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Aya Takano: L’architetto dei mondi fluttuanti

Pubblicato il: 25 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Nei suoi dipinti onirici, Aya Takano trascende le leggi della fisica, popolando spazi urbani e cosmici con creature androgine dalle membra smisurate, creando un universo in cui la fantascienza si affianca alla mitologia in una danza perpetua.

Ascoltatemi bene, banda di snob, vi parlerò di Aya Takano, nata nel 1976 a Saitama. Questa artista giapponese, emersa come un fiore di ciliegio mutante nel giardino troppo ordinato dell’arte contemporanea, merita di essere esaminata con particolare attenzione.

Immaginate per un attimo il Giappone degli anni ’80, dove la società dei consumi esplode come fuochi d’artificio capitalisti in un cielo saturo di neon. È in questo contesto che Aya Takano sviluppa il suo universo artistico, popolato da creature androgine che sembrano uscite direttamente da un esperimento di laboratorio fallito. I suoi personaggi con arti smisuratamente lunghi, con articolazioni rosse come ciliegie mature, fluttuano in uno spazio dove la gravità è solo una cortese suggestione. Le sue tele sono finestre aperte su un mondo dove la fisica newtoniana è andata in vacanza permanente, dove le leggi dello spazio-tempo si piegano ai capricci della sua immaginazione sfrenata.

L’artista attinge al concetto filosofico giapponese di “mono no aware”, quella consapevolezza acuta dell’impermanenza delle cose, per creare opere che oscillano tra malinconia e meraviglia. I suoi personaggi, spesso nudi, non sono lì per soddisfare i nostri istinti bassi, ma piuttosto per ricordarci la nostra vulnerabilità fondamentale. Fluttuano in spazi urbani o cosmici come astronauti alla deriva, simboleggiando il nostro stesso vagare in un mondo dove i riferimenti tradizionali si dissolvono come zucchero nel tè verde troppo caldo.

Nella sua serie emblematico “The Jelly Civilization Chronicle”, Takano ci proietta in un futuro dove la rigidità della nostra civiltà si è liquefatta. Gli edifici, i veicoli, persino gli utensili da cucina si sono trasformati in forme gelatinose, malleabili, ricordando stranamente le teorie del filosofo Zygmunt Bauman sulla “modernità liquida”. Questa visione di una società in continua mutazione risuona con la nostra epoca, dove identità e certezze si dissolvono nell’acido della modernità sfrenata.

La sua tecnica pittorica, che mescola la delicatezza delle stampe ukiyo-e con la crudezza del manga contemporaneo, crea un dialogo affascinante tra tradizione e modernità. I suoi colori pastello, applicati in strati traslucidi come veli di seta sovrapposti, costruiscono atmosfere oniriche che ricordano le teorie del filosofo Walter Benjamin sull’aura dell’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica. Ogni tela diventa un portale verso un universo parallelo dove la realtà si piega ai capricci dell’immaginazione, dove i confini tra possibile e impossibile si dissolvono in una nebbia di colori teneri.

La catastrofe di Fukushima nel 2011 ha segnato una svolta decisiva nel suo lavoro, come un terremoto artistico che ha scosso le sue certezze estetiche fino alle fondamenta. Ha abbandonato l’acrilico per l’olio, materiale più “naturale”, dice, in una ricerca di senso e autenticità che trascende le semplici considerazioni tecniche. Questo cambiamento di medium riflette una presa di coscienza più profonda: l’arte non può più limitarsi a essere un semplice specchio deformante della realtà, deve diventare un vettore di trasformazione sociale e ambientale, un catalizzatore di cambiamento in un mondo sull’orlo del baratro ecologico.

La sua opera “May All Things Dissolve in the Ocean of Bliss” (2014) illustra perfettamente questa evoluzione. In questa composizione monumentale, umani, animali e infrastrutture industriali coesistono in un’armonia improbabile, come un’utopia ecologica in cui la tecnologia ha finalmente trovato il suo giusto posto. È un manifesto visivo che riecheggia le teorie dell’antropologo Philippe Descola sulle relazioni tra natura e cultura, una visione di un mondo riconciliato con se stesso, dove l’umanità ha finalmente imparato a danzare con i suoi demoni tecnologici invece di combatterli.

I critici occidentali hanno spesso voluto vedere nel suo lavoro una semplice estensione del movimento Superflat iniziato da Takashi Murakami. Che errore monumentale! È riduttivo e persino offensivo per un’artista che ha saputo creare un linguaggio visivo unico, dove la fantascienza convive con la mitologia con una grazia disarmante, dove l’erotismo sfiora l’innocenza senza mai scivolare nella volgarità a buon mercato. Le sue creature androgine trascendono le categorie di genere, proponendo una visione post-binaria dell’umanità che risuona particolarmente con le questioni contemporanee sull’identità e la fluidità dei generi.

