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Martedì 18 Novembre

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Wolfgang Tillmans: Un nuovo modo di vedere

Pubblicato il: 12 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Wolfgang Tillmans ridefinisce il nostro modo di vedere, le sue fotografie catturano l’ordinario con un’intensità straordinaria. Che si tratti di corpi nudi, spazi intimi o astrazioni, la sua opera trascende la documentazione per interrogare la nostra percezione stessa del mondo e delle strutture che la condizionano.

Ascoltatemi bene, banda di snob, potete continuare a fare finta di capire l’arte concettuale mentre bevete champagne a buon mercato alle vernissage, ma mentre dibattete sulle sfumature di una tela bianca, Wolfgang Tillmans ha radicalmente ridefinito cosa significa guardare il mondo. Sì, guardare davvero. Perché Tillmans non ha mai avuto paura di fissare il suo obiettivo su ciò che preferiamo ignorare, i corpi nudi, i club dopo la festa, le tracce della vita ordinaria che spazziamo sotto il tappeto della nostra esistenza regolata.

Nato nel 1968 a Remscheid, in quella Germania ancora divisa da un muro, simbolo perfetto della nostra incapacità collettiva di vedere oltre le nostre costruzioni, Tillmans ha sviluppato una visione fotografica che sfugge a qualsiasi facile categorizzazione. Le sue fotografie apparentemente casuali, spesso appese senza cornice con nastro adesivo o mollette, sfidano la preziosità tradizionale dell’arte fotografica e ci costringono a mettere in discussione perché alcune immagini meritino la nostra attenzione e altre no.

Guardiamolo in faccia: Tillmans pratica una particolare forma di alchimia visiva. No, non si tratta di una trasmutazione mistica, ma piuttosto di una forma di trasformazione sensoriale dove l’ordinario diventa straordinario. Prendete “Lutz & Alex sitting in the trees” (1992), quell’immagine ormai iconica di due persone arrampicate su rami di alberi, nude sotto i loro impermeabili aperti. L’immagine evoca immediatamente il mito di Adamo ed Eva dopo la caduta, ma in una versione contemporanea in cui la vergogna non trova più posto, dove i corpi androgini rivelano una nuova forma di innocenza consapevole di sé.

Questa fotografia ci riporta al pensiero del filosofo francese Michel Foucault sul corpo come sito di potere e resistenza. Quando Foucault analizzava come il corpo diventa un campo di battaglia politico, anticipava esattamente ciò che Tillmans avrebbe catturato visivamente decenni dopo [1]. Nelle sue fotografie di corpi nudi, di club, di manifestazioni per i diritti LGBT, Tillmans non si limita a documentare, realizza ciò che Foucault teorizzava: una forma di resistenza attraverso la visibilità. “La sessualità fa parte del nostro comportamento. Fa parte della nostra libertà in questo mondo”, scriveva Foucault, come se queste parole fossero destinate a diventare il manifesto non scritto dell’opera di Tillmans.

La visione di Tillmans non è quella di un voyeur, ma di un partecipante che comprende che vedere, vedere davvero, è un atto politico. Quando fotografa amanti che si baciano in un club come in “The Cock (kiss)” (2002), o quando documenta gli spazi dopo una festa come in “wake” (2001), non cerca lo spettacolare ma l’autenticità di un momento vissuto pienamente. Foucault ci ricordava che “la visibilità è una trappola”, eppure Tillmans ribalta brillantemente questa trappola contro se stessa, trasformando la visibilità in uno strumento di emancipazione.

Il lavoro di Tillmans trascende la semplice documentazione per raggiungere una forma di epistemologia visiva, una teoria della conoscenza basata su ciò che scegliamo di vedere e come lo vediamo. Quando Foucault parlava “dell’occhio del potere”, descriveva come il nostro sguardo è condizionato dalle strutture sociali dominanti. Tillmans, con le sue installazioni dove le gerarchie tradizionali sono abolite, dove una piccola foto di un dettaglio intimo può convivere alla pari con una grande immagine astratta, sfida direttamente queste strutture di potere visivo.

Le serie “Freischwimmer” o “Silver”, con le loro astrazioni create senza macchina fotografica, attraverso la manipolazione diretta della carta fotosensibile e dei prodotti chimici, illustrano perfettamente questa volontà di Tillmans di mettere in discussione non solo ciò che vediamo, ma come lo vediamo. Queste opere non rappresentano nulla di identificabile eppure riescono a evocare sensazioni corporee, fluidi, movimenti, come se Tillmans avesse trovato un modo per fotografare non l’apparenza delle cose, ma la loro stessa essenza.

