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Martedì 18 Novembre

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William Monk: Il traghettatore dei mondi invisibili

Pubblicato il: 23 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Nei suoi quadri di grande formato, che sembrano aver assorbito tutta l’essenza psichedelica degli anni ’60, William Monk ci proietta in un universo in cui la realtà si dissolve come lo zucchero in una tazza di tè inglese troppo caldo.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di William Monk, nato nel 1977 a Kingston upon Thames nel Regno Unito. Ecco un artista che si rifiuta ostinatamente di lasciarsi rinchiudere nei confortevoli schemi del nostro piccolo mondo dell’arte contemporanea, preferendo navigare nelle acque torbide tra figurazione e astrazione con una spavalderia che farebbe arrossire un Rothko.

Nelle sue tele di grande formato, che sembrano avere assorbito tutta l’essenza psichedelica degli anni ’60, Monk ci proietta in un universo in cui la realtà si disgrega come uno zucchero in una tazza di tè inglese troppo caldo. Le sue opere, soprattutto quelle della serie “The Ferryman” (2019-2022), ci confrontano con una meditazione visiva sul passaggio, non quello del tempo, no, ma quello tra i mondi, tra gli stati di coscienza. Queste figure enigmatiche che emergono dai suoi paesaggi colorati come spettri benevoli non sono senza ricordare il concetto di “Dasein” di Heidegger, quell'”essere-qua” che si trova perpetuamente in una situazione di dialogo con il proprio ambiente, cercando di capire il proprio posto nell’esistenza.

I suoi paesaggi hanno la singolare caratteristica di non esistere da nessuna parte nonostante sembrino stranamente familiari. È esattamente qui che risiede il genio di Monk: ci fa accettare l’impossibile come un’evidenza. I suoi orizzonti incerti, i suoi cieli infuocati da colori improbabili, tutto questo ci riporta alla fenomenologia di Merleau-Ponty, per cui la percezione non era una semplice ricezione passiva del mondo esterno, ma una danza complessa tra il soggetto che percepisce e l’oggetto percepito. Quando Monk dipinge una montagna nella sua serie “Smoke Ring Mountain”, non è tanto la montagna a interessarci quanto il nostro modo di percepirla, di sentirla, di viverla.

La cosa più interessante di Monk è che crea opere che funzionano come mantra visivi. Prendete le sue tele circolari della serie “Nova” (2021-2022): questi cerchi che sembrano pulsare di un’energia interiore ci ipnotizzano letteralmente, costringendoci a rallentare il nostro sguardo abituato allo scroll frenetico dei social network. Queste opere sono meditazioni sulla lentezza in un mondo che corre verso la propria rovina.

Ma dietro questa apparente semplicità si nasconde una complessità diabolica. Monk gioca con le nostre percezioni come un gatto con una matassa di lana, srotolando poco a poco i fili della nostra comprensione convenzionale dello spazio e del tempo. I suoi dipinti sono portali, soglie verso altre dimensioni della coscienza. Ed è qui che entra in gioco la filosofia di Henri Bergson, in particolare il suo concetto di “durata pura”, quell’esperienza soggettiva del tempo che sfugge a ogni misura matematica. Nelle opere di Monk, il tempo non è una linea retta ma una spirale che ci risucchia verso l’interno.

C’è qualcosa di profondamente sovversivo nel modo in cui Monk usa il colore. Le sue palette sono allo stesso tempo seducenti e inquietanti, come se volessero metterci a disagio nella nostra stessa percezione. I rosa pallidi si accostano a blu elettrici, gli arancioni terrosi dialogano con viola profondi, creando vibrazioni cromatiche che risuonano da qualche parte tra la nostra retina e la nostra corteccia cerebrale. È esattamente ciò che Bergson chiamava la “donnée immédiate de la conscience”, quell’esperienza pura prima che la nostra mente razionale venga a catalogarla ed etichettarla.

La sua serie “The Ferryman” è particolarmente rivelatrice di questo approccio. Queste figure misteriose che si ergono al centro delle sue composizioni non sono semplici silhouette, ma presenze che interrogano il nostro rapporto con l’alterità. Sono lì senza esserci, come fantasmi benevoli che ci guidano verso una comprensione più profonda della nostra stessa esistenza. Si potrebbe vedere una perfetta illustrazione di ciò che Heidegger chiamava “essere-per-la-morte”, quella coscienza acuta della nostra finitudine che, paradossalmente, dà senso alla nostra vita.

