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Barbara Kruger: Parole rosse su sfondo di potere

Pubblicato il: 27 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 17 minuti

Con le sue fotografie in bianco e nero sovrastate da testi incisivi, Barbara Kruger ha creato un linguaggio visivo reinterpretato da tutti. La sua arte ci confronta con le nostre contraddizioni e rivela la meccanica dei poteri che infiltrano la nostra quotidianità.

Ascoltatemi bene, banda di snob, smettete per un attimo il vostro piccolo gioco da pseudo-intellettuali in cerca della prossima sensazione artistica da divorare come avvoltoi affamati. Barbara Kruger non è semplicemente un’artista che mette parole sulle immagini. È colei che ha capito, molto prima della nostra era di Instagram e meme virali, che il linguaggio visivo poteva essere deviato, riappropriato e trasformato in un’arma di distruzione di massa contro lo status quo.

Questa donna nata nel 1945 nel proletario New Jersey, outsider diventata insider senza mai perdere la sua rabbia, non ha mai smesso di farci affrontare le nostre contraddizioni. Con le sue fotografie in bianco e nero sovrastate da testi bianchi su sfondo rosso, Kruger ha creato un linguaggio visivo così distintivo che è stato saccheggiato da tutti, dai marchi di streetwear ai pubblicitari, prova che il capitalismo divora persino ciò che lo critica. Che deliziosa ironia, vero?

La sua retrospettiva appena conclusa alla Serpentine Gallery di Londra, intitolata “Thinking of You. I Mean Me. I Mean You”, testimonia la rilevanza attuale del suo lavoro. In un mondo in cui i confini tra realtà e finzione sfumano come la condensa su uno specchio, Kruger rimane quella voce chiara che ci dice: “Guardate cosa siete diventati. Guardate cosa siamo diventati.” E noi guardiamo, affascinati, orripilati, incapaci di distogliere lo sguardo.

La letteratura distopica: l’anticipazione degli incubi a occhi aperti

L’opera di Barbara Kruger risuona profondamente con le distopie letterarie che hanno anticipato il nostro presente disincantato. Quando dichiara, su quel gigantesco muro della Serpentine, “If you want a picture of the future, imagine a boot stomping on a human face, forever” (Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano, per sempre), evoca direttamente lo spettro di George Orwell e il suo 1984 [1]. Questa frase, che ci gelida il sangue con la sua brutalità lucida, stabilisce una connessione viscerale tra l’universo orwelliano e la nostra realtà contemporanea.

Come Orwell aveva previsto, il linguaggio è diventato il principale campo di battaglia della nostra epoca. La neolingua orwelliana non è più una finzione ma il nostro quotidiano, dove le parole sono svuotate del loro significato, ribaltate, manipolate. Deviando i codici visivi della pubblicità e della propaganda, Kruger pratica ciò che lo scrittore chiamava “la ribellione linguistica” contro il potere. Lei comprende, come lui, che “se il pensiero corrompe il linguaggio, il linguaggio può anche corrompere il pensiero” [2].

In “Untitled (Your body is a battleground)”, quest’opera iconica del 1989 creata per la Marcia delle Donne a Washington, Kruger non si limita a difendere il diritto all’aborto, ma ci immerge nella visione da incubo anticipata da Margaret Atwood in “Il racconto dell’ancella”. Questa donna con il volto diviso in due, positivo e negativo, ci ricorda con una terribile precisione che il corpo femminile è il primo territorio colonizzato dai poteri autoritari. Trentacinque anni dopo, mentre i diritti riproduttivi sono minacciati in tutto il mondo, questa immagine non ha perso nulla della sua potenza profetica.

Quando Kruger dichiara “Our people are better than your people. More intelligent, more powerful, more beautiful, and cleaner. We are good and you are evil. God is on our side” (La nostra gente è migliore della vostra. Più intelligenti, più potenti, più belli e più puliti. Noi siamo i bravi e voi siete i cattivi. Dio è dalla nostra parte), espone la retorica nazionalista e totalitaria con una precisione chirurgica. Lei decostruisce il “noi contro di loro” che struttura molte opere distopiche, da Orwell a Zamiatine passando per Huxley. La sua arte diventa allora una forma di contro-fiction che utilizza le armi del nemico, gli slogan, le formule ad effetto, le immagini manipolatorie, per far implodere il sistema dall’interno.

