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Charline von Heyl e la pirateria visiva

Pubblicato il: 9 Aprile 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Charline von Heyl agisce come una pirata visiva, saccheggiando senza rimorsi la storia dell’arte per creare opere che ti afferrano per il colletto e rifiutano di lasciarti andare. I suoi dipinti esistono in uno stato di trasformazione permanente, dove le forme sembrano catturate nel momento della loro mutazione.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Charline von Heyl non è una pittrice astratta ordinaria. E francamente, se ne frega delle vostre categorie ristrette, delle vostre piccole caselle comode dove mettete gli artisti per dormire meglio la notte. Nata nel 1960 a Magonza, cresciuta a Bonn, formata ad Amburgo e poi a Düsseldorf prima di conquistare New York negli anni ’90, von Heyl è quella creatura rara che rifiuta la coerenza stilistica come una prigione intellettuale.

L’ho osservata per anni, questa artista che agisce come una pirata visiva, saccheggiando senza rimorsi né scuse la storia dell’arte per creare opere che ti afferrano per il colletto e rifiutano di lasciarti andare. Per citare Susan Sontag: “L’arte vera ha il potere di renderci nervosi” [1]. Von Heyl porta questa nervosità al punto di provocare quello che lei stessa chiama un “mindfuck visivo”, senza mai cadere nella facilità di una sovversione gratuita.

Guardate “Mana Hatta” (2017), dove delle silhouette di conigli saltellanti attraversano la parte inferiore della tela. Punti rossi che ricordano Roy Lichtenstein riempiono i loro corpi e riappaiono qua e là nella composizione. Schizzi di rosso e cerchi concentrici che evocano i dischi vibranti di Robert e Sonia Delaunay e i bersagli di Jasper Johns creano altre equivalenze visive e storiche. Tutto sembra vorticosamente sovrapporsi in ciò che potrebbe essere interpretato come una testa, motivo che sembra suggerire, come fa una delle poesie di Walt Whitman per l’individuo e per gli Stati Uniti, che la pittura contiene miriadi.

Qui interviene un primo concetto che attraversa l’opera di von Heyl: la metamorfosi. Secondo Ovidio, poeta latino del primo secolo, la metamorfosi è quel processo in cui “corpi si trasformano in corpi nuovi” [2]. Le sue Metamorfosi raccontano come gli esseri si trasformano sotto l’effetto di emozioni estreme, dell’intervento divino o di circostanze straordinarie. Von Heyl applica questa logica alla pittura stessa. Le sue opere esistono in uno stato di trasformazione permanente, dove le forme sembrano catturate nel momento preciso della loro mutazione.

Prendete “Lady Moth” (2017), dove una rete di linee nere serve da impalcatura a forme di un azzurro ghiaccio e lavanda, ognuna con un motivo di pittura colante che si spinge contro i contorni precisi della forma. Al centro dell’opera, la silhouette semplificata di una farfalla è resa in un nero modulato che suggerisce il chiaroscuro e conferisce alla forma una solidità impossibile. Come nei racconti di Ovidio, le trasformazioni di von Heyl non sono mai complete, rimangono sospese tra due stati, tradendo la loro origine mentre rivelano la loro destinazione.

Questa tensione tra trasformazione e stasi è fondamentale per comprendere l’approccio artistico di von Heyl. Come ha dichiarato in un’intervista del 2010 con Bomb Magazine: “Ciò che cerco di fare è creare un’immagine che abbia il valore iconico di un segno ma rimanga ambigua nel suo significato. Non si tratta di mistificare nulla, si tratta di prolungare il tempo del piacere. O della tortura” [3].

In “Corrido” (2018), la parte centrale della tela si illumina di violetti e verdi sovrapposti. Curve ripetitive, che si intrecciano e si fanno eco, sembrano danzare sulla tela, unendo motivi piatti, lunghi tratti di pennello piumoso e lavaggi che colano. I suoi quadri sono meno rappresentazioni o astrazioni che eventi visivi che si dispiegano nel tempo del nostro sguardo. Essi mettono in scena ciò che il filosofo Henri Bergson chiamava la “durata”, quell’esperienza soggettiva del tempo che si allunga o si contrae a seconda del nostro coinvolgimento emotivo [4].

