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Zhang Peili: Il video come esperienza limite

Pubblicato il: 9 Maggio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 9 minuti

Zhang Peili è un artista cinese che utilizza video e installazioni per creare dispositivi costrittivi. Pioniere dell’arte video in Cina (1988), trasforma gesti quotidiani in rituali ripetitivi e assurdi, esplorando sorveglianza e controllo sociale. Le sue opere provocano deliberatamente disagio e noia per mettere in discussione le nostre abitudini percettive.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Zhang Peili non è il patriarca benevolo del vostro piccolo mondo artistico ordinato. No, quest’uomo è piuttosto il sabotatore capo, colui che ha introdotto il virus della temporalità nel circuito chiuso dell’arte cinese. Dalla sua prima esperienza video nel 1988, si ostina a smontare, pezzo dopo pezzo, tutte le vostre certezze estetiche con una precisione chirurgica da orologiaio folle.

L’artista nato a Hangzhou nel 1957 possiede questa qualità rara: si annoia mortalmente di se stesso. Dove altri avrebbero capitalizzato sul loro status di “padre dell’arte video cinese”, Zhang preferisce affondare la propria leggenda. Infatti respinge questa etichetta con un misto di ironia e fastidio, definendola “intrattenimento” in un’intervista del 2019. Immaginate: create un’opera che consiste nel filmare per tre ore uno specchio che si rompe e si ripara in loop, e quando i vostri colleghi artisti chiedono di accelerare la proiezione perché si annoiano, sapete di aver fatto centro. È esattamente quello che accadde durante la conferenza di Huangshan nel 1988 con 30×30. Gli avanguardisti autoproclamati non durarono neanche dieci minuti davanti a questa prova di pazienza che trasformava il tempo in materia prima artistica.

Questa perversione calcolata ha radici in un’infanzia segnata dalla fragilità fisica e dall’universo medico. I suoi genitori lavoravano in un ospedale pediatrico e il giovane Zhang, spesso malato, sviluppò molto presto questa fascinazione morbosa per i processi clinici che attraversa tutta la sua opera. Nei suoi ricordi d’infanzia, evoca quelle lunghe ore passate a disegnare su una lavagna mentre gli altri bambini giocavano fuori. Questo precoce isolamento ha forgiato un rapporto con il mondo filtrato dall’osservazione distaccata e dalla ripetizione ossessiva. I guanti in lattice della sua serie “X?” (1986-87) non sono solo un feticcio concettuale: incarnano la membrana artificiale tra il mondo asettico dell’osservazione scientifica e il caos organico del reale. Queste tele iperrealiste di mani assenti, che fluttuano in vuoti monocromatici, anticipano già la radicale smaterializzazione della sua futura pratica.

La strategia di Zhang consiste nell’introdurre “meccanismi di costrizione” nell’esperienza artistica. Nel suo testo teorico inedito del 1989, espone la sua visione totalitaria dell’arte con una franchezza disarmante [1]. Le condizioni che enuncia, cancellazione dello spettacolare, regole rigide di impegno, partecipazione forzata, ricordano meno l’utopia democratica e più l’architettura panottica di Bentham. Il suo Procedure of “Ask First, Shoot Later”: About “X?” (1987) spinge questa logica all’assurdo: dodici pagine di istruzioni deliranti che dettano come guardare i suoi dipinti, per quanto tempo (tra 23 e 33 minuti esattamente), in quali condizioni di abbigliamento (divieto di rosso, giallo o verde). È un Fluxus rivisto da un burocrate sadico, ma con questa differenza fondamentale: le istruzioni sono arrivate dopo la creazione delle opere, rendendone impossibile l’applicazione. Questa impossibilità stessa è il vero significato dell’opera.

Il genio perverso di Zhang risiede nella sua capacità di trasformare la tecnologia di sorveglianza in uno strumento di alienazione artistica. Water: Standard Version from Cihai Dictionary (1991) mette in scena Xing Zhibin, la presentatrice del telegiornale che annunciò gli eventi di Piazza Tiananmen nel 1989, mentre recita meccanicamente la definizione della parola “acqua” tratta dal dizionario. L’ironia è gelida: colei che incarnava la voce ufficiale del potere diventa un automa che svuota il linguaggio di ogni sostanza. Zhang trasforma l’icona mediatica in uno zombie semantico, creando quella che lui stesso chiama una situazione in cui “le parole sono vere ma non hanno alcun peso”. Il dispositivo è tanto più inquietante in quanto realizzato con la collaborazione della televisione centrale cinese, dimostrando la capacità dell’artista di infiltrarsi e sovvertire le stesse istituzioni che critica.