E cosa dire del suo progetto “Truth Study Center”, dove giustappone le proprie immagini a ritagli di giornale, rapporti scientifici o documenti politici? Non è forse questa un’applicazione diretta di ciò che Foucault chiamava l’archeologia del sapere, quel metodo di analisi che cerca di scoprire le strutture nascoste che informano la nostra comprensione del mondo? Tillmans non si limita a criticare i media o la politica; crea un dispositivo che ci permette di visualizzare i regimi di verità che plasmano la nostra percezione della realtà.

Ma limitarsi a vedere Tillmans solo attraverso il prisma foucaultiano sarebbe un errore. La sua opera dialoga anche in modo impressionante con il pensiero di Henri Lefebvre sulla produzione dello spazio. Lefebvre, quel pensatore marxista francese che ha rivoluzionato la nostra comprensione dello spazio urbano e sociale, avrebbe riconosciuto in Tillmans un alleato inaspettato. Perché quando Tillmans fotografa l’architettura, come nel suo progetto “Book for Architects”, non si interessa solo agli edifici, ma a come gli spazi sono vissuti, percepiti e concepiti [2].

Lefebvre distingueva tre dimensioni dello spazio sociale: lo spazio percepito (la pratica spaziale), lo spazio concepito (le rappresentazioni dello spazio) e lo spazio vissuto (gli spazi di rappresentazione). Le fotografie di Tillmans attraversano costantemente queste tre dimensioni. Prendete le sue immagini di club come “Lights (Body)” (2000-2002), dove la pista da ballo vuota, con le sue luci stroboscopiche e i giochi d’ombra, evoca tutta l’intensità di un’esperienza corporea collettiva senza nemmeno mostrare un singolo ballerino. È proprio questo ciò che Lefebvre chiamava lo spazio vissuto, uno spazio carico di immaginario e simbolismo.

“Lo spazio non è un oggetto scientifico separato dall’ideologia o dalla politica”, scriveva Lefebvre in “La Produzione dello spazio” (1974). “È sempre stato politico e strategico”. Tillmans sembra aver interiorizzato questa visione quando fotografa le frontiere, gli aeroporti, gli edifici governativi. Le sue immagini della Concorde, simbolo del progresso tecnologico e della mobilità privilegiata, o le sue fotografie della zona di confine di Lampedusa, dove i migranti rischiano la vita per raggiungere l’Europa, sono commenti visivi diretti sulla politica dello spazio.

L’approccio di Tillmans nelle sue mostre, dove rifiuta deliberatamente le gerarchie spaziali tradizionali, si unisce anche alla critica lefebvriana dello spazio astratto del capitalismo. Quando Tillmans appende le sue fotografie dal pavimento al soffitto, ignorando le convenzioni museali, realizza quello che Lefebvre chiamava “il diritto alla città”, il diritto di trasformare e appropriarsi dello spazio urbano, o in questo caso, dello spazio espositivo. Democratizza letteralmente il modo in cui interagiamo con l’arte.

La filosofia spaziale di Lefebvre trova un’eco particolare nel modo in cui Tillmans tratta gli spazi intimi. Le fotografie di camere da letto disfatte, bagni, vestiti stropicciati su una sedia non sono semplici nature morte domestiche, ma esplorazioni di ciò che Lefebvre chiamava “lo spazio differenziale”, quegli spazi che sfuggono alla logica omogeneizzante del capitalismo. In queste immagini, Tillmans cattura ciò che Lefebvre considerava essenziale: l’appropriazione dello spazio da parte del corpo e della quotidianità.

Durante la sua grande retrospettiva al MoMA nel 2022, intitolata “To Look Without Fear”, Tillmans ha portato questa logica spaziale al suo apice. La mostra stessa diventava una produzione di spazio nel senso lefebvriano, dove i visitatori erano invitati a navigare non secondo un percorso lineare imposto, ma secondo il proprio desiderio. Le fotografie non erano raggruppate per temi o cronologicamente, ma creavano costellazioni di significato che emergevano organicamente dalla loro giustapposizione.

Questa retrospettiva ci ha anche ricordato che l’opera di Tillmans è profondamente radicata nella storia. Le sue fotografie degli anni ’90, con la celebrazione della cultura club e della liberazione sessuale post-AIDS, non possono essere comprese senza il contesto della caduta del Muro di Berlino e di quel breve periodo di ottimismo globale che ne seguì. Come avrebbe analizzato Lefebvre, queste immagini catturano un momento storico in cui nuovi spazi sociali venivano attivamente prodotti da comunità emarginate.

