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Bo Bartlett: L’America nello specchio deformante

Pubblicato il: 29 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

I dipinti monumentali di Bo Bartlett sono teatri visivi in cui si svolge il grande dramma della vita americana. Quando dipinge una famiglia davanti a un pick-up con un cervo morto, non è solo una scena di caccia, ma un’allegoria potente dell’America contemporanea.

Ascoltatemi bene, banda di snob che pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea americana. Oggi vi parlerò di Bo Bartlett, nato nel 1955 a Columbus, Georgia. Sì, la Georgia, quello Stato del profondo sud che tanto disprezzate dai vostri comodi pied-à-terre newyorkesi.

Questo pittore realista americano dalla visione modernista merita attenzione, anche solo per far esplodere le vostre certezze benpensanti su cosa sia o debba essere l’arte contemporanea. Fermatevi due minuti di adorare le ultime installazioni concettuali di moda e aprite bene gli occhi.

La prima cosa che colpisce in Bartlett: la sua maniera unica di creare quadri monumentali che sono vere e proprie messa in scena cinematografica dell’America profonda. I suoi dipinti non sono semplici tele, ma teatri visivi dove si svolge il grande dramma della vita americana. Come avrebbe detto Roland Barthes, è proprio in questa teatralità dichiarata che risiede la verità della sua opera. Quando dipinge “Young Life” (1994), una famiglia davanti a un pick-up con un cervo morto sul tetto, non è solo una scena di caccia, è un’allegoria potente dell’America contemporanea. Il sangue sui pantaloni del cacciatore, la posa del ragazzo che imita l’adulto armato, tutto compone una coreografia visiva che ci parla di trasmissione, violenza ritualizzata e mascolinità all’americana.

Ma attenzione, Bartlett non è un semplice cronista regionalista. Il suo genio è stato saper trascendere il locale per raggiungere l’universale, un po’ come William Faulkner ha fatto in letteratura con la sua contea immaginaria di Yoknapatawpha. Quando dipinge le sue vaste paesaggi del Sud, le case isolate baciate da una luce irreale, i suoi personaggi immobili in pose enigmatiche, crea quelle che Walter Benjamin chiamava “immagini dialettiche”, immagini che condensano tensioni storiche e verità nascoste del presente.

La seconda grande forza di Bartlett risiede nella sua capacità di creare quella che chiamerei una “famigliarità inquietante”. I suoi quadri sembrano a prima vista normali, quasi banali, ma c’è sempre un elemento perturbante che destabilizza il nostro sguardo. Prendete “Halloween” (2016) con i bambini in costume che attraversano una strada deserta. La scena sembra ordinaria finché non si nota il silenzio strano che emana dalla composizione, l’assenza totale di gioia o movimento naturale in questi piccoli personaggi che assomigliano più a una processione funebre che a una gioiosa caccia alle caramelle. È David Lynch nella pittura, amici miei.

Questa tensione tra il familiare e lo straniero, Bartlett la spinge fino a creare quello che il filosofo Jacques Rancière chiamerebbe un “regime estetico” specifico. I suoi dipinti funzionano come trappole visive che ci attirano con la loro apparente semplicità narrativa per poi confrontarci con qualcosa di più profondo e inquietante. In “The American” (2016), un uomo in completo punta un fucile verso un fuori campo invisibile. L’immagine è di una banalità terrificante, come una fotografia di cronaca andata male.

Nel 1991, Roberta Smith del New York Times definì il suo lavoro “idiota”. Che ironia vedere oggi la potenza visionaria delle sue opere! Bartlett ha avuto il coraggio di perseverare nonostante le critiche dei newyorkesi che lo consideravano un provinciale ritardato. Ha continuato a dipingere le sue grandi tele narrative quando tutti gli dicevano che era fuori moda, superato, reazionario.

Quello che è affascinante è il suo modo di giocare con i codici del realismo americano pur sovvertendoli sottilmente. Riprende l’eredità di Edward Hopper, Andrew Wyeth e Thomas Eakins ma la fa deragliare leggermente, creando quello che Gilles Deleuze chiamerebbe “immagini-cristallo”, immagini in cui reale e virtuale, attuale e possibile si confondono e si scambiano continuamente.

Guardate come usa la luce nei suoi dipinti. Non è la luce naturalistica di un Wyeth né la luce drammatica di un Caravaggio, ma qualcos’altro, una luce quasi metafisica che trasforma le scene più banali in momenti di epifania. Susan Sontag probabilmente avrebbe visto in questo uso della luce una forma di “camp” involontario, una teatralizzazione eccessiva del quotidiano che finisce per rivelare verità profonde sull’America contemporanea.

