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Ana Mendieta: L’estetica del trauma cubano

Pubblicato il: 7 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Ana Mendieta trasforma il suo trauma dell’esilio in arte viscerale, fondendosi con la terra nelle sue potenti “Siluetas”. La sua opera, impregnata di sangue e fuoco, sfida le nostre concezioni convenzionali per ritrovare una connessione primordiale con il mondo.

Questa donna, strappata dalla sua Cuba natale a 12 anni, proiettata nel vuoto gelido dell’Iowa, ha trasformato il suo trauma in un’opera che ci schiaffeggia ancora oggi. Lei non si limitava a creare arte; incarnava l’arte. Non troverete in lei le formule prevedibili di un’estetica commerciale. Quando Mendieta si copriva di fango, foglie, sangue o fuoco, non cercava di produrre oggetti di consumo per i vostri salotti immacolati.

La sua opera risuona con una profondità antropologica che farebbe rabbrividire Claude Lévi-Strauss. Attraverso la sua serie “Siluetas” (1973-1980), Mendieta si iscrive in una concezione universale del segno, dove il corpo femminile diventa un simbolo primordiale, operando come un sistema autonomo di significato. Come scriveva Lévi-Strauss: “Il simbolismo non è un effetto della società, ma la società è un effetto del simbolismo” [1]. Mendieta manipola questi sistemi simbolici primitivi con un’intelligenza feroce, trasformando il suo corpo in un terreno di comunicazione transculturale.

Le sue sagome impresse nella sabbia, nella neve, nel fango o nell’erba funzionano come ciò che Lévi-Strauss chiamerebbe “mitèmi”, unità costitutive del mito che portano un significato culturale denso. Ogni Silueta è un frammento di una mitologia personale che dialoga con le strutture antropologiche universali. L’analisi strutturalista ci permette di comprendere come questa artista cubano-americana abbia trasceso la sua doppia identità per creare un linguaggio visivo che attinge agli strati più profondi del nostro immaginario collettivo.

Quando scava i contorni del suo corpo nella terra messicana o imprime la sua sagoma nella sabbia, non si comporta da artista che vuole impressionare la galleria. Ingaggia un dialogo sismico con le culture antiche che Lévi-Strauss ha passato la vita a studiare. Nelle sue opere come “Imagen de Yagul” (1973), dove giace nuda in una tomba zapoteca precolombiana coperta di fiori bianchi, Mendieta diventa allo stesso tempo offerta e dea, morta e viva, trascendendo quello che Lévi-Strauss chiamerebbe “le strutture elementari” della nostra concezione del corpo.

L’antropologo francese ci ha insegnato che i miti funzionano come macchine per risolvere le contraddizioni fondamentali delle società. Mendieta, collocandosi letteralmente negli interstizi, tra terra e cielo, materia e spirito, Cuba e Stati Uniti, incarna questi paradossi e li trasfigura. La sua pratica risolve temporaneamente l’enigma della sua esistenza doppia, né del tutto cubana, né del tutto americana.

Il suo uso della terra non è innocente. Per Lévi-Strauss, la distinzione tra crudo e cotto segna il passaggio dalla natura alla cultura. Mendieta gioca costantemente su questo confine, trasformando il suo corpo in un sito dove natura e cultura si mescolano indistintamente. Quando si copre di fango in “Tree of Life” (1976), diventa simultaneamente umana e non umana, prodotto culturale ed entità naturale. Questa liminalità è esattamente ciò che l’antropologia strutturale cerca di analizzare.

Ma non è tutto! Perché se l’antropologia strutturale ci aiuta a decodificare il suo linguaggio visivo, è la potenza del teatro di Antonin Artaud che ci permette di cogliere la dimensione viscerale della sua opera. Mendieta praticava ciò che Artaud chiamava “un teatro della crudeltà”, non una crudeltà sadica, ma una poesia fisica che colpisce direttamente i sensi e sfonda l’armatura della nostra razionalità.

Artaud scriveva: “Il teatro ci deve dare tutto ciò che c’è nel crimine, nell’amore, nella guerra o nella follia, se vuole ritrovare la sua necessità” [2]. Non è esattamente ciò che Mendieta ci offre in “Rape Scene” (1973), dove si mette in scena legata e insanguinata, riproducendo uno stupro avvenuto nel suo campus? Questa performance non è una semplice protesta politica, è un attacco frontale ai nostri meccanismi di difesa, una convulsione che ci costringe a partecipare all’orrore.

Ciò che rende quest’opera particolarmente artaudiana è il modo in cui trasforma lo spettatore in complice. I visitatori invitati nel suo appartamento scoprivano Mendieta piegata su un tavolo, a metà nuda e coperta di sangue, in una messa in scena del crimine. Questo confronto diretto con la violenza rappresentata abolisce la distanza confortevole che di solito caratterizza il nostro rapporto con l’arte. Come avrebbe voluto Artaud, Mendieta ci spoglia delle nostre protezioni culturali per esporci a una verità insopportabile.

