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Albert Oehlen: I paradossi calcolati della pittura

Pubblicato il: 31 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Albert Oehlen crea una pittura al contempo profondamente intellettuale e visceralmente fisica, che abbraccia l’artificiale pur rimanendo paradossalmente autentica, costringendoci a riconsiderare cosa può essere la pittura oggi.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Albert Oehlen, nato nel 1954 a Krefeld, è probabilmente l’unico artista tedesco ad aver trasformato la mediocrità deliberata in oro. Non l’oro dei mercanti d’arte, sebbene le sue tele si vendano ora per milioni di euro nelle grandi gallerie internazionali, ma l’oro filosofico degli alchimisti, quella rara capacità di trasmutare il piombo della banalità in una materia preziosa che ci fa riflettere sull’essenza stessa dell’arte.

Nel suo atelier svizzero vicino a Bühler, lontano dalle mondanità berlinese della sua gioventù punk, Oehlen continua a maltrattare la pittura come un adolescente ribelle maltratterebbe la sua chitarra elettrica. Solo che oggi, a più di 70 anni, la sua ribellione si è trasformata in una metodologia sofisticata che lo rende uno dei pittori più influenti del nostro tempo. È un po’ come se Johnny Rotten, il cantante del gruppo punk emblematico i Sex Pistols, si fosse trasformato in un compositore d’avanguardia, senza mai perdere la sua capacità di provocare e disturbare.

La prima caratteristica che definisce la sua opera è il suo rapporto con l’artificialità assunta. Contrariamente a quegli artisti che cercano disperatamente l’autenticità del gesto, sapete, quei tipi che dipingono come se ogni pennellata dovesse esprimere le sofferenze della loro anima tormentata, Oehlen abbraccia pienamente l’artificio. Fa pittura come i Kraftwerk fanno musica: celebrando la natura costruita, meccanica e deliberatamente finta della loro arte. Questo approccio risuona in modo affascinante con il pensiero di Jean Baudrillard sull’iperrealtà, quel concetto che suggerisce che la nostra cultura contemporanea ha perso ogni contatto con il “reale” per funzionare solo attraverso simulazioni e simulacri.

Il suo metodo è di una rigidità quasi scientifica nell’approccio all’artificiale. Ogni quadro inizia con un insieme di regole autoimposte, come un gioco di cui lui solo conosce le regole. Ad esempio, nelle sue prime opere degli anni ’80, si è volutamente limitato a tavolozze di colori ridotte e a composizioni goffe, creando quello che chiamava con un’ironia mordace “cattive pitture”. Queste opere, che a prima vista sembrano ingenue o mal eseguite, sono in realtà il risultato di una riflessione sofisticata sulla natura stessa della rappresentazione pittorica.

Quando Oehlen dipinge le sue serie di alberi deformati su Dibond, questi pannelli di alluminio solitamente usati per la pubblicità, non cerca di rappresentare alberi “reali”. Piuttosto crea segni di alberi, simulazioni che ci ricordano che ogni rappresentazione è artificiale. Questi alberi neri con rami tortuosi che si stagliano su sfondi magenta sgargianti sono come fantasmi digitali, dei glitch nella matrice della nostra percezione. Incarnano perfettamente quello che Baudrillard chiamava “l’omicidio del reale”: non una semplice scomparsa della realtà, ma la sua sostituzione con segni del reale più veri del vero.

La sua tecnica stessa è una celebrazione dell’artificiale. Gli strumenti digitali, che ha iniziato a usare già negli anni ’90 con software primitivi di disegno al computer, non vengono impiegati per creare effetti spettacolari, ma piuttosto per sottolineare la natura costruita dell’immagine. Le linee pixelate, i motivi ripetitivi, gli errori grafici sono integrati nelle sue composizioni come tante prove della loro artificialità. È un approccio che ricorda stranamente le prime sperimentazioni di Nam June Paik con il video, dove i difetti tecnici diventavano parte integrante dell’opera.

Questo approccio filosofico si manifesta anche nel suo rapporto con i media tradizionali. Oehlen utilizza la pittura a olio non per le sue qualità espressive tradizionali, ma come un materiale tra gli altri nel suo arsenale di segni. Le impaste, le sgocciolature, le tracce di dita non sono lì per esprimere un’emozione qualunque, ma per sottolineare la materialità del medium. È come se ogni quadro fosse una dimostrazione pratica delle teorie di Roland Barthes sulla morte dell’autore: l’artista non è più il genio espressivo ma l’organizzatore di un sistema di segni.

La seconda caratteristica del suo lavoro è il suo approccio al fallimento programmato, o meglio la sua ridefinizione radicale di ciò che costituisce il successo in arte. Negli anni ’80, mentre i suoi contemporanei cercavano di produrre capolavori, Oehlen si lanciò in quella che chiamava la “pittura cattiva”. Ma attenzione, non fatevi ingannare: la sua “pittura cattiva” non era semplicemente cattiva, era strategicamente cattiva. Questo approccio riecheggia le riflessioni di Samuel Beckett sul fallimento in arte: “Provare. Fallire. Provare ancora. Fallire ancora. Fallire meglio.”