Ma non fraintendetemi: Tillmans non è un documentarista neutrale. Il suo sguardo è profondamente politico, impegnato e talvolta persino didattico. Quando fotografa manifestazioni contro la guerra in Iraq o per i diritti LGBT, o quando crea lui stesso manifesti contro la Brexit, assume pienamente il ruolo dell’artista come attore politico. Come sottolineava Lefebvre, “cambiare la vita, cambiare la società, non significa nulla se non vi è la produzione di uno spazio appropriato.”

Ciò che colpisce particolarmente nell’opera di Tillmans è la sua capacità di rendere visibile ciò che Lefebvre chiamava “il quotidiano”, quella dimensione della vita sociale che spesso sfugge alle analisi teoriche ma che costituisce la stessa materia della nostra esistenza. Le immagini di una maglietta che si asciuga su un radiatore, di una mela posata su un tavolo, di un uomo che si lava i capelli sotto la doccia, tutte queste scene banali diventano, attraverso l’obiettivo di Tillmans, rivelazioni sulla stessa trama della nostra vita sociale.

Tillmans ha questa rara facoltà di mostrarci simultaneamente il macro e il micro. Nelle sue fotografie astronomiche, dove cattura stelle, pianeti e fenomeni celesti, ci confronta con l’immensità cosmica. Ma nei suoi primi piani della pelle, di tessuti o carta stropicciata, ci rivela un universo altrettanto vasto nell’infinitamente piccolo. Questa costante oscillazione tra diverse scale spaziali avrebbe sicuramente affascinato Lefebvre, che si interessava alle articolazioni tra corpo, abitazione, città e mondo.

C’è qualcosa di profondamente democratico in questa visione che attribuisce uguale importanza a una vista del cielo stellato e a un angolo di lenzuolo stropicciato. Come scriveva Lefebvre, “il quotidiano, il vicino, è lontano quanto l’altrove e l’altrove è vicino quanto il quotidiano.” Questa dialettica del vicino e del lontano è al cuore dell’estetica di Tillmans.

Ma attenzione, non vorrei che pensaste che Tillmans sia un fotografo “facile” o accessibile. Le sue astrazioni, come la serie “Silver” o “Freischwimmer”, con i loro colori vibranti e forme organiche, possono sembrare ermetiche a prima vista. Tuttavia, queste opere non sono esercizi formalisti vuoti. Esplorano i limiti stessi del mezzo fotografico e mettono in discussione la nostra concezione di cosa sia un’immagine.

È proprio questa tensione tra accessibilità e complessità che rende Tillmans un artista così importante. Rifiuta il gergo elitario e le pose intellettuali, ma non sacrifica mai la profondità concettuale. Le sue installazioni, con la loro apparente disinvoltura, sono in realtà meticulosamente orchestrate per creare dialoghi visivi complessi. Come diceva Lefebvre, “il semplice non è il semplicistico, e la complessità non è la complicazione.”

La carriera di Tillmans, dai suoi inizi nelle riviste come i-D fino alla sua consacrazione istituzionale con il Premio Turner nel 2000 e alle sue grandi retrospettive nei musei più prestigiosi, illustra perfettamente quella che Lefebvre chiamava “la conquista della quotidianità”. Elevando il banale a opera d’arte, rendendo visibili i corpi e i desideri marginalizzati, rifiutando gerarchie visive stabilite, Tillmans ha veramente trasformato il nostro modo di vedere.

E non è forse questa la più grande realizzazione di un artista? Farci vedere ciò che avevamo sotto gli occhi ma che non notavamo. Farci sentire ciò che avevamo normalizzato fino all’anestesia. Farci pensare a ciò che avevamo relegato negli angoli morti della nostra coscienza. Come diceva giustamente Lefebvre, “cambiare la vita significa prima di tutto cambiare lo spazio.”

Quindi, la prossima volta che vedrete una fotografia di Tillmans, che sia appesa con una semplice molletta in una galleria alla moda o stampata su una rivista, ricordate che non state guardando solo un’immagine. State partecipando a una riconfigurazione radicale del nostro modo di vedere il mondo.

E questo, banda di snob, è molto più sovversivo di tutte le vostre teorie arzigogolate sull’arte contemporanea.


  1. Foucault, Michel. “Sorvegliare e punire: Nascita della prigione”, Gallimard, 1975.
  2. Lefebvre, Henri. “La produzione dello spazio”, Éditions Anthropos, 1974.
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Riferimento/i

Wolfgang TILLMANS (1968)
Nome: Wolfgang
Cognome: TILLMANS
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Germania

Età: 57 anni (2025)

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