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Martedì 18 Novembre

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Adriana Varejão e la storia coloniale del Brasile

Pubblicato il: 28 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

L’opera di Adriana Varejão esplora le violenze coloniali del Brasile attraverso superfici piastrellate fessurate da cui emergono viscere dipinte. La sua manipolazione degli azulejos decostruisce l’eredità portoghese pur creando un’estetica barocca singolare.

Ascoltatemi bene, banda di snob, ne ho più che abbastanza di questi artisti contemporanei che fanno i buoni ragazzi. Adriana Varejão, invece, ci offre uno schiaffo visivo di cui la guancia arrossata si ricorderà a lungo. Questa brasiliana nata nel 1964 a Rio de Janeiro non usa mezze misure, preferisce le piastrelle di azulejos fessurate da cui scaturiscono viscere sanguinolente.

Varejão è senza dubbio una delle poche artiste in grado di trasformare un banale bagno in un manifesto politico. Le sue superfici levigate e screpolate sono come la pelle di un paese che nasconde le sue ferite sotto uno smalto di modernità. Quando espone le sue “Rovine di Charque”, queste strutture architettoniche da cui traboccano viscere dipinte, è tutto il peso del passato coloniale brasiliano che ci ricade addosso. Queste opere sono bombe a tempo antropologiche, che esplodono con la violenza di quattro secoli di storia repressa.

L’estetica di Varejão è deliberatamente ambivalente, oscillando tra seduzione e repulsione. Intrappola lo spettatore in spazi piastrellati di una bellezza clinica per poi squarciarli e rivelarne interni caotici. Questo metodo richiama irresistibilmente il pensiero di Michel Foucault sull’architettura come strumento di potere. Come spiegava il filosofo francese: “Lo spazio è fondamentale in ogni esercizio del potere” [1]. Nei suoi “Saune” e “Bagni” monocromatici, Varejão decostruisce questi spazi disciplinari, luoghi dove i corpi sono simultaneamente controllati e liberati, per esporre le falle di un sistema di rappresentazione ereditato dai colonizzatori.

Il suo uso ossessivo dell’azulejo, questa piastrella di ceramica di origine portoghese, non è casuale. L’azulejo è una testimonianza culturale che porta in sé le tracce di molteplici influenze: araba, cinese, europea, africana. Queste piastrelle blu e bianche raccontano la storia di un meticciato forzato, di una creolizzazione ante litteram. Quando Varejão se ne appropria, le deforma e le fa sanguinare, non si limita a criticare l’eredità coloniale: la assimila, la trasforma, in una perfetta illustrazione dell’antropofagia culturale teorizzata da Oswald de Andrade nel suo celebre “Manifesto Antropofago” del 1928.

Questo processo di digestione culturale mi ricorda Jacques Derrida e la sua teoria della decostruzione. In “Della grammatologia”, Derrida scrive: “Non c’è fuori-testo” [2], suggerendo che nulla esiste fuori da un contesto, da una rete di significati. Le opere di Varejão funzionano esattamente secondo questo principio: svelano gli strati successivi di significati accumulati nell’arte coloniale, li smontano e poi li riassemblano secondo una logica nuova, sovversiva.

La sua serie “Polvo” è forse il suo lavoro più incisivo su questo tema. Creando la propria palette di colori della pelle ispirata ai termini usati dai brasiliani per descrivere il loro teint durante il censimento del 1976, espone l’assurdità delle classificazioni razziali riconoscendone al contempo il potere persistente. Dal “branquinha” (bianco neve) al “morenão” (grande nero), questi autoritratti quasi identici rivelano quanto le nostre percezioni della razza siano costruite socialmente, arbitrarie e tuttavia terribilmente consequenziali.

