Ascoltatemi bene, banda di snob. Bharti Kher non è un’artista che si capisce subito, ma una creatrice la cui opera richiede di abbandonare le nostre certezze per entrare in un territorio dove i corpi si trasformano, dove le identità si frammentano e si ricompongono davanti ai nostri occhi. Questa donna britannica nata nel 1969, residente a New Delhi dal 1993, ha costruito una pratica artistica che sfida ogni tentativo di classificazione frettolosa. Le sue sculture ibride, i suoi dipinti con bindis e le sue installazioni tessili ci confrontano con una verità scomoda: siamo tutti esseri multipli, intrappolati tra ruoli imposti e desideri inappagati.
L’arte di Kher non si limita a rappresentare questa molteplicità; la incarna fisicamente in materiali che sembrano respirare, in forme che oscillano tra l’umano e l’animale, tra il sacro e il profano. Quando applica migliaia di bindis sulla pelle di un elefante morente o drappeggia sari impregnati di resina intorno a corpi assenti, non fa decorazioni etniche per gallerie occidentali. Forgia un linguaggio plastico che interroga i nostri presupposti su identità, genere e appartenenza culturale.
Questa capacità di far tremare le nostre convinzioni ha origine nell’esperienza personale dell’artista, ma va ben oltre i limiti del biografico. Kher è cresciuta nella periferia inglese, figlia di immigrati punjabi, prima di tornare in India da adulta. Questa traiettoria migratoria inversa nutre la sua arte di una tensione produttiva: è contemporaneamente dentro e fuori, familiare e straniera a ogni cultura che abita. Ma ridurre il suo lavoro a questa sola dimensione autobiografica sarebbe un errore. L’artista stessa respinge questa lettura semplicistica: “È facile dire che lo spostamento nel mio lavoro rifletta la mia vita personale, ma ce l’ha tutti, anche le persone che vivono qui” [1].
Il genio di Kher risiede piuttosto nella sua capacità di universalizzare questa esperienza dell’attraversamento, di farne lo specchio della nostra condizione contemporanea. Le sue creature ibride, Arione con il suo zoccolo equino e la sua fondina alla spalla, Arione’s Sister che porta le sue borse della spesa come ali, non sono allegorie dell’immigrazione, ma incarnazioni delle nostre multiplici interiorità. Rivelano ciò che l’artista chiama “il sé multiplo”: questa verità secondo cui tutti noi interpretiamo diversi ruoli, spesso contraddittori, alcuni scelti, altri imposti.
Architettura e psicoanalisi: gli spazi dell’inconscio
Questa esplorazione della molteplicità trova una risonanza particolarmente impressionante se messa in prospettiva con le teorie architettoniche dello spazio domestico e le scoperte freudiane sull’inconscio strutturato. L’architettura moderna, a partire da Le Corbusier, ha teorizzato la casa come “macchina per abitare”, spazio funzionale dove ogni stanza risponde a un uso determinato. Questa concezione razionalizzata dell’habitat domestico entra in collisione frontale con l’universo di Kher, dove gli interni diventano teatri di trasformazioni impossibili.
Prendiamo la sua installazione Bloodline (2000) [2], questa linea in vetro rosso costruita con 30.000 braccialetti rossi fusi, testimonianza silenziosa delle violenze subite dalle donne durante le rivolte del Gujarat nel 2002. Lo spazio architettonico tradizionale, pensato per proteggere e ospitare, diventa per Kher il contenitore di una memoria traumatica. I braccialetti, oggetti della quotidianità femminile che normalmente tintinnano in una melodia delicata, sono qui congelati nel vetro, trasformati in mausoleo. L’architettura domestica rivela così le sue dimensioni psicoanalitiche: non ospita solo i corpi, ma anche i non detti, i rifiuti, le violenze taciute.
Questa permeabilità tra intimo e politico, tra spazio architettonico e inconscio, attraversa tutta l’opera dell’artista. Le sue sculture di donne avvolte in sari induriti dalla resina evocano simultaneamente le Veneri antiche e le mummie egizie. Queste “donne-sari” abitano lo spazio espositivo come fantasmi architettonici, rivelando l’assenza al cuore della presenza. Il sari, indumento tradizionale senza cuciture, diventa sotto le sue mani un volume scultoreo rigido che prigionia tanto quanto rivela la forma femminile.