Bergson distingueva il tempo degli orologi, meccanico e divisibile, dalla durata vissuta, fluida e indivisibile. “La pura durata”, scriveva, “è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dal creare una separazione tra lo stato presente e gli stati precedenti” [5]. Le composizioni di von Heyl incarnano questa durata bergsoniana, rifiutano la lettura lineare, sovrappongono diverse temporalità e trasformano lo sguardo in esperienza.

Come spiegare, se non così, che le sue opere sembrino contenere simultaneamente la storia e il futuro della pittura, come se il tempo pittorico si fosse ripiegato su se stesso? In “Dial P for Painting” (2017), un telefono a disco abbozzato si trova nell’angolo inferiore destro di un campo giallo brillante. Questo riferimento hitchcockiano deviato non è solo un cenno, è un invito a comporre un numero, a stabilire una connessione con la pittura come mezzo ancestrale eppure sempre vivo.

Il critico d’arte Alan Pocaro ha scritto riguardo alla sua mostra “New Paintings” alla galleria Corbett vs. Dempsey: “Questi rapidi cambiamenti e queste singolari giustapposizioni sono in definitiva ciò che c’è di meglio nei dipinti di von Heyl. La loro capacità di trascendere le priorità culturali del momento (superficialità, piacere momentaneo e consumo rapido) pur facendo indiscutibilmente parte dello zeitgeist discontinuo che li ha generati, è senza pari tra i suoi pari” [6].

Questo ci porta al secondo concetto che associo all’opera di von Heyl: la sinestesia, quel fenomeno neurologico dove l’esperienza di un senso provoca automaticamente un’esperienza in un altro senso. Nel suo trattato De Anima, Aristotele già si interrogava su come le diverse percezioni sensoriali si combinassero per formare un’esperienza unificata, ciò che chiamava il “senso comune” [7]. Sebbene la sinestesia come condizione medica sia stata identificata solo nel XIX secolo, la sua esplorazione artistica è stata fondamentale per la modernità.

Von Heyl spinge questa esplorazione al suo parossismo. I suoi quadri convocano simultaneamente il tattile (texture), il visivo (colore, linea, forma) e persino l’uditivo (ritmo, dissonanza, armonico). “Le armonie di colori hanno qualcosa di poetico o musicale, che trovo sempre più interessante studiare e manipolare”, confida [8]. In “Ghouligan” (2020), l’intreccio di piume arrotondate e quadrettate che sembrano rese digitalmente in acrilico, olio e pastello su lino grezzo crea un’esperienza veramente sinestetica dove il confine tra vedere e sentire si sfuma.

Questo approccio ricorda le sperimentazioni del poeta Arthur Rimbaud nel suo sonetto “Voyelles”, dove assegna dei colori alle vocali: “A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blu” [9]. Ma laddove Rimbaud cercava una corrispondenza fissa, von Heyl abbraccia la fluidità e l’instabilità. I suoi quadri non propongono un sistema di corrispondenze, ma un’esperienza di destabilizzazione sensoriale.

Ciò che colpisce particolarmente in von Heyl è la sua capacità di tradurre questa sinestesia attraverso un’incredibile varietà di mezzi pittorici. Ogni quadro è un mondo a sé stante, con le proprie regole, la propria fisica, la propria chimica visiva. “In ‘Vel’, si potrebbe perdonare a uno spettatore incantato dai colpi di pennello frenetici arancio-rossi e dalle lastre grigie à la Hofmann di concludere che i colori da caramella e l’immaginario nature morte in ‘Bog-Face’ appartengono ad artisti completamente diversi”, osserva ancora Pocaro [10].

Attraverso le sue opere, von Heyl riabilita ciò che era stato abbandonato dal tardo modernismo: il design riflessivo, il colore seducente e passaggi di figurazione che non hanno paura di essere qualificati come kitsch. Ma lo fa senza nostalgia, senza facile ironia. Come spiega lei stessa: “Il kitsch non è ironico nel modo in cui lo uso io. Il kitsch, per me, significa un’emozione grezza accessibile a tutti, non solo a chi conosce l’arte” [11].