L’approccio di Varejão è radicalmente diverso da quello degli artisti europei che si limitano a denunciare il colonialismo dalla loro posizione comoda. Lei non pretende di essere al di fuori del sistema che critica. Al contrario, si colloca deliberatamente al centro di esso, riconoscendo il proprio coinvolgimento in questa storia complessa. Come sottolinea lo storico dell’arte Jochen Volz, “fa uso della propria immagine, ma nessuna di queste opere riguarda l’autoritratto. Sembra piuttosto che l’artista metta in evidenza il fatto che è coinvolta in questo passato” [3].

L’opera di Varejão è profondamente erotica, non in un senso volgare o gratuito, ma nella tradizione barocca che lega sempre la carne alla trascendenza. Il suo erotismo è quello di Georges Bataille, per il quale “l’erotismo è l’approvazione della vita fino alla morte” [4]. Questa tensione tra vita e morte, tra piacere e sofferenza, tra bellezza e orrore è costante nel suo lavoro. Le sue “Lingue e Incisioni” e le sue “Rovine di Charque” espongono la carne come sito di parola e silenzio, di desiderio e violenza.

Non credete che Varejão si limiti a riprodurre azulejos per abbellire. La sua pratica è infinitamente più complessa e politica. Lei non fa semplici citazioni o appropriazioni, ma pratica ciò che il critico cubano Severo Sarduy chiamava la “sostituzione”, un procedimento tipicamente barocco che sposta il senso originale per stabilirne uno nuovo [5]. Quando inserisce ferite profonde in scene coloniche apparentemente innocenti, non fa solo sovvertire queste immagini, ma ne rivela la violenza insita.

Ma l’aspetto più affascinante del suo lavoro è forse la sua capacità di giocare con il tempo. Le sue crepe, ispirate alle ceramiche della dinastia Song dell’XI secolo, evocano un tempo geologico piuttosto che storico. Come scrive l’antropologo Claude Lévi-Strauss riguardo alle città del Nuovo Mondo, tutto lì “sembra in costruzione e già in rovina” [6]. Le opere di Varejão catturano perfettamente questa temporalità paradossale, sospesa tra un futuro mai raggiunto e un passato mai veramente superato.

Navigando costantemente tra queste temporalità e geografie, Varejão crea ciò che lo scrittore martinicano Édouard Glissant chiamerebbe una “poetica della Relazione”, un pensiero rizomatico che si oppone alla radice unica. “La radice unica è quella che uccide intorno a sé mentre il rizoma è la radice che si estende all’incontro di altre radici” [7], scriveva Glissant. L’arte di Varejão è proprio questo rizoma, una mappatura tessuta di culture, ere e latitudini diverse.

C’è qualcosa di profondamente cinematografico nel suo modo di affrontare l’immagine. Le sue saune monocromatiche con prospettive impossibili evocano gli spazi labirintici di Stanley Kubrick (pensate a “The Shining”, non è un caso che una delle sue opere si intitoli “O Iluminado”). Ma a differenza di Kubrick, Varejão non cerca di creare un senso di alienazione; esplora piuttosto le possibilità di connessione in un mondo frammentato dalla storia coloniale.

La sua manipolazione dei motivi geometrici, in particolare nelle sue opere ispirate alla Talavera messicana, rivela una comprensione sofisticata di come le forme migrano attraverso le culture. Isolando e ingrandendo questi motivi, mostra che l’astrazione geometrica non è l’esclusivo appannaggio del pensiero occidentale bianco. Dall’arte precolombiana alle decorazioni corporee indigene, dagli azulejos di Athos Bulcão a Brasília ai motivi sacri di Rubem Valentim, esistono molte radici e destinazioni per una “geometria sensibile” [8].

Come non rimanere stupiti dalla sua capacità di trasformare una semplice piastrella in un campo di battaglia ideologico? Queste superfici apparentemente neutre diventano sotto il suo pennello il luogo di una lotta accanita tra diverse concezioni del mondo. In “Proposta para uma Catequese”, ella ribalta letteralmente il copione del catechismo mostrando degli indigeni che mangiano Cristo invece di ricevere passivamente la comunione. Questo gesto di “contro-conquista” barocco, come lo chiamava José Lezama Lima, è tipico del suo approccio.