La dimensione psicoanalitica si rivela con un’acuità particolare nella sua serie delle Chimere [3], questi calchi di teste e volti ricoperti di cera poi rotti per rivelare i loro strati interni. The Half-Spectral Thing, calco della testa di sua madre, propone un’archeologia dell’intimo che ricorda le analisi freudiane del “heimlich” e del suo rovescio inquietante. Mettendo a stampo il volto materno, Kher non cerca di conservare una somiglianza, ma di esplorare l’estraneità fondamentale dell’altro, anche il più vicino. Il processo rivela la sostanza organica resistente che riveste l’interno dello stampo, metafora sorprendente dell’inconscio che resiste a ogni tentativo di mappatura definitiva.
Lo spazio architettonico in Kher funziona come l’inconscio freudiano: è stratificato, contraddittorio, infestato da presenze spettrali. Le sue installazioni trasformano le gallerie in spazi domestici inquietanti dove l’intimo si rivela politico e dove il familiare travalica nello strano. Questo approccio trova il suo apice nelle sue opere di equilibrio, come Consummate Joy and a Sisyphean Task, dove materiali disparati, legno grezzo e diaspro rosso, rame e acciaio, trovano un equilibrio precario che evoca tanto i mobiles di Calder quanto le analisi di Freud sul lavoro di civilizzazione. L’equilibrio architettonico diventa metafora dell’equilibrio psichico: fragile, temporaneo, costantemente minacciato, ma necessario alla sopravvivenza.
Letteratura epistolare e linguaggio dei bindis
La seconda dimensione che illumina l’opera di Kher con una pertinenza notevole proviene dalla sua relazione con la letteratura epistolare antica, particolarmente con le Eroidi di Ovidio [4]. Questa connessione non è casuale: l’artista ha sviluppato una serie di dipinti con bindis ispirata a questa raccolta di lettere fittizie scritte dalle eroine abbandonate della mitologia greca e romana. Questo riferimento rivela una dimensione essenziale della sua pratica: la trasformazione del bindi in un sistema di scrittura, in un linguaggio codificato capace di portare la parola femminile attraverso i secoli.
Ovidio, scrivendo le Eroidi intorno al 15 a.C., compì un gesto rivoluzionario: dare voce alle donne silenziose dell’epopea maschile, permettere a Penelope, Medea, Didone di raccontare la loro versione della storia. Queste lettere d’amore disperate, di rabbia e rassegnazione, costituiscono uno dei primi esempi di letteratura scritta da un uomo dal punto di vista femminile. Kher riprende questa tradizione epistolare per creare le sue “lettere”, composte non da parole ma da bindis applicati secondo configurazioni complesse su pannelli dipinti.
Questa trasposizione dal verbale al visivo opera una trasformazione fondamentale del bindi tradizionale. Questo ornamento frontale, segno culturale e religioso nella tradizione induista, diventa sotto il pennello di Kher un elemento di scrittura astratta. Ogni bindi funziona come una lettera, ogni costellazione di punti come una parola o una frase. L’artista stessa descrive questa pratica come la creazione di un “codice Morse” personale, un linguaggio segreto che le permette di “parlare in lingua, parlare in codice, essere allo stesso tempo ambigua e aperta”.
Questa dimensione crittografica del lavoro di Kher rivela una strategia di resistenza particolarmente sottile. In una società in cui la parola femminile rimane spesso costretta o censurata, lei inventa un sistema di comunicazione alternativo che sfugge ai codici dominanti mantenendosi leggibile per chi sa guardare. I suoi dipinti con i bindis funzionano come testimonianze: sotto l’apparente decoro si nasconde una scrittura cifrata che porta le rabbie, i desideri e i sogni delle donne contemporanee.
La serie Heroides trasforma questa intuizione in un progetto artistico coerente. Ogni pannello diventa una lettera indirizzata a un destinatario assente, usando il linguaggio dei bindis per trasporre nella nostra epoca la voce delle eroine ovidiane. Lenticularis Over Mountain evoca le nuvole oscure e i ritmi segreti di una corrispondenza interrotta. I’ve Been to Hell and Back disegna nelle sue recessioni tappezzate i territori della sofferenza amorosa. Queste opere telescopano le scale temporali e spaziali: dal molecolare al galattico, dall’intimo antico al politico contemporaneo.