Questa capacità di rivelare la meccanica della distopia in tempo reale fa di Kruger molto più di un’artista: diventa una sentinella, una Cassandra moderna i cui avvertimenti sono finalmente ascoltati, forse troppo tardi. “The secret of the demagogue is to make himself as stupid as his audience so that they believe they’re as clever as he is” (Il segreto del demagogo è rendersi tanto stupido quanto il suo pubblico affinché credano di essere intelligenti quanto lui), ci dice citando Karl Kraus. Una formula che risuona con particolare acutezza nella nostra epoca di eccessiva semplificazione del discorso politico.

L’architettura sociale: costruire e distruggere lo spazio

Se la letteratura distopica ci offre una griglia di lettura per comprendere la dimensione politica dell’opera di Kruger, è verso l’architettura che bisogna volgere lo sguardo per afferrare il suo rapporto con lo spazio e il potere. Barbara Kruger non è semplicemente un’artista che appende immagini su un muro, è un’architetta della nostra percezione, che comprende che lo spazio non è mai neutro ma sempre politico.

Quando investe lo spazio museale, come all’Art Institute of Chicago o al Hirshhorn Museum con “Belief+Doubt”, Kruger non si limita ad occupare i luoghi: li trasforma in territori contesi. Coprendo pavimenti, pareti e soffitti con testi giganti, crea ciò che l’architetto Rem Koolhaas chiamerebbe “spazi di attrito” [3], zone in cui la nostra percezione abituale è perturbata, dove siamo costretti a negoziare attivamente il nostro rapporto con l’ambiente.

Questo approccio architettonico al messaggio visivo si iscrive nella linea delle teorie di Le Corbusier sullo “spazio indicibile”, quello spazio che trascende le dimensioni fisiche per raggiungere una dimensione emotiva e politica. Kruger comprende, come lui, che “l’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi assemblati sotto la luce” [4], ma aggiunge a questa definizione una dimensione critica essenziale: l’architettura è anche un sistema di potere che organizza i nostri corpi e le nostre menti.

Nella sua serie “Hospital” del 1977, Kruger esplorava già come l’architettura istituzionale plasmi la nostra esperienza e la nostra identità. Attraverso fotografie di spazi medici freddi e impersonali, rivelava come l’architettura ospedaliera disumanizzi e oggettifichi i pazienti. “The manipulation of the object/The blaming of the victim/The accusation of hysteria/The making mute” (La manipolazione dell’oggetto / L’accusa alla vittima / L’accusa di isteria / Il mettere a tacere), dichiarava, esponendo i meccanismi attraverso i quali lo spazio architettonico diventa uno strumento di controllo sociale.

Questa sensibilità architettonica raggiunge il suo apice nella sua collaborazione con l’agenzia Smith-Miller + Hawkinson per il progetto “Imperfect Utopia” presso il North Carolina Museum of Art. Il loro manifesto rivela un approccio radicalmente nuovo allo spazio pubblico: “To disperse the univocality of a ‘Master Plan’ into an aerosol of imaginary conversations and inclusionary tactics. To bring in rather than leave out. To make signs. To re-naturalize.” (Disperdere l’univocità di un “Piano Regolatore” in un aerosol di conversazioni immaginarie e tattiche di inclusione. Far entrare invece di escludere. Produrre segni. Riconnaturalizzare) [5] Qui, Kruger non si limita più a criticare l’architettura dominante, propone una contro-architettura, uno spazio alternativo che abbraccia la molteplicità e rifiuta l’unicità del “piano maestro”.

Questa visione architettonica sovversiva trova la sua espressione più potente nelle sue installazioni immersive, come quella del Kunstverein di Colonia nel 1990. Dipingendo il pavimento di sangue rosso e inscrivendo sulle travi del soffitto domande come “Who makes history? Who does the crime? Who is housed?”, Kruger trasforma lo spazio museale in un teatro della crudeltà dove il corpo dello spettatore è letteralmente preso nelle reti del linguaggio. Come scrive David Deitcher, “If the earlier gallery installations resulted in theaters of condescension, then this one, at the Cologne Kunstverein in August 1990, must rank as a new theater of cruelty.” [6] (Se le prime installazioni in galleria divennero teatri di condiscendenza, allora questa, al Kunstverein di Colonia nell’agosto 1990, deve essere considerata un nuovo teatro della crudeltà).

