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Avery Singer: La mutazione digitale della pittura

Pubblicato il: 25 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 4 minuti

Avery Singer usa il software di modellazione 3D SketchUp come altri usano il pennello, trasformando lo strumento dell’architetto in un’arma di decostruzione massiccia. Crea figure robotiche, spazi geometrici che sembrano usciti da un film di fantascienza degli anni ’80.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Avery Singer (nata nel 1987) è l’incarnazione stessa di questa nuova generazione di artiste che, armata delle tecnologie digitali, viene a scuotere i fondamenti tradizionali della pittura con una spavalderia calcolata. Nata e cresciuta a New York da genitori artisti-proiezionisti, è cresciuta nell’atmosfera bohémien di TriBeCa, immersa nei vapori della vernice e nel ronzio dei proiettori del MoMA dove lavorava suo padre. Un’infanzia che sa di celluloide e di essenza di trementina.

La prima caratteristica che colpisce nella sua opera è la sua relazione quasi ossessiva con la tecnologia digitale. Singer utilizza il software di modellazione 3D SketchUp come altri usano il loro pennello, trasformando così lo strumento dell’architetto in un’arma di decostruzione massiccia. Crea figure robotiche, spazi geometrici che sembrano usciti da un film di fantascienza degli anni ’80, ma con la precisione chirurgica di un programma informatico. È come se Max Ernst avesse avuto accesso a un MacBook Pro.

Ma non fatevi ingannare, non si tratta di una semplice prodezza tecnica. Singer gioca con i codici dell’arte contemporanea come un gatto con un topo morto. Le sue prime opere, in particolare nella mostra “The Artists” alla galleria Kraupa-Tuskany Zeidler nel 2013, sono una satira mordace del mondo dell’arte. Vi mette in scena artisti-robot in situazioni stereotipate: la visita dello studio, l’incontro con il collezionista, la performance artistica. È Bertolt Brecht che incontra Black Mirror, una distanza critica che fa scricchiolare i custodi del tempio dell’arte contemporanea.

La seconda caratteristica del suo lavoro è la sua relazione complessa con la storia dell’arte. Singer dialoga con le avanguardie storiche, Costruttivismo, Futurismo, Cubismo, ma non come una studentessa rispettosa. Le cannibalizza, le digerisce e le rigetta in un linguaggio visivo completamente nuovo. Prendete ad esempio la sua riappropriazione della “Testa di donna” di Naum Gabo: la trasforma in un motivo ricorrente, una maschera intercambiabile per i suoi personaggi robotici. È un approccio che avrebbe fatto urlare Clement Greenberg e sorridere Walter Benjamin.

Nella sua pratica, Singer utilizza l’aerografo con precisione maniacale, creando superfici così lisce da diventare quasi cliniche. Spinge questa logica ancora più avanti con la sua macchina Michelangelo ArtRobo, un sistema di aerografo controllato da computer. È come se cercasse di eliminare ogni traccia della mano umana, pur creando opere profondamente umane nel loro interrogarsi. Questa apparente contraddizione è al cuore del suo approccio: l’uso della tecnologia per esplorare i limiti dell’umanità.

Theodor Adorno avrebbe probabilmente visto nel lavoro di Singer una manifestazione perfetta della sua teoria della “tecnica come ideologia”. Lei utilizza gli strumenti dell’industria culturale, software 3D, aerografi automatizzati, per creare opere che criticano la stessa industria. È un’impresa intellettuale che ricorda le pagine migliori della “Dialettica della Ragione”.

I lavori più recenti di Singer, in particolare quelli presentati in “Reality Ender” presso Hauser & Wirth, segnano un’evoluzione significativa. Ella introduce elementi autobiografici e una riflessione sul trauma collettivo, in particolare attraverso la sua esperienza personale dell’11 settembre 2001. È come se Jean-François Lyotard incontrasse Don DeLillo in un bar dell’East Village per discutere della fine dei grandi racconti.

Le sue opere recenti integrano riferimenti alla cultura internet, meme, personaggi Wojak, mantenendo al contempo un dialogo con la storia dell’arte. Crea così un ponte vertiginoso tra l’alta cultura e la cultura digitale, tra il MoMA e 4chan. È questo tipo di trasgressione che fa storcere il naso ai puristi, ma che fa progredire l’arte.

La pratica di Singer rappresenta una rottura radicale con le convenzioni della pittura pur restando profondamente radicata nella sua storia. Usa la tecnologia non come un gadget, ma come un mezzo per interrogare la nostra relazione con l’immagine, la realtà, l’autenticità. Il suo lavoro pone questioni fondamentali su cosa significhi essere artista nell’era digitale, quando la distinzione tra reale e virtuale diventa sempre più sfumata.

Questo approccio ricorda la teoria del simulacro di Jean Baudrillard: nel mondo di Singer, la copia diventa più reale dell’originale, il virtuale più tangibile del fisico. Ma a differenza di alcuni artisti che si limitano a cavalcare l’onda del digitale, Singer scava più a fondo. Esplora le implicazioni filosofiche ed esistenziali della nostra relazione con la tecnologia.

Per coloro che pensano ancora che la pittura sia morta, Singer dimostra che è ben viva, ma può mutare in qualcosa di nuovo, più complesso, più ambiguo. Crea un’arte che riflette la nostra epoca nella sua complessità tecnologica e nella sua incertezza esistenziale. È un’arte che rifiuta le facilità dello spettacolo pur essendo profondamente spettacolare.

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Riferimento/i

Avery SINGER (1987)
Nome: Avery
Cognome: SINGER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 38 anni (2025)

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