Questa ossessione per la ripetizione meccanica raggiunge il suo apice con Document on Hygiene No. 3 (1991), dove l’artista lava meticolosamente un pollo vivo con il sapone per interminabili minuti. L’atto banale diventa rituale assurdo, un commento criptico sulle campagne governative di igiene dell’epoca. Il pollo, la cui forma evoca sottilmente i contorni della Cina sulle mappe, passa dalla ribellione alla docilità sotto le mani dell’artista, vestito con una camicia a righe che ricorda l’uniforme carceraria. Metafora trasparente? Forse. Ma Zhang eccelle in quest’arte della suggestione che non si risolve mai in un messaggio univoco. L’artista stesso insiste su questa apertura interpretativa, affermando di preferire creare “spazi elastici” piuttosto che dichiarazioni rigide.

L’approccio filosofico di Zhang si inscrive in una tradizione esistenzialista che evoca più Samuel Beckett che la saggezza orientale. In Last Words (2003), raccoglie le scene di morte dei film di propaganda rivoluzionaria, creando una litania funebre in cui l’eroismo si dissolve nella ripetizione. Le ultime parole dei martiri, private del loro contesto, diventano un coro assurdo che ricorda i personaggi beckettiani condannati a parlare per non dire nulla. Beckett scriveva: “Bisogna andare avanti, non posso andare avanti, andrò avanti” [2]. Zhang, lui, filma l’impossibilità di questa continuazione, il loop infinito di gesti privi di senso. Questa parentela non è casuale: Zhang condivide con lo scrittore irlandese quella fascinazione per l’esaurimento delle possibilità, per quei momenti in cui il linguaggio e il gesto si rivoltano contro se stessi.

L’installazione Uncertain Pleasure (1996) spinge più oltre questa esplorazione della percezione alienata. Su dieci monitor simultanei, un uomo si gratta da tutti gli angoli possibili, trasformando un gesto intimo in uno spettacolo frammentato. Il voyeurismo diventa sistema, il piacere incerto si moltiplica e si contraddice attraverso gli schermi. Zhang crea qui quella che definisce un “architettura della sorveglianza”, dove lo spettatore è allo stesso tempo osservatore e prigioniero di un dispositivo che lo coinvolge suo malgrado. Quest’opera prefigura la nostra era di sorveglianza generalizzata con una prescienza inquietante.

Più tardi, con Collision of Harmonies (2014), Zhang abbandona persino l’immagine per creare la sua prima installazione sonora: due megafoni vintage scivolano su binari, emettendo canti armoniosi che si trasformano in larsen assordanti quando si avvicinano. La dissonanza come condizione naturale di ogni armonia. L’opera funziona come una metafora perfetta della comunicazione contemporanea: più cerchiamo di avvicinarci, più il messaggio si confonde nel rumore.

Ciò che distingue Zhang dai suoi contemporanei concettuali cinesi è il suo ostinato rifiuto della trascendenza. Mentre Huang Yong Ping utilizza la filosofia dello Yi Jing (il Libro delle Mutazioni cinese) nella sua arte e Xu Bing esplora la dimensione spirituale della calligrafia cinese, Zhang preferisce rimanere ancorato al concreto e al quotidiano. Le sue opere sono macchine per produrre disagio, dispositivi per rivelare l’assurdità fondamentale dei nostri protocolli sociali. La sua arte evoca meno la saggezza orientale che le esperienze comportamentiste di Burrhus Frederic Skinner, uno Skinner che avrebbe letto Kafka e deciso che i ratti da laboratorio eravamo noi. Questa dimensione sperimentale si manifesta nel suo stesso metodo di lavoro: Zhang si descrive come un “parassita” delle tecnologie, sfruttando le falle e i potenziali non previsti dei media che utilizza.

La dimensione politica del suo lavoro rimane deliberatamente obliqua. Happiness (2006) mette in loop un oratore e il suo pubblico che applaude freneticamente, ma Zhang isola e dissincronizza gli elementi finché l’entusiasmo collettivo non appare come un’isteria autonoma, disconnessa da ogni causa. Le folle non rispondono più al leader, sono intrappolate nella loro spirale emotiva. È la psicologia delle masse rivista da un entomologo clinico. Zhang però rifiuta ogni lettura univoca: “Non faccio arte politica nel senso diretto”, afferma. Il suo lavoro opera piuttosto per corrosione lenta, rivelando i meccanismi di controllo attraverso la loro stessa esagerazione.

Nelle sue opere recenti, Zhang introduce l’interattività, ma un’interattività insidiosa. Lowest Resolution (2005-2007) presenta un video di educazione sessuale che si pixellizza man mano che lo spettatore si avvicina. Più si cerca di vedere, meno si vede. La tecnologia diventa complice di un’autocensura. È brillante e perfettamente sadico. Quest’opera illustra ciò che Zhang chiama “l’impossibilità della prossimità”, un tema ricorrente nel suo lavoro che interroga il nostro rapporto mediato con il reale.

L’evoluzione di Zhang verso installazioni meccaniche come A Necessary Cube (2011), un enorme sacco che si gonfia e si sgonfia come un polmone mostruoso, conferma la sua visione dell’arte come organismo patologico. Le sue macchine respirano, sudano, non funzionano correttamente. Incarnano quella “vita nuda” di cui parlava Giorgio Agamben, ridotta alle sue funzioni biologiche minime [3].