Questa acuta coscienza della dimensione spaziale del potere fa di Kruger una erede critica di Michel Foucault, per il quale l’architettura era indissociabile dalle tecnologie disciplinari. Quando dichiara “All violence is the illustration of a pathetic stereotype” (Ogni violenza è l’illustrazione di uno stereotipo patetico), non si limita a denunciare la violenza, ma espone come questa violenza sia inscritta nell’organizzazione stessa del nostro spazio sociale, come sia “architettata”.

Nel 2016, per la sua installazione alla National Gallery of Art di Washington, Kruger non si è limitata ad appendere delle opere, ha creato un ambiente totale dove lo spettatore è confrontato con i propri pregiudizi e contraddizioni. Trasformando le scale in superfici di testo (“Not Dead Enough”, “Not Loud Enough”), fa dell’architettura stessa un messaggio, un grido di protesta. Lo spazio non è più il contenitore neutro dell’opera ma diventa l’opera stessa, un sistema semiotico complesso che ci costringe a ripensare il nostro rapporto con il mondo.

Nel suo progetto per Seattle, dove un capannone storico doveva essere trasformato in un luogo della memoria, Kruger ha mostrato la sua profonda comprensione di ciò che l’architetto Bernard Tschumi chiama “l’architettura della disgiunzione” [7], quell’architettura che crea deliberatamente tensioni e contraddizioni per rivelare le forze sociali in gioco. Quando l’edificio è stato demolito nonostante il progetto approvato, Kruger ha trasformato questo atto di distruzione in una nuova opera, circondando lo spazio vuoto con domande scottanti: “Who makes history?” “What disappears?” “What remains?” (“Chi fa la storia?” “Cosa scompare?” “Cosa rimane?”). Questa capacità di integrare persino la distruzione del suo progetto in una nuova proposta artistica dimostra la sua profonda padronanza delle questioni architettoniche e politiche dello spazio.

Così, Barbara Kruger non si limita a usare l’architettura come supporto, ma pensa architettonicamente. Comprende che, come scriveva Winston Churchill, “noi plasmiamo i nostri edifici, poi gli edifici plasmano noi” [8]. Le sue installazioni ci ricordano che lo spazio non è mai innocente, che ogni configurazione architettonica porta in sé una visione politica del mondo.

L’arte come virus: contaminazione e resistenza

Di fronte a un sistema che recupera tutto, anche la critica, quale strategia adottare? Barbara Kruger ha trovato la sua: diventare un virus che infetta il sistema dall’interno. La sua pratica artistica funziona come una forma di “sabotaggio semiotico”, riprendendo il concetto del teorico Umberto Eco [9].

Quando il marchio Supreme si appropria della sua estetica per vendere skateboard e abbigliamento streetwear, quando innumerevoli pubblicitari imitano il suo stile visivo per vendere prodotti, Kruger non si offende, si adatta. Nella sua installazione “Untitled (That’s the way we do it)” (2011/2020), lei rilegittima queste copie e imitazioni, creando un’opera meta che espone la circolazione virale dei segni nella nostra cultura. Comprende, come Eco, che nella “guerriglia semiotica” non si tratta di controllare il messaggio ma di disturbare i canali di comunicazione.

Questa strategia virale spiega anche perché Kruger rifiuta di limitare il suo lavoro a un solo medium o a un solo contesto. Crea T-shirt, manifesti, billboard, copertine di riviste, cartoline, ogni supporto suscettibile di diffondere il suo messaggio. Collabora con architetti, scrive critica cinematografica, progetta campagne pubblicitarie. Come lei stessa spiega, questa diversità le permette di “mettere in discussione i limiti della vocazione” [10] e di sfuggire al recupero istituzionale.

Il modo in cui Kruger ha investito lo spazio pubblico con i suoi messaggi provocatori ricorda le tattiche di “détournement” promosse da Guy Debord e dai situazionisti. Quando affigge “Your body is a battleground” sui muri di New York, quando trasforma gli autobus in superfici di protesta, pratica ciò che Debord chiamava “il détournement come negazione e come preludio” [11], la negazione dell’ordine esistente e il preludio a un nuovo ordine possibile.