Le installazioni di Monk sono altrettanto importanti quanto i suoi dipinti individuali. Il modo in cui dispone le sue opere nello spazio trasforma le gallerie in vere camere di risonanza, dove ogni tela dialoga con le altre, creando una sinfonia visiva che supera la somma delle sue parti. Ciò è particolarmente evidente in mostre come “Psychopomp” al Long Museum di Shanghai (2024), dove le sue tele circolari sospese creano una coreografia spaziale che ci fa ripensare al nostro rapporto con la gravità stessa.

Ciò che è notevole in Monk è che mantiene una coerenza artistica pur evolvendosi costantemente. Le sue serie si sviluppano come variazioni musicali su un tema, ogni nuova iterazione apporta una sfumatura, una profondità aggiuntiva all’insieme. È un po’ come se ogni quadro fosse una nota in una partitura più ampia, una partitura che esplora i limiti della nostra percezione e comprensione del mondo.

Il modo in cui Monk tratta la superficie delle sue tele è altrettanto rivelatore. I suoi tocchi di pennello, a volte delicati come una carezza, a volte energici come uno schiaffo, creano texture che invitano lo sguardo a perdersi nei loro meandri. È in questi dettagli che si rivela tutta la profondità della sua riflessione sulla natura stessa della percezione. Come sottolineava Merleau-Ponty, la nostra percezione del mondo non è una semplice ricezione passiva di informazioni, ma un’interazione attiva e costante con il nostro ambiente.

I paesaggi di Monk non sono rappresentazioni di luoghi esistenti, ma piuttosto stati d’animo materializzati sulla tela. Prendete la sua serie “Smoke Ring Mountain”: queste montagne nebbiose che sembrano dissolversi nell’aria non sono tanto montagne quanto metafore della nostra stessa ricerca di trascendenza. È come se l’artista ci invitasse a scalare queste cime immaginarie per raggiungere uno stato di coscienza superiore, una comprensione più profonda del nostro posto nell’universo.

L’influenza della musica e del cinema nel suo lavoro è innegabile, ma Monk non si limita a semplici riferimenti. Trasforma queste influenze in qualcosa di profondamente personale e universale allo stesso tempo. Le sue composizioni spesso hanno la struttura ritmica di una partitura musicale, con le loro ripetizioni, variazioni, crescendo e silenzi. È questa musicalità visiva che conferisce alle sue opere il loro potere ipnotico.

La luce gioca anche un ruolo importante nel suo lavoro. Che sia brillante come nei suoi soli circolari o diffusa come nei suoi paesaggi crepuscolari, essa sembra sempre emanare dall’interno delle tele piuttosto che illuminarle dall’esterno. È come se Monk avesse trovato un modo per dipingere la luce stessa, non come un fenomeno fisico, ma come una manifestazione della coscienza.

Ciò che rende il lavoro di Monk così pertinente oggi è che crea spazi di contemplazione in un mondo che ne è fortemente carente. Le sue opere ci costringono a rallentare, a guardare davvero, a impegnarci in una forma di meditazione attiva che è sia una sfida che una ricompensa. In un’epoca ossessionata dalla velocità e dall’immediatezza, Monk ci ricorda che alcune verità si rivelano solo a chi si prende il tempo per cercarle.

La sua arte è un invito all’esplorazione interiore, un promemoria che la realtà non è sempre ciò che sembra a prima vista. Attraverso le sue tele, Monk ci guida verso una comprensione più profonda non solo dell’arte, ma della nostra stessa esperienza dell’esistenza. E non è forse questo il ruolo più nobile che un artista possa svolgere?

Se pensate di aver capito tutto di William Monk, è perché non avete capito nulla affatto. La sua opera è una sfida permanente alle nostre certezze, un invito costante a mettere in discussione i nostri presupposti sull’arte e sulla percezione. In un mondo artistico spesso prigioniero delle proprie convenzioni, Monk rimane un elettrone libero, un esploratore instancabile delle frontiere tra il visibile e l’invisibile, tra il conosciuto e l’ignoto. Ed è proprio questo che lo rende uno degli artisti più stimolanti della sua generazione.

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Riferimento/i

William MONK (1977)
Nome: William
Cognome: MONK
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 48 anni (2025)

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