La nozione artaudiana di un “teatro della peste” che contagia lo spettatore trova la sua perfetta espressione nelle azioni di Mendieta. Quando usa il suo sangue come materiale in “Body Tracks” (1974), tracciando solchi rossi sui muri bianchi con le braccia, ci infetta della sua presenza corporea. Il corpo diventa un veicolo di contagio artistico, esattamente come Artaud lo immaginava: “Come la peste, il teatro è fatto per svuotare collettivamente degli ascessi” [3].

In “Anima, Silueta de Cohetes” (1976), crea una sagoma femminile di fuochi d’artificio che si accende nell’oscurità, consumando e trasformando lo spazio notturno. Quest’opera illustra perfettamente ciò che Artaud descriveva come “una poesia nello spazio… di una sensibilità effettiva e non testuale” [4]. L’esplosione, il fuoco, la trasformazione chimica dei materiali, tutto ciò crea uno spettacolo totale che coinvolge il corpo dello spettatore in un’esperienza sensoriale completa.

Questa dimensione rituale, che i critici pigri riducono spesso a un interesse superficiale per la Santería, è in realtà una profonda esplorazione di ciò che Artaud chiamava “il doppio del teatro”. Mendieta intuitivamente comprendeva che l’arte doveva ritrovare la sua funzione originaria: quella di un’esperienza totale che coinvolge il corpo tanto quanto la mente. Le sue “sculture rupestri” incise nelle grotte di Jaruco a Cuba nel 1981 non sono semplici immagini; sono invocazioni di forze primordiali, incantesimi visivi che potrebbero far sorridere Artaud nella sua tomba.

Queste incisioni, ispirate alle figure della mitologia Taíno, rivelano la comprensione che Mendieta aveva di quello che Artaud chiamava “geroglifici animati”, un linguaggio fisico che precede e trascende la parola. Quando Mendieta incide queste forme femminili stilizzate nella pietra calcarea delle grotte, ristabilisce un gesto artistico primordiale che la nostra cultura ha represso a favore della parola. È esattamente questo ritorno alle origini che Artaud sosteneva per rivitalizzare un’arte occidentale che riteneva morente.

Ma non fraintendetemi! Sebbene Mendieta si abbeveri alle sorgenti rituali, resta un’artista di un’intelligenza straordinaria. Il suo modo di documentare le sue azioni effimere, principalmente attraverso la fotografia e il film Super-8, testimonia una consapevolezza acuta delle questioni della rappresentazione. Sapeva che nella nostra cultura dello spettacolo, ciò che non è registrato non esiste. Le sue silhouette incise nella sabbia erano destinate a scomparire, ma la loro documentazione persiste come una cicatrice nella nostra memoria collettiva.

“Ochún” (1981), una delle sue ultime opere filmiche, mostra una forma femminile scolpita nella sabbia di Key Biscayne, in Florida, dedicata alla dea yoruba delle acque. Questa figura, progressivamente cancellata dalle onde, dialoga simultaneamente con le tradizioni afro-cubane e con la storia dell’arte occidentale. È un modo di riscrivere il mito di Venere, non più come dea bianca emergente dalle onde, ma come divinità nera che ritorna all’oceano. Questa sofisticazione intellettuale ci mostra che Mendieta non era una semplice “primitiva” che giocava con simboli esotici, ma un’artista concettuale rigorosa.

Ciò che distingue Mendieta dai minimalisti presuntuosi e dagli autori concettuali narcisisti della sua epoca è il suo rifiuto di opporre emozione e intelletto. Mentre gli uomini bianchi giocavano con i loro cubi immacolati e le loro teorie autoriferite, Mendieta si immergeva nel fango, nel sangue e nel fumo senza mai compromettere la rigore del suo approccio. Era simultaneamente viscerale e cerebrale, abitante di quello spazio che il pensiero occidentale ostina a frammentare.

Prendete “Blood Sign #2 / Body Tracks” (1974), citata precedentemente, in cui immerge le braccia in un miscuglio di sangue e vernice per lasciare tracce su un muro bianco. Questa azione non è solo un’espressione emotiva; è una riflessione sofisticata sulla storia della pittura, la rappresentazione del corpo femminile e i limiti dell’astrazione. Mendieta usa il suo corpo come pennello vivente, confondendo la distinzione tra artista e opera, tra soggetto e oggetto. È una decostruzione femminista dell’action painting maschile, ma è anche una meditazione sulla traccia, la presenza e l’assenza, concetti centrali dell’arte concettuale più rigorosa.

La tragedia della sua morte, cadendo dalla finestra del suo 34º piano nel 1985 in circostanze che la giustizia americana non ha mai saputo o voluto chiarire, minaccia costantemente di eclissare la sua opera. Ma è proprio questo che dobbiamo rifiutare. Ana Mendieta non era solo una vittima; era una forza della natura, un’intelligenza visionaria che ha compreso che l’arte non deve solo essere osservata, ma vissuta.

