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Ulala Imai: L’anima degli oggetti silenziosi

Pubblicato il: 1 Agosto 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Ulala Imai trasforma gli oggetti della vita quotidiana in attori di un teatro intimo. Questa pittrice giapponese di quarantatré anni, sordomuta dalla nascita, dà vita ai giocattoli e alle nature morte con una tecnica ereditata dai maestri europei e una sensibilità shintoista che anima la materia inanimata.

Ascoltatemi bene, banda di snob: Ulala Imai non dipinge giocattoli. Dipinge l’anima giapponese nel momento in cui gli orsacchiotti Steiff si affiancano a Charlie Brown in un silenzio assordante. Questa donna di quarantatré anni, nata a Kanagawa nel 1982, trasforma gli oggetti della vita quotidiana in veri attori di un teatro intimo in cui, quadro dopo quadro, si gioca la commedia umana della nostra epoca. Artista di terza generazione, figlia del pittore occidentale Shingo Imai, ha ereditato uno sguardo formato dai maestri europei mantenendo però quella sensibilità nipponica che fa vibrare le cose inanimate.

Sordomuta dalla nascita, Imai sviluppa fin dall’infanzia una relazione particolare con il mondo visivo. “Ho solo le immagini”, dichiarava in un’intervista alla rivista Bunshun nel 2018[1]. Questa frase risuona come un credo estetico tanto quanto esistenziale. Privata di una parte dell’universo sonoro, compensa con un’acuità visiva straordinaria che le permette di cogliere ciò che noi, udenti distratti, lasciamo sfuggire. Le sue composizioni, meticolosamente organizzate nel suo salotto-studio prima di essere trasposte su tela, rivelano quella pazienza da fotografa naturalista che ella rivendica: “Come un fotografo naturalista, aspetto tranquillamente il momento giusto e tenero”[2].

L’arte di Imai affonda le sue radici in una tradizione shintoista dove ogni oggetto, animato o inanimato, possiede un’essenza spirituale, un kami. Questa credenza ancestrale permea la sua pittura in modo sottile ma persistente. Quando dispone fianco a fianco Charlie Brown e Lucy van Pelt sui rami di un albero, non si limita a mettere in scena due figurine. Actualizza una cosmogonia dove i confini tra soggetto e oggetto si sfumano, dove i giocattoli diventano detentori di una interiorità complessa. “Quando li ho messi vicini e li ho lasciati sedere sui rami degli alberi, guardavano lontano. A volte sembravano positivi, a volte sembravano persi nel ricordo”[3].

Questo approccio affonda le radici nell’animismo giapponese, quella concezione del mondo secondo cui ogni oggetto nasconde una parte di anima. In Imai, questa filosofia non è folklore decorativo, ma una vera e propria metodologia artistica. I suoi orsetti di peluche, le maschere di Chewbacca, le bambole di E.T. non sono semplici accessori nostalgici. Incarnano frammenti di coscienza collettiva, archetipi contemporanei prodotti dalla nostra civiltà di consumo e riconosciuti istintivamente. L’artista li anima di una vita interiore inquietante, dotandoli di una presenza che va oltre il loro status di oggetti manufatti.

Questa spiritualità dell’oggetto si arricchisce di una profonda dimensione psicoanalitica. Perché se Imai attinge allo sciamanesimo dello shintoismo, dialoga anche con l’inconscio freudiano e i suoi meccanismi di proiezione. Le sue composizioni evocano quei momenti dell’infanzia in cui il confine tra reale e immaginario si annulla, dove i giocattoli diventano confidenti e testimoni delle nostre prime emozioni. L’inquietante estraneità che emana dalle sue tele risiede in questa capacità che ha di riattivare in noi questi strati arcaici della psiche. Le sue figurine di Peanuts, sospese in un fogliame irreale, ci riportano a quei giardini segreti dell’infanzia dove proiettavamo i nostri desideri e le nostre paure su compagni di plastica e tessuto.

L’artista eccelle nel creare ciò che Freud chiamava das Unheimliche, quella familiarità inquietante che emerge quando il noto scivola impercettibilmente verso lo strano. Le sue nature morte domestiche, asparagi bianchi, toast imburrato, ciliegie in un piatto, sembrano a prima vista innocue. Ma un dettaglio, una luce, una composizione destabilizza lo sguardo e introduce una crepa nell’evidenza del quotidiano. Questa tecnica del leggero disallineamento attraversa tutta la sua opera e le conferisce quella poesia ambigua che ne fa la sua unicità.

Quando dipinge “Coney Island” (2025), mostrando due orsi in accappatoio seduti su una spiaggia d’inverno deserta con un parco divertimenti chiuso sullo sfondo, Imai evoca tutta la malinconia dell’America post-industriale. Quegli orsi non sono più giocattoli ma testimoni silenziosi di un’utopia ricreativa in declino. L’immagine funziona come un’allegoria del nostro rapporto contemporaneo alla felicità, sempre promessa, mai veramente raggiunta, sospesa tra nostalgia e disincanto.

La tecnica pittorica di Imai, esclusivamente incentrata sulla pittura a olio, rivela una maestria ereditata dai grandi maestri europei che ammira. Cita volentieri Manet, in particolare la sua “Fascio di asparagi” (1880), Van Eyck per la sua rappresentazione della luce e della trasparenza, Velázquez per le sue texture delicate. Ma adatta questo retaggio occidentale alla sua sensibilità giapponese, creando uno stile ibrido di una modernità sorprendente. Le sue pennellate, rapide e sicure, sembrano cogliere l’istante fugace in cui la materia si anima di una vita propria.

