Ascoltatemi bene, banda di snob, le rovine industriali non sono mai sembrate così seducenti come sotto il pennello audace di Burcu Perçin. Quest’artista turca, nata ad Ankara nel 1979, trasforma l’abbandono in splendore, il degrado in poesia visiva, gli spazi dimenticati in commenti mordaci sulla nostra condizione contemporanea. La sua carriera ha recentemente preso una svolta: Burcu Perçin ha ottenuto il Luxembourg Art Prize 2024, figurando tra i tre vincitori di questo importante riconoscimento internazionale. Andiamo al dunque: la sua pittura vi colpisce con la forza di una verità che preferireste ignorare.
Il lavoro di Perçin ci confronta con il silenzioso crollo di un sogno industriale. Le sue tele monumentali catturano fabbriche abbandonate, cave di marmo sventrate, spazi privi di presenza umana ma saturi dei loro fantasmi. Le sue composizioni non sono semplici rappresentazioni realistiche, sono costruzioni meticolose, collage accuratamente orchestrati a partire da fotografie che scatta lei stessa in diversi luoghi desolati. Non si limita a copiare la realtà; la decompone e la ricostruisce in una nuova verità visiva che supera il documentario per raggiungere una dimensione allegorica.
Questo approccio di Perçin mi ricorda irresistibilmente l’universo letterario di J.G. Ballard. Questo scrittore britannico di fantascienza e anticipazione sociale esplorava in “Crash” (1974) e in “I.G.H.” (1976) i paesaggi psicologici della nostra modernità tardiva attraverso ambienti costruiti e poi abbandonati dall’uomo [1]. Come Ballard, Perçin trasforma le rovine industriali in paesaggi mentali dove si gioca una critica acerba della nostra relazione disfunzionale con la natura e la tecnologia. Gli spazi deserti che lei dipinge sono i resti di un’utopia modernista che ha fallito, conchiglie vuote di un progresso promesso ma mai mantenuto.
Nella sua serie “Mountains Have No Owners”, Perçin affronta frontalmente la brutalità del capitalismo globale verso la natura. Queste montagne sventrate da cave di marmo ci ricordano che la natura non appartiene a nessuno, ma ciò non impedisce ad alcuni di trattarla come una proprietà da sfruttare fino all’osso. Sam Kriss, in un articolo per Viewpoint Magazine [2], lasciava intendere che il futuro è una catastrofe che è già avvenuta, ed è proprio questo che mostrano le tele di Perçin: un futuro già consumato, già devastato, un mondo post-umano dove la natura comincia lentamente a riprendere i suoi diritti.
L’artista gioca con le tecniche pittoriche per creare una tensione palpabile tra astrazione e realismo. Le sue pennellate espressive si affiancano a zone di precisione fotografica, creando un dialogo visivo che riflette il conflitto tra l’organico e il meccanico. È brillante e terribilmente efficace. Questo approccio ibrido fa della sua pittura un commento sulla pittura stessa, interrogandone la capacità di questo antico artefatto nel rappresentare il nostro mondo contemporaneo frammentato.
Nella sua serie “Fill in The Plant”, Perçin esplora come la natura diventi un semplice elemento decorativo nei nostri ambienti urbani. Piante in vaso disseminate lungo le autostrade, giardini simbolici usati come argomenti di marketing per residenze di lusso, la natura ridotta a una cosmetica urbana. C’è qualcosa di profondamente ballardiano in questa visione di una natura domata, trasformata in un accessorio, strappata alla sua essenza. Come scriveva Ballard, “la realtà è ormai un tipo di programma televisivo che possiamo cambiare a volontà” [3], e Perçin ci mostra come abbiamo trasformato la natura in un semplice accessorio scenografico nel teatro assurdo delle nostre vite urbane.
Ma se l’universo letterario di Ballard risuona nel lavoro di Perçin, le sue tele trovano anche un potente eco nel pensiero del filosofo e sociologo francese Henri Lefebvre. In “La produzione dello spazio”, Lefebvre sviluppa l’idea che lo spazio non è un contenitore neutro ma una produzione sociale e politica [4]. Gli spazi abbandonati che dipinge Perçin sono manifestazioni concrete di forze economiche e sociali, sono il risultato visibile di un sistema che crea e poi abbandona luoghi secondo le fluttuazioni del capitale.