Il suo corpo, che tante volte si è fuso con la terra nelle sue opere, ci ricorda ciò che Artaud descriveva come “la vita al di là di ciò che conosciamo”. Quando Mendieta scriveva: “Ho la sensazione di essere stata strappata dal ventre materno (la natura). La mia arte è il modo in cui ristabilisco i legami che mi uniscono all’universo” [5], toccava l’essenza stessa di ciò che l’arte può realizzare: non solo decorare le nostre esistenze, ma creare ponti tra noi e l’incomprensibile.

Osservate attentamente “Creek” (1974), dove si lascia trasportare dalle acque di un ruscello, il suo corpo sembra dissolversi nella corrente. Quest’opera non è una semplice evocazione dell’Ophélie shakespeariana; è una manifestazione di quella che Lévi-Strauss chiamerebbe una “struttura mitica universale”, il ritorno all’elemento liquido come simbolo di trasformazione. Ma è anche, nella prospettiva artaudiana, un atto di volontaria spossessione, un modo per “ritrovare la vita attraverso il teatro”.

In “Sweating Blood” (1973), dove il sangue scorre lentamente sul suo volto impassibile, Mendieta compie una trasmutazione alchemica dei fluidi corporei, trasformando una sostanza tabù in materiale estetico. Questa performance è intrinsecamente legata a ciò che Artaud chiamava “il corpo senza organi”, un corpo liberato dalle costrizioni funzionali e tornato a essere pura intensità. Il sangue non è più soltanto il liquido vitale che scorre nelle nostre vene; diventa una sostanza autonoma, un attore a pieno titolo nel dramma visivo che Mendieta mette in scena.

Mentre contempliamo l’eredità di Mendieta, non dimentichiamo la radicalità del suo gesto. In un’epoca in cui l’arte diventava sempre più disincarnata, lei ha insistito sulla presenza del corpo, specificamente di un corpo femminile, cubano, esiliato. Ha rifiutato l’astrazione sterile per abbracciare un’astrazione incarnata, radicata nel sangue e nella terra. Questo approccio non era una regressione verso un primitivismo ingenuo, ma un’avanzata verso ciò che Lévi-Strauss chiamava “il pensiero selvaggio”, un pensiero che non è inferiore a quello scientifico, ma che opera secondo proprie rigorose logiche.

La lezione fondamentale di Mendieta è forse questa: l’arte vera non nasce da teorie elaborate, ma da una necessità vitale. Come scriveva Artaud: “Niente spettacoli, niente virtuosismo, niente speculazioni intellettuali o persino estetiche… ma un incontro diretto” [6]. In un mondo artistico saturo di oggetti intercambiabili e gesti insignificanti, l’opera di Mendieta conserva questa qualità rara: ci colpisce con la forza di un incontro inevitabile.

Guardate queste tracce che ha lasciato nel paesaggio, sagome scavate, bruciate, disegnate. Queste forme effimere parlano con l’eloquenza silenziosa che Lévi-Strauss attribuiva ai miti fondatori. Ci dicono che l’arte non deve essere un lusso superfluo, ma una necessità vitale, un mezzo per negoziare il nostro posto in un universo incomprensibile.

La sua pratica artistica era di una coerenza stupefacente. Dalle prime sperimentazioni con il sangue animale in “Death of a Chicken” (1972) fino alle ultime sculture di sabbia della serie “Sandwoman” (1983), Mendieta ha costruito un universo visivo dove ogni opera dialoga con le altre, formando ciò che Lévi-Strauss avrebbe chiamato un “sistema totale”. Anche quando esplorava nuovi mezzi, come nei suoi disegni a inchiostro su fogli o nelle sue sculture in legno degli anni ’80, rimaneva fedele alla sua ossessione primordiale: la fusione del corpo e della terra, dell’identità e del paesaggio.

La prossima volta che vi estasiate davanti a quadrati bianchi o NFT di scimmie, ricordate questa donna che ha trasformato il suo corpo in un campo di battaglia artistico. Ana Mendieta non ha creato oggetti per il mercato dell’arte; ha creato esperienze che continuano a perseguitarci, a turbarci, a trasformarci. E in un mondo artistico dominato dalla vacuità e dall’artificio, non è forse esattamente ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno?

Ascoltatemi bene, banda di snob, è tempo di parlare di Amy Sillman, quella pittrice le cui opere sono come schiaffi deliziosi alle convenzioni pittoriche, esercizi di alta acrobazia dove l’astrazione e la figurazione si abbracciano e si mordono simultaneamente.


  1. Antonin Artaud, “Il teatro e il suo doppio”, Gallimard, 1938.
  2. Ana Mendieta, dichiarazione dell’artista citata in “Ana Mendieta: Earth Body, Sculpture and Performance”, Hirshhorn Museum, 2004.
  3. Ibid.
  4. Ibid.
  5. Antonin Artaud, “Per finirla con il giudizio di dio”, 1947, Opere complete XIII, Gallimard.
  6. Valéry, Paul. Filosofia della danza, Gallimard, Parigi, 1957.
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Riferimento/i

Ana MENDIETA (1948-1985)
Nome: Ana
Cognome: MENDIETA
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Cuba

Età: 37 anni (1985)

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