Ascoltatemi bene, banda di snob! C’è qualcosa di magnificamente sovversivo in Wang Guangyi, nato nel 1957 a Harbin. Questo artista cinese, che ha vissuto sulla propria pelle la Rivoluzione Culturale prima di diventare uno dei più grandi nomi dell’arte contemporanea cinese, gioca con le nostre certezze come un gatto con una pallina di lana. Ma attenzione, non è un gioco innocente, è una dissezione chirurgica delle nostre illusioni collettive.
Prendiamo la sua serie “Great Criticism”, la sua opera più famosa. Ecco un artista che ha l’audacia di prendere le immagini di propaganda della Rivoluzione Culturale, quei manifesti che hanno lavato il cervello a milioni di cinesi, e di farle accoppiare con i loghi dei marchi di lusso occidentali. Il risultato? Un’orgia visiva dove Rolex, Cartier e Coca-Cola danzano un valzer perverso con gli operai, i contadini e i soldati dell’era maoista. È brillante, è provocatorio, e fa male agli occhi di chi pensa che l’arte debba essere altrettanto liscia del proprio conto in banca.
Wang non è qui per farci piacere. È qui per mostrarci come due sistemi apparentemente antagonisti, il comunismo cinese e il capitalismo occidentale, siano in realtà due facce della stessa medaglia. Due sistemi di controllo, due macchine per fabbricare desiderio e obbedienza. È Walter Benjamin che incontra Andy Warhol in un karaoke di Pechino, e il risultato è tanto affascinante quanto scomodo.
Guardate come tratta gli eroi della propaganda comunista nelle sue tele. Quelle figure monumentali, un tempo simboli della rivoluzione proletaria, diventano le modelle involontarie di una sfilata di moda distopica. I pugni alzati che un tempo brandivano il Piccolo Libro Rosso ora puntano verso i loghi dei marchi di lusso. È una trasformazione che avrebbe fatto urlare Mao e sorridere Guy Debord. Wang comprende che la società dello spettacolo non ha confini ideologici.
Ma non fatevi ingannare: Wang non è un semplice provocatore che ricicla immagini per il piacere di scandalizzare. Il suo lavoro è radicato in una riflessione profonda sulla natura del potere e della manipolazione delle masse. Quando sovrappone il logo BMW a un manifesto di propaganda, non crea solo un contrasto visivo sorprendente. Ci mostra come i meccanismi di seduzione e controllo sociale si siano adattati all’era del capitalismo globale.
Wang mantiene un’ambiguità produttiva. Le sue opere non sono né una celebrazione del capitalismo trionfante, né una nostalgia per l’era maoista. Occupano quello spazio scomodo tra i due, come un kōan zen visivo che rifiuta di darci una risposta semplice. È proprio questo che rende il suo lavoro così pertinente nella nostra epoca, in cui le certezze ideologiche crollano come castelli di carte.
Prendiamoci un momento per parlare della sua serie “Materialist”, dove trasforma le figure di propaganda in sculture monumentali. Queste opere sono un tour de force concettuale che avrebbe fatto esultare Theodor Adorno. Wang prende le icone bidimensionali del realismo socialista e concede loro una presenza fisica imponente, creando così una tensione palpabile tra l’ideologia e la materialità. Queste sculture non rappresentano tanto individui quanto l’incarnazione fisica di una fede nell’ideologia, una fede che, secondo Wang, è la fonte principale della forza del popolo.
Ciò che è affascinante è il modo in cui Wang manipola i codici visivi con una precisione da orologiaio svizzero. I numeri che appaiono sulle sue tele non sono elementi decorativi arbitrari, ma fanno riferimento alle licenze richieste durante la Rivoluzione culturale per produrre e distribuire immagini. Ogni dettaglio nella sua opera è carico di significato, come una bomba a orologeria concettuale in attesa di esplodere nella coscienza dello spettatore.
Il rosso che domina le sue tele non è il rosso gioioso delle pubblicità della Coca-Cola, ma il rosso sangue della rivoluzione, il rosso del Piccolo Libro di Mao, il rosso che ha colorato la storia della Cina moderna. Quando Wang usa questo rosso come sfondo per le sue composizioni, crea una stratificazione visiva in cui i diversi strati della storia cinese si sovrappongono e si contaminano reciprocamente.