Ciò che distingue Kruger, tuttavia, è la sua comprensione che la resistenza non può più avvenire da uno spazio esterno al sistema. In un mondo in cui, come lei stessa dice, “outside the market there is nothing, not a piece of lint, a cardigan, a coffee table, a human being” [12] (Fuori dal mercato non c’è nulla, nemmeno un pelucchio, un cardigan, un tavolino, un essere umano), l’unica strategia praticabile è l’infiltrazione virale. Le sue opere non pretendono di occupare uno spazio puro, esterno alla contaminazione, abbracciano questa contaminazione come condizione stessa della loro efficacia.

Questa tattica virale raggiunge il suo apice nelle sue installazioni recenti, come “No Comment” (2020), dove juxtapone gatti nelle tazze del water, selfie sfocati, e citazioni di Voltaire e Kendrick Lamar. Questo miscuglio caotico di cultura popolare e filosofia, di triviale e profondo, riflette perfettamente la nostra esperienza contemporanea con i social media. Kruger non si limita a criticare questa esperienza, la riproduce, la amplifica fino all’assurdo, creando ciò che la teorica dei media Katherine Hayles chiamerebbe un “feedback loop” [13] (un circolo vizioso) tra il sistema e la sua critica.

Rifiutando di rinchiudersi in un’identità artistica stabile, moltiplicando i formati e i contesti, Kruger pratica ciò che Deleuze e Guattari chiamerebbero una “nomadologia” [14], un pensiero in movimento costante che sfugge alle strutture fisse del potere. Lei è, come scrivono, “sempre nel mezzo, tra le cose, inter-essere, intermezzo” [15].

Questa strategia nomade rende Kruger un’artista particolarmente adatta alla nostra epoca di flussi costanti e di rapide mutazioni. Mentre tanti artisti “politici” finiscono per essere neutralizzati dal loro successo istituzionale, Kruger continua a sorprenderci, a provocarci, a disturbarci. Il suo rifiuto di qualsiasi definizione stabile, la sua capacità di mutare e adattarsi, fanno di lei non una semplice commentatrice del nostro tempo, ma una vera sopravvissuta culturale, un’artista che ha capito che in un mondo virale, solo un’arte virale può essere veramente efficace.

La trasmissione impossibile

Barbara Kruger è ovunque e in nessun luogo allo stesso tempo. La sua estetica ha così tanto impregnato la nostra cultura visiva che è diventata quasi invisibile, come l’aria che respiriamo. In un mondo saturo di immagini e slogan, dove degli adolescenti possono dire, visitando una mostra di Kruger, che “dà vibes Supreme”, l’ironia raggiunge il massimo. Come ha osservato un critico durante la sua esposizione a Chicago, “It’s giving me Supreme vibes” [16] (C’è un piccolo lato Supreme), ribaltando completamente il rapporto originario tra l’artista e i suoi imitatori.

Questa dissoluzione dell’autore nella sua opera rimanda a ciò che Michel Foucault teorizzava come “la morte dell’autore” [17]. La stessa Kruger sembra aver anticipato questa scomparsa rifiutando costantemente di fare della sua persona il centro della sua arte. Contrariamente a molti artisti contemporanei che costruiscono meticolosamente la loro persona pubblica, Kruger ha sempre resistito alla riproduzione della sua immagine. Il suo volto appare quasi mai, le sue interviste sono rare, la sua presenza fisica si affievolisce a favore dei suoi messaggi.

Questa dissoluzione dell’autore non è una semplice frivolezza, è una strategia deliberata che rafforza l’impatto del suo lavoro. Rendendo la sua presenza il più spettrale possibile, Kruger trasforma le sue opere in messaggi anonimi, in verità che sembrano emergere spontaneamente dai muri della città, come i graffiti di un profeta urbano. Pratica ciò che Susan Sontag chiamava “l’estetica del silenzio” [18], questa forma radicale di comunicazione che procede per sottrazione piuttosto che per addizione.

Questa scomparsa programmata dell’artista dietro la sua opera assume una dimensione particolarmente toccante se si considera il ruolo storico di Kruger nell’affermazione delle donne artiste. In un’epoca in cui le donne dovevano “gridare per essere viste”, secondo l’espressione di Debra Brehmer [19], Kruger ha trovato un’altra strada: non imporsi come soggetto, ma sparire come autore affinché i suoi messaggi risuonassero con ancora più forza.

