Ascoltatemi bene, banda di snob, è giunto il momento di parlare di Zhang Fangbai (nato nel 1965 a Hengyang). Questo artista cinese, la cui presenza sulla scena internazionale diventa sempre più imprescindibile, merita che la sua opera venga esaminata con l’attenzione che le spetta, lontano dalle facilità concettuali che avvelenano la nostra epoca. Zhang Fangbai ci offre un approccio radicalmente diverso, una visione che trascende i cliché pur radicandosi profondamente nella tradizione cinese. Le sue opere in bianco e nero, create attraverso la collisione tra pittura a olio e inchiostro cinese, non sono semplici esercizi di stile. Costituiscono una risposta viscerale alla nostra epoca ossessionata dal colore sgargiante e dallo spettacolare a tutti i costi.
La sua serie di aquile, iniziata negli anni ’90, rappresenta molto più di un semplice studio ornitologico. Questi rapaci monumentali, figure emblematiche di potenza, diventano sotto il suo pennello manifestazioni del sublime kantiano, presenze che ci confrontano con la nostra stessa insignificanza. Come scriveva Edmund Burke nel suo trattato di estetica “Ricerca filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello” (1757): “Il terrore è, in tutti i casi possibili, in modo più o meno manifesto o implicito, il principio che governa il sublime”. Le aquile di Zhang incarnano proprio questo terrore sublime, oscillando tra minaccia e fascinazione.
Nei suoi paesaggi di grande scala, Zhang trasporta la tradizione dello shanshui (山水) in un linguaggio contemporaneo che dialoga con l’espressionismo astratto occidentale. Ma non vi sbagliate: a differenza di un Pollock che cercava di esprimere il proprio ego tormentato, Zhang mira a farsi da parte davanti a qualcosa di più grande di lui. Le sue composizioni evocano le riflessioni di Theodor Adorno sulla “negatività” nell’arte, quella capacità di resistere alle forze di omogeneizzazione della società moderna.
I suoi paesaggi astratti, vaste distese dove le forme sembrano dissolversi nel vuoto, evocano anche il concetto buddhista di śūnyatā (vacuità). Tuttavia, non si tratta di una semplice illustrazione di principi filosofici orientali. Queste opere dialogano anche con la tradizione occidentale del sublime, da Caspar David Friedrich a Mark Rothko. La differenza è che Zhang riesce a superare il dualismo occidentale tra soggetto e oggetto, creando spazi dove osservatore e osservato si fondono.
La tecnica di Zhang, che mescola olio e inchiostro, crea tensioni visive che riflettono le contraddizioni della Cina contemporanea. Le sue opere non sono tentativi di facile riconciliazione tra Oriente e Occidente, ma piuttosto campi di battaglia dove queste tradizioni si scontrano e si trasformano reciprocamente. Questo approccio richiama ciò che Walter Benjamin chiamava “costellazione”: una configurazione in cui passato e presente entrano in un dialogo critico.
L’uso quasi esclusivo del nero e del grigio nel suo lavoro non è una scelta estetica superficiale. Rappresenta una resistenza deliberata alla società dello spettacolo teorizzata da Guy Debord. In un mondo saturato di immagini sgargianti e stimolazioni visive costanti, il monocromo di Zhang diventa un atto di disobbedienza artistica.
I critici superficiali vedranno forse una semplice fusione estetica tra calligrafia cinese ed espressionismo astratto. Ma è proprio questo tipo di lettura riduttiva che perde l’essenziale. Zhang non cerca di creare un ibrido culturale commercializzabile per il mercato dell’arte occidentale. Il suo lavoro è un’esplorazione profonda delle possibilità di trascendenza in un mondo disincantato.
La sua pratica artistica potrebbe essere vista come una forma di quella che Theodor Adorno chiamava mimesi non riconciliata: un’imitazione che non cerca di domare o appropriarsi del suo oggetto, ma piuttosto di preservarne l’alterità. Le tracce di pennello nelle sue opere non sono gesti espressivi egocentrici, ma tentativi di catturare qualcosa che sfugge costantemente alla rappresentazione.
La tensione tra il vuoto e la forma nelle sue composizioni non è senza richiamare le riflessioni di Maurice Merleau-Ponty sulla “carne del mondo”. Gli spazi negativi nelle sue opere non sono semplicemente assenze, ma presenze attive che strutturano la nostra percezione. Questo approccio si riallaccia anche alle idee di François Jullien sulla nozione cinese di “shi” (势), quella potenzialità insita nelle situazioni che precede ogni attualizzazione.
Sarebbe facile vedere nel suo lavoro una semplice nostalgia per la tradizione cinese. Sarebbe un errore. Zhang crea piuttosto ciò che Walter Benjamin chiamava “immagini dialettiche”, dove il passato e il presente entrano in costellazione per produrre nuovi significati. Le sue aquile non sono simboli tradizionali fissi, ma presenze inquietanti che interrogano il nostro rapporto con il potere e la trascendenza.
Il modo in cui Zhang manipola l’inchiostro e l’olio crea effetti che vanno oltre la semplice virtuosità tecnica. Questi materiali diventano veicoli di un’esplorazione ontologica che richiama le riflessioni di Martin Heidegger sull’opera d’arte come luogo di svelamento della verità. Ma, a differenza della concezione occidentale della verità come aletheia (svelamento), Zhang lavora con una concezione del vero più vicina al dao (道), dove la verità non è tanto rivelata quanto suggerita.
Zhang Fangbai ci ricorda che la vera innovazione può venire da un dialogo profondo con la tradizione. La sua opera non è un tentativo di sintesi superficiale tra Est e Ovest, ma un’esplorazione delle tensioni produttive che emergono dal loro incontro. In questo si riallaccia alle riflessioni di Theodor Adorno sulla necessità di preservare la non-identità nell’arte, quella resistenza alla facile riconciliazione che caratterizza le opere veramente significative.
