Questa filosofia del fallimento costruttivo attraversa tutta la sua opera come un filo rosso. Ogni quadro è concepito come una sorta di esperienza dove il fallimento non solo è possibile ma desiderabile. Quando dipinge le sue grandi astrazioni caotiche, dove gli strati di pittura sembrano lottare tra loro come cani rabbiosi, non cerca la bella composizione armoniosa. Cerca il punto esatto in cui il disordine diventa significativo, dove il fallimento diventa rivelatore. È un approccio che ricorda il pensiero di Theodor Adorno sulla negatività in arte: l’idea che l’arte moderna possa essere autentica solo rifiutando le convenzioni della bellezza e abbracciando la dissonanza.

Nelle sue serie di opere degli anni ’90 e 2000, Oehlen ha spinto questa logica ancora più lontano introducendo elementi di collage pubblicitari nelle sue pitture. Questi frammenti di pubblicità non sono utilizzati per il loro contenuto o messaggio, ma come elementi formali che perturbano e complicano la superficie pittorica. È una strategia che fa pensare ai détournement situazionisti, ma senza la loro critica sociale esplicita. Oehlen si interessa piuttosto al modo in cui questi elementi commerciali possono essere trasformati in pura materia pittorica.

I dipinti recenti di Oehlen sembrano spesso il risultato di una lotta accanita tra diversi modi di rappresentazione: l’astrazione gestuale combatte i motivi geometrici, gli elementi figurativi si dissolvono in esplosioni di colori discordanti, le superfici lisce sono violentemente interrotte da strati spessi e brutali di pittura. È come se ogni dipinto fosse il campo di battaglia di una guerra estetica senza vincitori. Questo approccio ricorda la dialettica negativa di Adorno, dove la contraddizione non viene risolta ma mantenuta come una tensione produttiva.

Ma questo apparente caos è in realtà perfettamente orchestrato. Oehlen lavora con regole rigorose che si impone da solo, come un giocatore di scacchi che decide di giocare senza la regina per rendere la partita più interessante. Per esempio, in un periodo si è limitato ai tre colori primari, in un altro solo ai toni di grigio. Questi vincoli volontari non sono esercizi di stile gratuiti, ma modi per esplorare i limiti di ciò che è possibile nella pittura. È un approccio che ricorda le restrizioni che i membri dell’Oulipo si imponevano in letteratura, ma applicato alle arti visive.

Ciò che è interessante è che attraverso questo approccio apparentemente nichilista, Oehlen riesce a creare opere di una vitalità stupefacente. I suoi dipinti non sono esercizi concettuali freddi, ma organismi viventi che pulsano di energia. Anche quando usa strumenti digitali o immagini pubblicitarie, c’è sempre qualcosa di profondamente fisico nel suo lavoro, una presenza che sfida la riproduzione fotografica. È come se la pittura stessa si ribellasse alla sua natura, affermando paradossalmente la sua potenza unica.

Il suo uso del computer è particolarmente rivelatore di questo approccio. Diversamente da molti artisti che usano la tecnologia per creare effetti spettacolari o per simulare la perfezione, Oehlen la impiega per generare incidenti controllati, errori produttivi. Le sue “pitture informatiche” degli anni ’90, realizzate con software primitivi, sfruttano deliberatamente i limiti della tecnologia. Le linee pixelate, i motivi ripetitivi, gli errori grafici diventano elementi compositivi a pieno titolo.

Questo approccio riecheggia il pensiero di Gilles Deleuze sulla differenza e la ripetizione. Per Deleuze, la vera ripetizione non è la semplice riproduzione dell’identico, ma la produzione di differenza attraverso la ripetizione. È esattamente ciò che Oehlen fa con i suoi motivi ripetitivi e le sue variazioni su temi ricorrenti come gli alberi o le strutture geometriche. Ogni ripetizione produce qualcosa di nuovo, inaspettato.

Forse qui risiede il genio particolare di Oehlen: crea una pittura che è allo stesso tempo profondamente intellettuale e visceralmente fisica, che abbraccia l’artificiale pur rimanendo paradossalmente autentica. Una pittura che, come suggeriva Friedrich Nietzsche, danza sugli abissi che contempla. Le sue opere sono come dei koan zen: paradossi che ci costringono ad abbandonare i nostri presupposti su cosa dovrebbe essere la pittura.

Albert Oehlen ci costringe a riconsiderare non solo cosa può essere la pittura oggi, ma anche cosa significa essere un artista nell’era del simulacro digitale. Ci mostra che è possibile mantenere una pratica pittorica vitale pur essendo perfettamente consapevoli delle sue contraddizioni e dei suoi limiti. E forse questa è la più grande lezione del suo lavoro: l’arte non sopravvive nonostante le sue contraddizioni, ma grazie a esse. In un mondo saturo di immagini, dove la nozione stessa di autenticità è diventata problematica, Oehlen ci mostra una possibile via: quella di una pratica artistica che fa dell’artificialità stessa la sua materia prima, trasformando così la crisi della rappresentazione in una fonte inesauribile di creatività.

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Riferimento/i

Albert OEHLEN (1954)
Nome: Albert
Cognome: OEHLEN
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Germania

Età: 71 anni (2025)

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