Questa strategia raggiunge il suo apice nelle installazioni recenti come “Thinking of You. I Mean Me. I Mean You” alla Serpentine Gallery di Londra, dove il visitatore è letteralmente sommerso da un diluvio di parole e immagini che ruotano, si sovrappongono, si scontrano. L’esperienza è descritta da Alexandra De Taddeo come “un mondo in rovina” [20], dove i riferimenti tradizionali, inclusa la figura dell’artista, sono scomparsi.

È proprio questa dissoluzione che rappresenta la forza contemporanea di Kruger. In un mondo dove l’autenticità è diventata una merce come un’altra, dove i “creatori di contenuti” monetizzano persino i loro momenti più intimi, la scomparsa volontaria di Kruger rappresenta forse la forma ultima di resistenza. Pratica quello che lo scrittore Édouard Glissant chiamava “il diritto all’opacità” [21], il rifiuto di essere ridotta a un’identità trasparente e consumabile.

Forse è in questa tensione tra l’onnipresenza del suo stile e l’assenza della sua persona che risiede il più grande contributo di Kruger all’arte contemporanea. Ci ricorda che l’arte non è l’espressione di un’individualità, ma una forma di comunicazione, un dialogo con il mondo. Come scrive Adrian Searle, le sue parole sono “bombe a orologeria, detonazioni profetiche che non si fermano mai” [22]. Ed è proprio perché sembrano provenire dal nulla che ci raggiungono ovunque.

Quando Kruger dichiara “I shop therefore I am” (Io consumo dunque sono), quando afferma “Your body is a battleground” (Il tuo corpo è un campo di battaglia), quando chiede “Who is beyond the law?” (Chi è al di sopra della legge?), queste parole non sono sue, sono nostre. Ci appartengono, come ci appartengono le domande che sollevano. E forse qui sta il più grande colpo di genio di questa artista che ha così ben compreso che, in un mondo saturo di messaggi, il messaggio più potente è quello che sembra non avere un mittente.

Allora, cosa facciamo adesso?

Ecco dove siamo con Barbara Kruger, banda di snob. Un’artista che ha influenzato così tanto la nostra cultura visiva che non sappiamo più se è lei a imitare la pubblicità o se la pubblicità imita lei. Una donna che ha usato le armi del sistema, il fascino delle immagini, la potenza degli slogan, per sovvertirlo dall’interno. Una creatrice che rifiuta di farsi definire, che scivola tra le categorie come un’anguilla tra le mani di un pescatore goffo.

Questa è tutta la forza e tutto il paradosso del suo lavoro. Appropriandosi dei codici della comunicazione capitalistica, Kruger rischia costantemente di essere recuperata da quel medesimo sistema che critica. Ma è proprio questa pericolosa vicinanza, questa contaminazione reciproca, che conferisce al suo arte il suo potere sovversivo. Come un vaccino che contiene una versione attenuata del virus per stimolare le nostre difese immunitarie, l’arte di Kruger ci inocula contro la manipolazione mediatica usando i suoi stessi metodi.

In un mondo dove l’attenzione è diventata la risorsa più scarsa, dove siamo costantemente sollecitati da messaggi che ci esortano a consumare sempre di più, Kruger ci offre un antidoto paradossale: più messaggi, più immagini, ma messaggi che si annullano, che si contraddicono, che rivelano la propria meccanica. Questa strategia di sovraccarico raggiunge il suo apice in installazioni come “Untitled (No Comment)” (2020), dove lo spettatore viene bombardato da immagini e suoni fino alla saturazione.

Non fatevi ingannare: dietro l’apparente semplicità dei suoi slogan si nasconde un’intelligenza formidabile, una profonda comprensione dei meccanismi della psiche umana. Kruger sa che desideriamo ciò che ci manca, che compriamo ciò che crediamo di essere piuttosto che ciò di cui abbiamo bisogno, che ci definiamo attraverso le nostre possessioni tanto quanto attraverso le nostre convinzioni. E invece di rimproverarci, ci tende uno specchio, deformato certo, ma uno specchio comunque.