Lefebvre distingueva lo spazio “concepito” dagli urbanisti e architetti, lo spazio “percepito” nella pratica quotidiana, e lo spazio “vissuto” attraverso le sue rappresentazioni simboliche [5]. I dipinti di Perçin operano precisamente in questa triangolazione: ci mostrano le rovine di spazi concepiti per la produzione, ora percepiti come abbandonati, e trasformati attraverso la sua arte in spazi simbolici carichi di un nuovo significato.
In “Mural Domination”, Perçin introduce i graffiti come elementi centrali delle sue composizioni. Queste iscrizioni sui muri delle fabbriche abbandonate rappresentano per lei una “seconda vita” di questi spazi, una riappropriazione simbolica. Lefebvre avrebbe apprezzato questa dimensione: per lui, la sovversione dello spazio dominante passa attraverso tali pratiche spaziali alternative [6]. I graffiti nelle tele di Perçin sono atti di resistenza contro l’omogeneizzazione dello spazio da parte delle forze del mercato, reintroducono una dimensione umana, soggettiva, in questi luoghi disumanizzati.
Il trattamento che Perçin fa delle cave di marmo è particolarmente impressionante. Queste cicatrici nel paesaggio naturale diventano sotto il suo pennello astrazioni geometriche di una bellezza paradossale. Trasforma la distruzione in composizione formale, non per estetizzarla in modo compiacente, ma per costringerci a guardare ciò che preferiremmo ignorare. Come scriveva Lefebvre, “il capitalismo e il neo-capitalismo hanno prodotto lo spazio astratto che contiene il ‘mondo della merce'” [7]. Le cave di Perçin sono l’incarnazione perfetta di questo spazio astratto, la natura ridotta a una risorsa, a una merce.
La tecnica di Perçin merita attenzione. Usa strisce di nastro adesivo per creare linee nette, forme geometriche che contrastano con zone più espressive e strutturate. Questo metodo crea una tensione visiva che riflette la dialettica tra l’ordine rigido dell’industria e il caos del degrado. È un approccio che ricorda le tecniche del montaggio cinematografico, queste giustapposizioni creano significato tramite collisione, tramite contrasto. Lefebvre avrebbe apprezzato questa dimensione dialettica, lui che vedeva nello spazio un’arena di conflitti e contraddizioni [8].
In alcune sue opere recenti, Perçin inserisce sculture antiche nei suoi paesaggi, stabilendo un collegamento tra passato e presente, tra cultura e natura. Queste figure classiche, testimoni silenziosi della distruzione contemporanea, introducono una dimensione temporale che amplia la portata della sua critica. Come scriveva Lefebvre, “la storia dello spazio sarebbe la storia delle sovrapposizioni di diverse stratificazioni, ognuna generante le sue contraddizioni” [9]. Queste sculture antiche nei paesaggi devastati di Perçin materializzano esattamente questa sovrapposizione storica, questo dialogo tra epoche diverse dell’umanità.
La sua serie “Under The Rose” gioca sull’espressione latina “sub rosa” (sotto la rosa), che indica ciò che è fatto in segreto, nascosto. Perçin rivela ciò che si nasconde negli spazi abbandonati, tracce, iscrizioni, oggetti, colori, come un archeologo del presente che decifra i resti della nostra civiltà industriale. Questo approccio richiama il metodo che Lefebvre chiamava “ritmanalisi”, una lettura attenta dei ritmi spaziali e temporali che strutturano la nostra quotidianità [10]. Gli spazi di Perçin sono capsule temporali dove il ritmo frenetico della produzione si è brutalmente fermato, lasciando il posto a un’altra temporalità, più lenta, quella della decadenza.
I vuoti nei dipinti di Perçin sono tanto eloquenti quanto ciò che sceglie di rappresentare. Queste assenze di persone, attività, vita, sono commenti potenti sulla condizione contemporanea. Come osservava Lefebvre, “nello spazio moderno, ciò che si nasconde e si cela è più importante di ciò che si mostra” [11]. Gli spazi deserti di Perçin rivelano, proprio attraverso la loro vacuità, i meccanismi invisibili del capitale globale che crea e poi abbandona luoghi a seconda delle sue esigenze fluttuanti.