L’invenzione di questo linguaggio visivo permette a Kher di risolvere una contraddizione fondamentale dell’arte contemporanea: come dare forma all’esperienza femminile senza cadere nell’essenzialismo, come parlare da una posizione culturalmente marcata senza rinchiudersi nell’esotismo? Il bindi diventa la sua risposta: segno culturalmente situato ma plasticamente universale, autorizza tutti gli spostamenti semantici mantenendo il suo carico simbolico originario.
Questa strategia raggiunge il suo apice in opere come Virus, serie iniziata nel 2010 e prevista per concludersi nel 2039. Ogni anno, l’artista aggiunge un frammento di testo profetico accompagnato da una composizione di bindis, creando una cronaca a lungo termine delle mutazioni della nostra epoca. Il bindi diventa qui l’agente di una contaminazione positiva, veicolo di una memoria collettiva in formazione. Come le lettere di Ovidio attraversarono i secoli per giungere fino a noi, le configurazioni di Kher portano messaggi destinati a destinatari futuri, testimonianze cifrate del nostro presente incerto.
L’alchimia delle materie e delle forme
Ciò che colpisce nell’approccio di Kher è la sua capacità di far dialogare materiali apparentemente incompatibili per creare oggetti di una coerenza sorprendente. Fibra di vetro e bindis adesivi, resina e sari vintage, gesso di Parigi e cera d’api: ogni opera compie una trasmutazione che evoca tanto l’alchimia medievale quanto la chimica contemporanea. Questa ibridazione materiale serve un preciso intento estetico e politico: mostrare che le identità, come le sostanze, possono trasformarsi sotto l’effetto di processi creativi.
L’Elefante di The Skin Speaks a Language Not Its Own illustra perfettamente questa alchimia. L’animale, modellato in fibra di vetro secondo un processo industriale moderno, ritrova una dimensione sacra grazie alle migliaia di bindis che ricoprono la sua pelle. Questi piccoli elementi adesivi, prodotti in serie per il mercato della moda, riconquistano il loro carico simbolico originario dispiegandosi sul corpo dell’elefante morente. La trasformazione opera in due sensi: l’animale tradizionale diventa oggetto d’arte contemporanea, mentre l’ornamento commercializzato ritrova la sua dimensione rituale.
Questa capacità di metamorfosi rivela una concezione particolarmente moderna dell’identità culturale. Contro gli essenzialismi che cristallizzano le tradizioni in forme immutabili, Kher mostra che le culture vivono attraverso lo scambio e il contagio reciproco. I suoi bindis passano dalla spiritualità induista all’arte concettuale occidentale senza perdere il loro potere di evocazione. I suoi sari si trasformano in sculture senza smettere di portare la memoria dei corpi femminili che li hanno abitati.
Questa fluidità tra i registri culturali trova forse la sua espressione più compiuta in Animus Mundi, questa Venere ibrida con testa di bufalo la cui bocca lascia scorrere un sari scarlatto indurito dalla resina. L’opera condensa in una sola forma la statua antica occidentale, l’iconografia induista e le tradizioni tessili sud-asiatiche. Ma questa sintesi evita accuratamente la trappola del sincretismo decorativo: rivela piuttosto le corrispondenze profonde tra sistemi simbolici apparentemente estranei tra loro.
Kher manipola anche il tempo con una virtuosità notevole. Le sue sculture sembrano contemporaneamente arcaiche e futuriste, come se provenissero da una civiltà dove l’evoluzione avesse preso strade diverse. Arione e sua sorella evocano tanto le dee-madri preistoriche quanto i cyborg della fantascienza. Questa indeterminatezza temporale permette all’artista di sfuggire alle assegnazioni storiche: le sue creature non appartengono né al passato mitologico né al futuro tecnologico, ma abitano un presente ampliato dove tutti i possibili coesistono.
L’arte come laboratorio del multiplo
La concezione che Kher sviluppa dell’arte come “situazione” piuttosto che come oggetto finito illumina il suo metodo di lavoro. Il suo atelier funziona infatti come un laboratorio dove testa le reazioni tra materiali disparati, dove sperimenta le condizioni di equilibrio tra forme contrastanti. Questo approccio scientifico alla creazione artistica la porta a tenere taccuini dettagliati sulle proprietà di ogni sostanza utilizzata, annotando i loro comportamenti in diverse condizioni climatiche come un chimico registrerebbe i risultati dei suoi esperimenti.