Più di recente, nella sua serie “Talavera”, presentata da Gagosian a New York nel 2021, Varejão spinge ancora più oltre questo approccio esplorando la tradizione ceramica messicana, essa stessa frutto di un meticciato tra tecniche spagnole e saperi indigeni. Come spiega la curatrice Luisa Duarte, “non si tratta semplicemente di giustapporre geometria, ideale, limpida, organizzata, con tracce rizomatiche imprevedibili vicine all’ambito vitale del corpo; si tratta anche di speculare su un’altra origine, e, perché no?, un altro destino, per l’astrazione geometrica” [9].

Il lavoro di Varejão ci ricorda costantemente che l’arte non è mai innocente, mai puramente estetica. È sempre intrecciata in sistemi di potere, storie di dominazione e resistenza. Ma piuttosto che chiudersi in una posizione accusatoria sterile, ella propone una visione più complessa, più sfumata, che riconosce i traumi del passato immaginando nuove possibilità per il futuro.

È senza dubbio questo che rende il suo lavoro così rilevante oggi, in un’epoca in cui vediamo riemergere ovunque movimenti reazionari che promuovono il rifugio identitario e il rifiuto della differenza. Di fronte a questa tentazione del muro, della barriera, della frontiera chiusa, l’arte di Varejão ci ricorda che le nostre identità sono sempre già meticce, sempre già in relazione con l’altro. In questo senso, la sua opera non è solo una critica del passato coloniale, ma anche una proposta per un futuro decoloniale.

Mentre alcuni si aggrappano disperatamente a nozioni di purezza culturale, di comunità immaginata fondata sulla somiglianza, Varejão afferma la fecondità dell’incrocio, del miscuglio, dell’incontro. La sua poetica della differenza è in definitiva un atto politico tra i più radicali, ci invita a immaginare altre epistemologie, distinte dai discorsi anthro/phallo/egocentrici e totalizzanti che hanno dominato finora.

Come non restare affascinati dalla coerenza di un’opera che, da diversi decenni, esplora instancabilmente gli stessi temi pur rinnovandosi costantemente? Dalle prime pitture barocche degli anni Ottanta alle installazioni monumentali di oggi, Varejão ha costruito un linguaggio visivo singolare, immediatamente riconoscibile ma mai prevedibile.

È giunto il momento che le istituzioni artistiche occidentali riconoscano pienamente l’importanza del suo lavoro, non come una curiosità esotica venuta dal Sud globale, ma come un contributo fondamentale ai dibattiti contemporanei su identità, storia e potere. Perché Adriana Varejão non è solo una grande artista brasiliana, è un’artista essenziale per comprendere il nostro mondo post-coloniale.


  1. Michel Foucault, “L’occhio del potere”, intervista con Jean-Pierre Barou e Michelle Perrot, in Bentham, “Il Panottico”, Parigi, Belfond, 1977.
  2. Jacques Derrida, “Della grammatologia”, Parigi, Éditions de Minuit, 1967.
  3. Jochen Volz, citato in “Adriana Varejão: Sutures, fissures, rovine”, catalogo della mostra, Pinacoteca di São Paulo, 2022.
  4. Georges Bataille, “L’Erotismo”, Parigi, Éditions de Minuit, 1957.
  5. Severo Sarduy, “Scritto su un corpo”, São Paulo, Perspectiva, 1979.
  6. Claude Lévi-Strauss, “Tristi tropici”, Parigi, Plon, 1955.
  7. Édouard Glissant, “Introduzione a una poetica del diverso”, Parigi, Gallimard, 1996.
  8. Roberto Pontual, “America Latina, geometria sensibile”, catalogo della mostra, Museu de Arte Moderna, Rio de Janeiro, 1978.
  9. Luisa Duarte, “Adriana Varejão: Per una poetica della differenza”, Gagosian Quarterly, 2021.
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Riferimento/i

Adriana VAREJÃO (1964)
Nome: Adriana
Cognome: VAREJÃO
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Brasile

Età: 61 anni (2025)

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