I suoi personaggi sono spesso immobili in pose che ricordano i quadri viventi del XIX secolo, ma con una dimensione psicologica angosciante che richiama piuttosto le fotografie di Gregory Crewdson. Questa tensione tra tradizione pittorica e modernità psicologica crea quello che Friedrich Nietzsche avrebbe chiamato un “effetto apollineo-dionisiaco”, una facciata di ordine e armonia che appena nasconde un caos sottostante.

Il genio di Bartlett è stato comprendere che per parlare dell’America contemporanea era paradossalmente necessario allontanarsi dal realismo fotografico. I suoi dipinti sono iperrealisti nella tecnica ma surreali nell’impatto emotivo. È quello che Maurice Merleau-Ponty chiamava la “fede percettiva”, quella capacità della pittura di farci vedere il mondo diversamente, di farci dubitare di ciò che crediamo di conoscere.

Prendete la sua serie “Lacunae” che affronta le differenze tra religioni stabilite e mondi secolari. Questi dipinti non sono semplici illustrazioni di concetti teologici, ma esplorazioni visive di quello che Giorgio Agamben chiamerebbe il “sacro profano”, quei momenti in cui il divino irrompe nel quotidiano in modo disturbante e inspiegabile.

La sua tecnica è impeccabile, certo, ma è la sua audacia concettuale che lo distingue davvero. Osa dipingere scene monumentali in un’epoca in cui la pittura figurativa è considerata fuori moda dall’establishment artistico. Persiste a credere nella capacità della pittura di raccontare storie complesse quando la moda è rivolta alle installazioni minimaliste e alle performance effimere.

Ciò che è notevole in Bartlett è che crea immagini che funzionano contemporaneamente su più livelli. I suoi dipinti sono accessibili al primo grado, si può semplicemente apprezzarne la bellezza formale e la padronanza tecnica. Ma contengono anche strati più profondi di significato, riferimenti storici e culturali che arricchiscono la loro lettura senza mai renderla ermetica.

Il suo lavoro pone una domanda fondamentale: come dipingere l’America oggi? Come rappresentare una nazione profondamente divisa senza cadere nei cliché o nella propaganda? La sua risposta è creare ciò che Jacques Derrida chiamerebbe “spettri”, immagini che infestano il nostro presente convocando simultaneamente passato e futuro.

La forza di Bartlett è aver creato uno stile che trascende le facili opposizioni tra figurazione e astrazione, tra tradizione e modernità. Dipinge quadri che sono al contempo classici nella forma e profondamente contemporanei nel contenuto. Questo è ciò che Arthur Danto avrebbe chiamato un “arte post-storica”, un’arte che può attingere liberamente da tutte le tradizioni pur rimanendo decisamente radicata nella sua epoca.

Le sue grandi composizioni narrative funzionano come ciò che Umberto Eco chiamerebbe “opere aperte”, suggeriscono storie senza mai imporle, lasciando allo spettatore la libertà di immaginare le proprie interpretazioni. Questo è particolarmente evidente in opere come “Homeland” dove i riferimenti storici si mescolano agli elementi contemporanei per creare una temporalità complessa e ambigua.

Bartlett osa prendersi il suo tempo, sviluppare le sue idee su più anni, creare opere che richiedono una contemplazione lenta e attenta. Rifiuta la facilità degli effetti spettacolari a favore di ciò che Susan Sontag chiamerebbe un'”erotica dell’arte”, un approccio che impegna tutti i nostri sensi e la nostra intelligenza.

Il coraggio di Bartlett è stato quello di persistere nella sua visione quando tutti gli dicevano che la pittura narrativa era morta. Ha continuato a credere nella capacità dell’arte figurativa di parlare del nostro tempo, di creare ciò che Walter Benjamin chiamava “immagini dialettiche”, immagini che condensano in sé le contraddizioni del nostro tempo.

Il suo lavoro ci ricorda che la pittura può ancora sorprenderci, emozionarci e farci riflettere. Quindi sì, ridete del suo “provincialismo”, deridete il suo attaccamento alla figurazione, ma non dimenticate che la storia dell’arte è piena di artisti che sono stati incompresi in vita perché rifiutavano di seguire le mode. Bo Bartlett è forse uno di loro, un pittore che ha scelto di rimanere fedele alla sua visione piuttosto che corteggiare i favori del mercato dell’arte.

E se pensate ancora che la pittura figurativa sia morta, vi suggerisco di andare a vedere una sua mostra. Potreste rimanere sorpresi nel scoprire che è ben viva e che ha ancora molto da dirci sul nostro tempo e su noi stessi. Come diceva Nietzsche, “abbiamo l’arte per non morire della verità”. I quadri di Bartlett ci offrono proprio questo: una verità che non ci uccide, ma ci aiuta a comprendere meglio il nostro mondo e il nostro posto in esso.

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Riferimento/i

Bo BARTLETT (1955)
Nome: Bo
Cognome: BARTLETT
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 70 anni (2025)

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