Ciò che rende Zhang così inquietante è il fatto che rifiuta il conforto delle posizioni nette. La sua arte video non è né puramente critica né cinicamente complice. Abita quello spazio scomodo dove la ripetizione diventa al contempo tortura e meditazione, dove la sorveglianza si trasforma in contemplazione, dove l’assurdo sfiora il sublime. Questa ambivalenza fondamentale è forse ciò che lo avvicina maggiormente alla condizione umana contemporanea, intrappolata tra controllo e libertà, tra senso e non senso.

Nel 2003, fonda il dipartimento di New Media presso la China Academy of Art, formando una generazione di artisti secondo i suoi metodi di sabotaggio metodico. Ma anche in questo ruolo pedagogico, Zhang rimane fedele alla sua filosofia della costrizione produttiva: insegna meno tecniche e più strategie di resistenza, meno saperi e più modi di mettere in discussione. I suoi studenti imparano che l’arte non è espressione ma sperimentazione, non comunicazione ma corto circuito.

Zhang Peili non ci libera, ci chiude in dispositivi sempre più sofisticati. Ma proprio in questa clausura rivela qualcosa di essenziale sulla nostra condizione contemporanea: siamo tutti cavie volontarie nell’esperimento generalizzato della modernità cinese. E la cosa peggiore è che ne chiediamo ancora. Le sue opere funzionano come trappole di coscienza, costringendoci a riconoscere la nostra complicità nei sistemi di controllo che denunciamo.

Il suo ultimo progetto, che utilizza scanner medici per riprodurre i propri organi in sculture di marmo, letteralmente la sua stessa dissezione, spinge la logica all’estremo: l’artista diventa letteralmente trasparente, le sue interiora esposte come ready-made ultimi [4]. È magnifico, è ripugnante, è puro Zhang Peili. I dati digitali del suo corpo sono tradotti in pietra, creando ciò che chiama “ossa fatte con la pietra”, una tautologia materiale che riassume perfettamente il suo approccio: trasformare l’evidenza in enigma, il banale in inquietante straniamento.

Perché in fondo, dietro tutta questa macchina concettuale, c’è sempre quel ragazzo malaticcio affascinato dagli strumenti medici, che trasforma i suoi traumi in protocolli artistici con la rigore di un ingegnere e la crudeltà di un poeta. Zhang Peili è forse l’unico artista contemporaneo capace di essere allo stesso tempo clinico e viscerale, cerebrale e carnale, minimale e barocco. Non cerca di risolvere queste contraddizioni ma di esasperarle, creando opere che sono al tempo stesso esperienze scientifiche e sessioni di tortura psicologica.

Ecco perché Zhang Peili resta indispensabile: non ci risparmia nulla, soprattutto non noi stessi. In un mondo dell’arte ossessionato dalla comunicazione e dall’affetto, persiste nel creare zone di opacità, cortocircuiti nella macchina che produce senso. È un terrorista della percezione, un burocrate dell’assurdo, un clinico delle nostre patologie collettive. Ed è proprio per questo che non possiamo distogliere lo sguardo. Le sue opere agiscono come virus cognitivi, infettando il nostro modo di vedere e pensare molto tempo dopo che abbiamo lasciato lo spazio espositivo. Nell’ecosistema dell’arte contemporanea cinese, Zhang Peili occupa la posizione del patogeno necessario, colui che impedisce al sistema di chiudersi su se stesso.

La grandezza di Zhang Peili risiede infine in questa rara capacità di trasformare la noia in rivelazione, la ripetizione in epifania negativa. Ci mostra che l’arte più radicale non è quella che urla più forte, ma quella che sa orchestrare i silenzi, gli spazi vuoti, i momenti morti. In un mondo saturo di immagini e messaggi, crea spazi di resistenza attraverso la lentezza, la ripetizione, l’ostinazione. È un maestro del karate concettuale che usa la forza dell’avversario, la nostra stessa impazienza, la nostra sete di senso, contro di noi. Ed è magnificamente insopportabile.


  1. Zhang Peili, “由一则新闻想到的……” (A partire da una notizia…), testo non pubblicato, 1989, citato in “阿特网” (“Rete Arte”), 2012.
  2. Samuel Beckett, L’Innommabile, Parigi: Éditions de Minuit, 1953.
  3. Giorgio Agamben, Homo Sacer: Il potere sovrano e la vita nuda, Parigi: Seuil, 1997.
  4. The Paper, “对话|张培力:用石头制造的骨头诠释了数据和雕塑的转化” (“Dialogo | Zhang Peili: Ossa fabbricate in pietra interpretano la trasformazione dei dati e della scultura”), 2019.

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Riferimento/i

ZHANG Peili (1957)
Nome: Peili
Cognome: ZHANG
Altri nome/i:

  • 张培力 (Cinese semplificato)

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Cina

Età: 68 anni (2025)

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