La tavolozza cromatica di Perçin è particolarmente interessante. Le sue tonalità attenuate, dominate da grigi industriali, blu freddi e rossi ruggine, creano un’atmosfera malinconica che contrasta con occasionali scoppi di colori vivaci. Questa economia cromatica ricorda le fotografie della New Topographics School, quegli americani che, negli anni ’70, documentavano i paesaggi alterati dall’uomo con una neutralità apparente che nascondeva una profonda critica sociale.
Nelle opere di Perçin, il paesaggio non è mai innocente, è il risultato di forze economiche, politiche, sociali. Come scriveva Lefebvre, “lo spazio non è un oggetto scientifico distorto dall’ideologia o dalla politica; è sempre stato politico e strategico” [12]. Le montagne squarciate, le fabbriche abbandonate che dipinge Perçin sono manifestazioni visibili di un sistema economico globale che tratta la terra come un semplice serbatoio di risorse da sfruttare.
Il suo lavoro ci ricorda che la crisi ambientale è inseparabile da una crisi sociale e politica più ampia. Le cave di marmo che deturpano le montagne turche sono l’equivalente locale delle miniere a cielo aperto in Brasile o in Australia, manifestazioni concrete dello stesso sistema globale di sfruttamento. Lefebvre ci metteva già in guardia contro questa globalizzazione dello spazio astratto capitalista, questa omogeneizzazione che distrugge le particolarità locali [13].
Ma il lavoro di Perçin resiste a questo processo di omogeneizzazione. I suoi dipinti sono profondamente radicati in un contesto locale, quelle fabbriche abbandonate a Istanbul, quelle cave di marmo in Turchia, pur parlando un linguaggio visivo universale. Pratica quella che Lefebvre chiamava “resistenza differenziale”, un’affermazione della differenza di fronte alle forze omogeneizzanti del capitale globale [14].
Il lavoro di Burcu Perçin è una meditazione visiva sulle rovine della modernità. Le sue tele ci mostrano le macerie di un sogno industriale, i residui di un progetto modernista che prometteva progresso ma che spesso ha consegnato distruzione e alienazione. Come in Ballard, queste rovine non sono semplicemente metafore, sono manifestazioni concrete di un sistema economico e sociale che consuma e poi abbandona spazi e risorse secondo le sue esigenze fluttuanti.
La pittura di Perçin è oggi più che mai necessaria, nell’epoca in cui la crisi ambientale si intensifica. Le sue opere ci costringono a guardare ciò che preferiremmo ignorare, la violenza che infliggiamo alla natura, agli spazi e, in definitiva, a noi stessi. Come scriveva Ballard, “il futuro è ora trasferito dal tempo allo spazio” [15], ed è proprio nello spazio che Perçin legge il nostro futuro, un futuro già presente in questi luoghi abbandonati, in questi paesaggi devastati, in queste rovine contemporanee.
Allora la prossima volta che passerete davanti a una discarica industriale, un terreno incolto, una fabbrica abbandonata, fermatevi un attimo. Guardate davvero. E forse, con un po’ di fortuna, vedrete questi luoghi con gli occhi di Burcu Perçin, come testimonianze eloquenti della nostra condizione contemporanea, come specchi che ci riflettono l’immagine di ciò che siamo diventati, e di ciò che potremmo ancora essere.
- J.G. Ballard, “Crash”, Jonathan Cape, Londra, 1974.
- Kriss, Sam. “Il futuro è già successo”, articolo su Viewpoint Magazine, 1 giugno 2016.
- J.G. Ballard, “The Atrocity Exhibition”, Jonathan Cape, Londra, 1970.
- Henri Lefebvre, “La produzione dello spazio”, Éditions Anthropos, Parigi, 1974.
- Ibid.
- Henri Lefebvre, “Il diritto alla città”, Éditions Anthropos, Parigi, 1968.
- Henri Lefebvre, “La produzione dello spazio”, op. cit.
- Ibid.
- Ibid.
- Henri Lefebvre, “Elementi di ritmanalisi”, Éditions Syllepse, Parigi, 1992.
- Henri Lefebvre, “La produzione dello spazio”, op. cit.
- Ibid.
- Ibid.
- Henri Lefebvre, “Il diritto alla città”, op. cit.
- J.G. Ballard, “Myths of the Near Future”, Jonathan Cape, Londra, 1982.
