Questa virtuosità tecnica serve un progetto estetico ambizioso: mostrare l’invisibile che abita il visibile. Ogni oggetto che dipinge diventa pretesto per una meditazione sulla presenza e l’assenza, su ciò che rimane quando la vita si è ritirata dalle cose. Le sue composizioni evocano quei momenti sospesi che seguono immediatamente la partenza di qualcuno da una stanza, quando gli oggetti conservano ancora l’impronta di quella presenza svanita.

L’opera di Imai interroga anche il nostro rapporto contemporaneo con l’infanzia e la memoria. Madre di tre figli, trasforma il suo ambiente familiare in un laboratorio artistico permanente. Il suo salotto funge da atelier, i suoi bambini giocano intorno a lei mentre dipinge. Questa promiscuità assunta fra arte e vita domestica nutre un’estetica dell’intimo che rifiuta la tradizionale separazione tra spazio privato e spazio di creazione. “Le azioni accidentali della vita quotidiana con la natura e la famiglia sostengono il mio processo creativo” [4], spiega.

Questa iscrizione nella quotidianità familiare conferisce alle sue opere un’autenticità rara. Quando dipinge un orso con un orecchio mancante che chiama “Vincent van Dog” (2025), non cade nell’aneddoto autobiografico ma tocca l’universale della condizione umana. Quest’orso storpio diventa metafora della nostra vulnerabilità comune, delle nostre mancanze che ci definiscono tanto quanto le nostre pienezze.

L’arte di Imai rivela anche una raffinata comprensione delle trasformazioni della cultura popolare contemporanea. I suoi riferimenti a Star Wars, ai Peanuts, a Sesame Street non sono mere citazioni decorative ma un’archeologia del presente. Queste icone della cultura pop americana, assimilate dalla società giapponese e reinterpretate dallo sguardo di un’artista ipoudente, subiscono una triplice traslazione culturale che arricchisce notevolmente il loro significato originario.

Questa capacità di far dialogare Oriente e Occidente, tradizione e modernità, silenzio e comunicazione, colloca Imai in una linea di artisti giapponesi che, fin da Hokusai, sanno attingere al patrimonio nazionale pur aprendosi alle influenze esterne. Ma a differenza di molti suoi contemporanei che si lasciano andare allo spettacolare o al concettuale, ella mantiene una fedeltà incrollabile alla pittura come mezzo espressivo privilegiato.

La sua tavolozza, dominata da tonalità morbide e luminose, evoca quella particolare qualità della luce giapponese che fotografi e cineasti nipponici hanno saputo esaltare. Ma Imai non cade mai nell’estetismo decorativo. Le sue composizioni, di apparente semplicità, celano una complessità narrativa notevole. Ogni elemento è ponderato, ogni rapporto di forza calcolato per creare quegli effetti di senso che fanno la ricchezza del suo universo.

La mostra “CALM” presentata all’inizio del 2025 alla galleria Karma di New York conferma la maturità artistica di Imai. Le opere riunite testimoniano un’evoluzione stilistica verso maggiore ampiezza e monumentalità senza perdere nulla di quell’intimità che segna la sua firma. I suoi grandi formati recenti, come “Lovers” (2025) che presenta Charlie Brown e Lucy a grandezza quasi umana, rivelano la sua capacità di giocare con gli effetti di scala per intensificare l’impatto emotivo delle sue composizioni.

Questa costante ricerca dell’emozione giusta, senza pathos né sentimentalismo, costituisce forse il maggior successo di Imai. In un mondo saturo di immagini e rumore, ella propone un’arte del silenzio e della contemplazione che risuona con una forza particolare. Le sue tele funzionano come bolle di quiete nel caos contemporaneo, spazi di meditazione in cui lo sguardo può finalmente posarsi e prendersi il tempo di vedere veramente.

L’arte di Ulala Imai ci ricorda che la grande pittura non ha bisogno di soggetti grandiosi per toccare l’essenziale. Una fetta di pane imburrato, un orsacchiotto di peluche, delle figurine di cartoni animati possono bastare a rivelare i misteri dell’esistenza umana, a patto che siano osservati con quell’intensità particolare che la privazione sensoriale trasformata in dono artistico procura. In ciò, questa donna straordinaria onora la più bella tradizione della pittura: trasformare il banale in sublime, rivelare lo straordinario che dorme nell’ordinario, dare da vedere ciò che non sapevamo vedere.


  1. Bunshun Magazine, intervista 2018, citata in Yokogao Magazine, “Meditazioni Domestiche – Il mondo dolcemente luminoso di Ulala Imai”, gennaio 2025
  2. Yokogao Magazine, “Meditazioni Domestiche – Il mondo dolcemente luminoso di Ulala Imai”, di Sam Siegel, gennaio 2025
  3. Aspen Art Museum, intervista con Terence Trouillot, 2023
  4. Yokogao Magazine, “Meditazioni Domestiche – Il mondo dolcemente luminoso di Ulala Imai”, di Sam Siegel, gennaio 2025
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Riferimento/i

Ulala IMAI (1982)
Nome: Ulala
Cognome: IMAI
Altri nome/i:

  • 今井麗 (Giapponese)

Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Giappone

Età: 43 anni (2025)

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