyajit Ray o alle commedie romantiche degli anni Sessanta testimoniano una cultura cinefila che va ben oltre il semplice gusto personale per costituire un vero e proprio metodo di analisi sociale.

La storia come materiale plastico

Il rapporto di Dodiya con la storia rivela una concezione non lineare del tempo che sconvolge le nostre abitudini di pensiero occidentali. Per lui, Picasso può essere contemporaneo di Tagore, e le miniature moghul dialogano con i manifesti di Bollywood senza gerarchia cronologica. Questo approccio richiama la concezione indiana del tempo ciclico, dove passato e presente si interpenetrano senza soluzione di continuità.

La sua serie dedicata a Gandhi illustra perfettamente questa temporalità alternativa. Creata in risposta alle rivolte del Gujarat del 2002, non propone una evocazione nostalgica del Mahatma ma un’attualizzazione urgente del suo messaggio. Dodiya comprende che Gandhi non appartiene al passato ma costituisce una risorsa attiva per pensare il presente. I suoi ritratti del leader indipendentista funzionano come icone nel senso bizantino del termine: finestre aperte su una realtà spirituale sempre accessibile.

L’uso della citazione in Dodiya è meno frutto di erudizione che di necessità esistenziale. Quando riproduce un dettaglio di Piero della Francesca o riprende una composizione di Picabia, non si tratta di un omaggio rispettoso ma di un’appropriazione attiva. Questi prestiti funzionano come innesti che modificano il tessuto stesso dell’opera ricevente, creando ibridazioni inattese che rivelano potenzialità nascoste delle opere di origine.

Tecnica del prestito creativo

Una delle forze di Dodiya risiede nella sua capacità di trasformare la citazione in creazione originale. Le sue “Girlfriends” non copiano i maestri antichi ma li reinterpretano secondo una sensibilità contemporanea che rivela le loro potenzialità nascoste. Questo metodo richiama quello dei musicisti jazz che trasformano uno standard reinventandolo, mantenendo la struttura armonica pur modificando completamente l’espressione.

La padronanza tecnica dell’artista, la sua capacità di riprodurre fedelmente gli stili più diversi, potrebbe passare per semplice virtuosismo. Ma questa abilità serve un progetto più ambizioso: dimostrare che la forma non è mai neutra, che porta sempre un contenuto ideologico che può essere deviato, sovvertito, reindirizzato. Quando Dodiya dipinge nel stile iperrealista ritratti cinematografici, rivela i meccanismi di seduzione dell’industria dell’intrattenimento.

La questione del pubblico

A differenza di molti artisti contemporanei che si rivolgono principalmente agli iniziati, Dodiya mantiene un dialogo costante con il suo pubblico d’origine: i suoi vicini di Ghatkopar, la sua famiglia, i suoi amici d’infanzia. Questa fedeltà non è sentimentale ma strategica. Gli permette di testare la leggibilità delle sue opere presso un pubblico non specializzato, garantendo che i suoi messaggi non si perdano nei meandri dell’arte concettuale.

Questa attenzione al pubblico popolare spiega forse la sua resistenza alle sirene dell’arte internazionale. Pur esposto nei più grandi musei mondiali, Dodiya conserva una pratica artigianale che ricorda quella dei pittori di insegne dei bazar. Questa fedeltà all’artigianato tradizionale in un mondo dominato dalle nuove tecnologie è meno nostalgia che resistenza politica.

L’arte di Dodiya rivela infine una verità semplice ma inquietante: la vera avanguardia non nasce dalla rottura con il passato ma dalla sua reinvenzione creativa. Rifiutando di scegliere tra tradizione e modernità, tra locale e globale, tra popolare e colto, propone una terza via che potrebbe ben definire l’arte del XXI secolo. In un mondo frammentato da identità esclusive, Dodiya ci ricorda che la creazione autentica nasce sempre dal meticciato generoso.

Le sue opere funzionano come laboratori in cui si sperimentano nuove forme di sintesi culturale. Ci insegnano che non è necessario rinunciare alla propria singolarità per dialogare con l’universale, che è possibile essere profondamente radicati e autenticamente cosmopoliti. In questo Atul Dodiya incarna perfettamente le possibilità e le contraddizioni della nostra epoca globalizzata.


  1. Sigmund Freud, Saggi di psicoanalisi applicata, Parigi, Gallimard, 1971.
  2. André Corboz, “Il territorio come palinsesto”, Diogene, n°121, 1983.
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Riferimento/i

Atul DODIYA (1959)
Nome: Atul
Cognome: DODIYA
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • India

Età: 66 anni (2025)

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