L’influenza dei romanzi di fantascienza che divorava nella biblioteca paterna è evidente, ma va ben oltre la semplice citazione o l’omaggio superficiale. Crea quello che il filosofo Jean Baudrillard avrebbe potuto chiamare “simulacri incantati”, rappresentazioni che non cercano più di imitare la realtà ma di crearne una nuova, più elastica, più poetica, più inclusiva. La sua arte è un esercizio di reinvenzione perpetua, una danza sul filo teso tra il reale e l’immaginario.

Nelle sue opere più recenti, come “Let’s Make the Universe a Better Place” (2020), Takano spinge ancora più in là l’esplorazione dei confini tra realtà e finzione. Qui sviluppa una nuova cosmogonia personale dove le leggi della fisica si piegano alle esigenze della poesia. I suoi personaggi non si limitano più a galleggiare, trascendono letteralmente le costrizioni della materia, diventando esseri di pura luce in un universo in perenne espansione. Questa evoluzione recente del suo lavoro ricorda le teorie del filosofo Gilles Deleuze sul divenire e la molteplicità, dove l’essere non è più definito dalla sua sostanza ma dal suo potenziale di trasformazione.

Il suo trattamento dello spazio urbano è molto interessante. Le città che dipinge non sono le megalopoli ansiogene del cyberpunk classico, ma giardini verticali in cui la natura riprende i suoi diritti in modi inaspettati. I grattacieli si trasformano in strutture organiche, le strade diventano fiumi di luce e gli spazi pubblici si trasformano in parchi giochi per le sue creature eteree. Questa reinvenzione dell’urbanità richiama le teorie dell’architetto Rem Koolhaas sulla città generica, pur sovvertendole in modo giocoso e poetico.

L’uso che Takano fa del colore è altrettanto rivoluzionario. Le sue palette pastello, che potrebbero sembrare smunte nelle mani di un artista meno abile, diventano sotto il suo pennello strumenti di sovversione sottile. Usa la dolcezza cromatica come un cavallo di Troia, introducendo elementi perturbatori in composizioni apparentemente innocenti. Questa strategia ricorda le teorie di Roland Barthes sulla neutralità come forma di resistenza, un approccio che permette di superare le aspettative evitando la confronto diretto.

Il suo rapporto con il corpo umano è particolarmente affascinante. Le proporzioni impossibili delle sue figure, con arti allungati e teste sovradimensionate, non sono semplici capricci stilistici. Rappresentano un tentativo deliberato di ridefinire i canoni della bellezza e dell’umanità. In un mondo ossessionato dalla normalizzazione dei corpi, le sue creature celebrano la differenza e la stranezza con una gioia contagiosa. È un atto di resistenza estetica che riecheggia le teorie di Judith Butler sulla performatività del genere e la costruzione sociale delle norme corporee.

La dimensione narrativa del suo lavoro è altrettanto notevole. Ogni tela è un romanzo visivo in potenza, una storia che si sviluppa in molteplici direzioni simultaneamente. Questo approccio multidimensionale al racconto ricorda le sperimentazioni letterarie dell’Oulipo, ma trasposte nel campo visivo. Le sue opere sono macchine per generare storie, dispositivi narrativi che invitano lo spettatore a diventare co-creatore del senso.

In Takano, il tempo non è una freccia unidirezionale ma una sostanza malleabile che si ripiega su se stessa. Passato, presente e futuro si mescolano in una danza complessa che evoca le teorie del fisico Carlo Rovelli sulla natura illusoria del tempo. I suoi personaggi sembrano esistere in un eterno presente, liberati dai vincoli della cronologia lineare.

Nelle sue ultime opere, Takano esplora sempre più il concetto di comunità e interconnessione. I suoi personaggi, sebbene individualmente distinti, sembrano condividere una coscienza collettiva, come collegati da fili invisibili che trascendono lo spazio fisico. Questa visione di un’umanità interconnessa riecheggia le teorie del sociologo Bruno Latour sulle reti di attori e sulla natura collettiva dell’esistenza.

Aya Takano non è semplicemente un’artista che dipinge sogni, è un’architetta che costruisce ponti tra il nostro mondo rigido e un universo dove la fluidità è sovrana. La sua arte ci ricorda che la realtà, come i suoi personaggi fluttuanti, potrebbe essere solo una questione di prospettiva, e che la gravità, sia essa fisica o sociale, potrebbe essere solo una convenzione dalla quale possiamo liberarcene. In un mondo che sembra correre verso la sua rovina, la sua opera ci offre una boccata d’ossigeno, uno spazio di respiro dove l’immaginazione può finalmente spiegare le ali senza temere di bruciarsi al sole della ragione.

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Riferimento/i

Aya TAKANO (1976)
Nome: Aya
Cognome: TAKANO
Altri nome/i:

  • タカノ綾 (Giapponese)

Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Giappone

Età: 49 anni (2025)

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