Quasi 80 anni, questa artista continua a sorprenderci, a scuoterci, a irritarci. Si rifiuta di fossilizzarsi in una postura, di diventare la caricatura di se stessa. Ogni nuova mostra è una reinvenzione, una messa in discussione della propria eredità. Questa capacità di restare contemporanea, di abbracciare le mutazioni della nostra cultura senza perdere la sua voce distintiva, la rende molto più di una semplice figura storica dell’arte femminista degli anni 1980.

Ciò che rende grande Barbara Kruger potrebbe essere forse meno ciò che ci dice che il modo in cui ci costringe ad ascoltare. In una cultura dello scroll infinito, dove le immagini scorrono senza lasciare traccia, le sue opere ci fermano, ci interpongono, ci scuotono. Creano quello che Walter Benjamin avrebbe chiamato “un momento di pericolo” [23], quel fugace istante in cui la coscienza storica emerge come un lampo, illuminando il presente dall’interno.

Quindi la prossima volta che incrocerete una delle sue opere, fermatevi. Guardate davvero. Leggete davvero. E chiedetevi se non siete voi ad essere guardati, voi ad essere letti, voi ad essere decifrati da queste immagini che sembrano decifrarvi. Perché questo è tutto il genio di Barbara Kruger: in un mondo in cui consumiamo le immagini, lei ha creato immagini che ci consumano.


  1. Orwell, George. 1984. Londra: Secker & Warburg, 1949.
  2. Orwell, George. “Politics and the English Language” in Shooting an Elephant and Other Essays. Londra: Secker & Warburg, 1950.
  3. Koolhaas, Rem. Junkspace. Parigi: Payot & Rivages, 2011.
  4. Le Corbusier. Vers une architecture. Parigi: G. Crès et Cie, 1923.
  5. Kruger, Barbara et al. “Imperfect Utopia.” Proposal for North Carolina Museum of Art, 1988.
  6. Deitcher, David. “Barbara Kruger: Resisting Arrest.” Artforum, 1991.
  7. Tschumi, Bernard. Architecture and Disjunction. Cambridge: MIT Press, 1996.
  8. Churchill, Winston. Discours à la Chambre des communes, 28 octobre 1943.
  9. Eco, Umberto. La Guerre du faux. Parigi: Grasset, 1985.
  10. Kruger, Barbara, citée dans “Theory, or guiding principles” pour le projet “Imperfect Utopia”, 1988.
  11. Debord, Guy. La Société du spectacle. Parigi: Buchet/Chastel, 1967.
  12. Kruger, Barbara, citée dans Carol Squiers, “Diversionary (Syn)tactics: Barbara Kruger Has Her Way with Words”, Artnews 86, février 1987.
  13. Hayles, Katherine. How We Became Posthuman. Chicago: University of Chicago Press, 1999.
  14. Deleuze, Gilles et Félix Guattari. Mille Plateaux. Parigi: Éditions de Minuit, 1980.
  15. Ibid.
  16. Smith, Roberta. “Barbara Kruger: A Way With Words.” The New York Times, 14 juillet 2022.
  17. Foucault, Michel. “Qu’est-ce qu’un auteur?” Bulletin de la Société française de philosophie, 63ᵉ année, n° 3, juillet-septembre 1969.
  18. Sontag, Susan. “The Aesthetics of Silence” in Styles of Radical Will. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1969.
  19. Brehmer, Debra. “A Barbara Kruger Retrospective Mixes Capitalism and its Critique.” Hyperallergic, 6 janvier 2022.
  20. De Taddeo, Alexandra. “Review, Barbara Kruger: Thinking of You. I mean Me. I mean You, at the Serpentine, Heartbreak edition.” Medium, 18 février 2024.
  21. Glissant, Édouard. Poétique de la Relation. Parigi: Gallimard, 1990.
  22. Searle, Adrian. “‘As subtle as a brick in the face’: Barbara Kruger’s cacophonous Trumpspeak premonitions.” The Guardian, 31 janvier 2024.
  23. Benjamin, Walter. “Sur le concept d’histoire” in Oeuvres III. Parigi: Gallimard, 2000.
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Riferimento/i

Barbara KRUGER (1945)
Nome: Barbara
Cognome: KRUGER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 80 anni (2025)

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