Questa rigore metodologico serve un progetto estetico ambizioso: dimostrare che l’arte può produrre conoscenze specifiche sul reale, irriducibili a quelle delle scienze umane o esatte. Quando Kher passa tre anni a ricercare immagini del cuore della balena blu per realizzare An Absence of Assignable Cause, non si limita a documentare; esplora i limiti della conoscenza empirica e le possibilità dell’immaginazione creativa. L’organo scolpito, ricoperto di bindis turchesi e verdi, diventa allegoria del cuore umano nelle sue dimensioni più enigmatiche.
Questo approccio all’investigazione artistica trova il suo compimento nelle sue sculture di equilibrio, quegli assemblaggi precari dove ogni elemento dipende dagli altri per mantenere l’insieme in sospensione. Queste opere funzionano come modelli in miniatura di sistemi complessi, rivelando le interdipendenze invisibili che strutturano le nostre esistenze. Quando un martello da fabbro è in equilibrio sulla cima di un cono di granito, sostenuto dal contrappeso di alcuni flaconi di ceramica, l’installazione evoca sia i mobili di Calder sia le teorie contemporanee sulle reti e i sistemi auto-organizzati.
Queste sperimentazioni formali conducono a una filosofia dell’esistenza che attraversa tutta l’opera di Kher. Per lei, vivere significa mantenere costantemente equilibri instabili tra forze contraddittorie: tradizione e modernità, appartenenza e sradicamento, conformità e resistenza. Le sue sculture incarnano questa concezione dinamica dell’identità proponendo forme aperte, capaci di evoluzione e metamorfosi.
L’arte di Kher rivela così la sua dimensione profondamente politica: offre modelli alternativi di soggettività, modi inediti di abitare il mondo contemporaneo. Di fronte alle assegnazioni identitarie che caratterizzano la nostra epoca, lei contrappone la creatività del multiplo, la fecondità dell’ibridazione e la bellezza dell’instabile. Le sue creature impossibili ci insegnano che esistere pienamente significa accettare di non coincidere mai perfettamente con se stessi, significa coltivare quella stranezza interiore che ci rende disponibili all’altro.
Verso un’estetica della metamorfosi
L’opera di Bharti Kher delinea infine i contorni di un’estetica della metamorfosi che risponde alle sfide della nostra epoca globalizzata. In un mondo dove i confini diventano porosi, dove le identità si moltiplicano e si frammentano, dove le culture si mescolano e si trasformano, la sua arte propone strumenti concettuali e sensoriali per comprendere queste mutazioni senza semplificarle.
I suoi bindis funzionano come connettori universali, capaci di collegare universi apparentemente incompatibili. I suoi ibridi scolpiti incarnano le nuove soggettività emergenti, quelle identità fluide che sfuggono alle categorie tradizionali. Le sue installazioni tessili rivelano la persistenza del corporeo in un mondo sempre più dematerializzato. Insieme, queste creazioni formano un corpus coerente che reinventa le possibilità dell’arte contemporanea.
Ciò che distingue Kher dalle altre artiste che esplorano le questioni post-coloniali o femministe è la sua capacità di evitare gli scogli del didatticismo e del risentimento. La sua arte non denuncia, trasforma. Non rivendica, propone. Non si indigna, trasmuta. Questa postura creativa, ereditata tanto dalla filosofia tantrica quanto dall’arte concettuale occidentale, le permette di raggiungere un pubblico ampio senza tradire la radicalità del suo discorso.
Bharti Kher ci ricorda che l’arte, al suo meglio, funziona come un rivelatore chimico: fa apparire ciò che era latente, dà forma a ciò che restava informulato. Tra le sue mani esperte, il bindi torna a essere ciò che non ha mai smesso di essere: una finestra sull’invisibile, un punto di contatto tra i mondi, un segno di riconoscimento tra anime in metamorfosi. L’intera sua opera testimonia questa verità semplice e rivoluzionaria: siamo tutti esseri in divenire, abitanti di corpi molteplici, sognatori di altri possibili. A volte basta un’artista visionaria per aiutarci a vederlo.
- Art Review, “Bharti Kher”, marzo 2010.
- The Guardian, “Bharti Kher: Alchemies Yorkshire Sculpture Park”, 27 giugno 2024.
- Third Text, “Intimate Estrangements: ‘Bharti Kher: The Body is a Place’ all’Arnolfini”, 6 febbraio 2023.
- Hauser & Wirth, “Uncertain States: A Conversation with Bharti Kher”, Sculpture Magazine.
