Le critiche che accusano Wang di aver venduto la sua anima al mercato dell’arte colgono completamente il punto. Il suo successo commerciale non è un tradimento dei suoi principi artistici, è la prova vivente della pertinenza della sua critica. Il fatto che le sue opere si vendano per milioni nelle case d’asta è solo l’ultimo atto di una performance concettuale iniziata decenni fa.
L’ironia suprema è che i collezionisti che si contendono le sue tele per somme astronomiche diventano involontariamente gli attori di una critica al sistema che rappresentano. È come se Marx vendesse azioni della propria immagine, una contraddizione che probabilmente divertirebbe molto Wang.
Ma ciò che rende l’artista veramente unico è la sua capacità di trascendere il semplice commento sociale per raggiungere qualcosa di più profondo, di più universale. Le sue opere non parlano solo della Cina o del capitalismo, parlano della condizione umana nell’era della riproduzione meccanica dell’ideologia. Walter Benjamin avrebbe riconosciuto nel lavoro di Wang quella “perdita dell’aura” che teorizzava, ma portata al parossismo in un mondo in cui le icone politiche e commerciali sono diventate intercambiabili.
Il modo in cui Wang tratta le figure umane nelle sue opere merita particolare attenzione. I suoi personaggi non sono individui ma archetipi: l’operaio, il contadino, il soldato. Sono rappresentati con la stessa rigidità grafica dei loghi commerciali a cui si oppone. Questa disumanizzazione non è accidentale, è una critica mordente al modo in cui i sistemi ideologici, sia politici che commerciali, riducono gli esseri umani a simboli, a unità intercambiabili nella loro grande macchina di propaganda.
Il genio di Wang risiede nella sua capacità di usare le armi visive dei suoi avversari contro di loro. Prende le tecniche della propaganda, la ripetizione, la monumentalità, la semplificazione, e le rivolta come un guanto per esporre la loro vacuità. È un atto di judo concettuale che trasforma la forza di questi sistemi nella loro stessa debolezza.
L’artista ha compreso qualcosa di essenziale: nel nostro mondo contemporaneo, la propaganda non è scomparsa, si è semplicemente trasformata. Gli slogan rivoluzionari sono stati sostituiti da slogan pubblicitari, gli eroi del proletariato da influencer di Instagram, ma i meccanismi di controllo sociale rimangono fondamentalmente gli stessi. È questa continuità inquietante che Wang espone nella sua opera, con una precisione che fa gelare il sangue.
La sua decisione di interrompere la serie “Great Criticism” nel 2007, quando ha percepito che il suo successo internazionale rischiava di compromettere il messaggio originale delle opere, rivela un’integrità artistica rara. In un mondo in cui troppi artisti sono pronti a riprodurre indefinitamente la loro formula di successo, Wang ha scelto di preservare il senso del suo lavoro piuttosto che sfruttare la sua popolarità.
Oggi, mentre assistiamo a una nuova guerra fredda culturale ed economica tra la Cina e l’Occidente, l’opera di Wang risuona con un’attualità sorprendente. I suoi dipinti non sono reliquie di un’epoca passata, ma profezie visive che anticipano le tensioni del nostro presente. Aveva capito, molto prima di molti altri, che la vera battaglia non si sarebbe giocata tra comunismo e capitalismo, ma tra diverse versioni dello stesso sistema di controllo e manipolazione delle masse.
Wang Guangyi non è tanto un artista politico quanto un filosofo che utilizza l’arte come mezzo. La sua opera è una meditazione visiva sul potere, l’ideologia e la manipolazione delle masse che riecheggia le riflessioni di pensatori come Michel Foucault o Jean Baudrillard. Ma a differenza di questi teorici, Wang non si limita ad analizzare questi meccanismi, li mette in scena in un teatro visivo in cui lo spettatore è allo stesso tempo testimone e partecipante.
La prossima volta che vedrete una pubblicità per un prodotto di lusso o una campagna di propaganda politica, pensate a Wang Guangyi. Ci ha fornito gli strumenti concettuali per capire come queste immagini funzionano, come ci manipolano e forse come resistere a esse. È un’eredità che vale molto più di tutti i milioni che le sue opere possono fruttare all’asta.
