In “The Language of the Underworld” (2017), von Heyl presenta una testa disincarnata ripetuta che osserva pile di forme e appunti criptici e in gran parte illeggibili. Tra quelli decifrabili, tre si leggono: “[W, ] the Posthumous”, “Rome [upon?] Rome”, e “Handsome Little Shadows!”. Fare pittura è sempre costruire Roma su Roma, il nuovo e l’antico proiettando ombre intrecciate impossibili da districare, avanzando inevitabilmente perché il tempo avanza.

In “Poetry Machine #3” (2018), von Heyl rende omaggio a Emily Dickinson, il cui profilo appare in tre delle sue opere. Non è un caso che scelga questa poetessa reclusa che, nell’isolamento della sua casa di Amherst, ha trovato uno spazio per abitare al di fuori della finitezza del suo ambiente. Il suo isolamento era ingannevole, perché ha trovato l’infinità in uno spazio finito e ha valorizzato l’ampiezza del pensiero e della creatività umana. I suoi versi risuonano con un ethos distintamente “heyliano”:

“The Brain, is deeper than the sea,
For, hold them, Blue to Blue,
The one the other will absorb,
As Sponges, Buckets, do” [12]

(“Il Cervello è più profondo del mare,
Perché, tienili, Blu contro Blu,
Uno assorbirà l’altro,
Come una spugna, un secchio“) [12]

Che cosa fa von Heyl se non invitarci a immergerci nei mari profondi della pittura, sapendo che non raggiungeremo mai il fondo?

In “Bunny Hex” (2020), le forme fantasmatiche dagli occhi spalancati che appaiono rosa polveroso quando le si guarda frontalmente diventano grigie quando le si osserva di lato, con la pittura che diventa monocroma da questa angolazione. L’effetto ricorda un’immagine lenticolare, il cambiamento di palette trasforma l’atmosfera del quadro al punto che sembra rappresentare qualcosa di completamente nuovo.

Il rapporto di von Heyl con la storia dell’arte è altrettanto complesso. Ella prende elementi da diverse fonti, cubismo, informale, minimalismo, graffiti, solo per citarne alcune, affrontando la storia della pittura dal modernismo come se fosse una scatola degli attrezzi, un insieme di tropi e tecniche disponibili da impiegare strategicamente quando rispondono alle esigenze di una composizione data.

Il suo approccio richiama alcune osservazioni di Vladimir Jankélévitch sull’ironia: “L’ironia è la consapevolezza acuta della dialettica che oppone apparenza e realtà […] Essa porta in sé il principio della propria distruzione, ma anche della sua perpetua rinascita” [13]. I dipinti di von Heyl sono profondamente ironici, non nel senso di un distacco cinico, ma nella loro consapevolezza acuta delle contraddizioni insite nell’atto di dipingere nel XXI secolo.

Eppure, c’è una gioia palpabile nel suo lavoro, una celebrazione del potenziale creativo illimitato insito nella pittura. Spesso, gli sfondi dipinti, colorati e testurizzati delle sue opere vengono portati in primo piano da motivi geometrici a stencil in nero opaco, a volte a forma di gocce di pioggia, una cornice o stelle. Questi strati danno l’impressione di non aderire alla tela, ma di stare davanti a essa, come una sorta di barriera d’ingresso. Ma come ogni porta chiusa, essa è accompagnata da una sfida: entrare, uscire dallo spazio della galleria per penetrare nel dipinto, un luogo dove tutto può accadere.

Senza esplicitarlo, von Heyl definisce cos’è un dipinto: un mondo fantastico in cui possiamo abbandonarci a colori tumultuosi e all’inventiva senza fine della bidimensionalità. Delimitando lo spazio tra la galleria e il dipinto, trasforma la sua superficie in un punto di forza. Sembra quasi dire “ciò con cui abbiamo a che fare qui è una sovrastruttura, ma non è fantastico?”

Spesso, lo “scopo” dell’arte è ottuso, ma sappiamo che è necessario. Evocando chiaramente coloro che l’hanno preceduta come Picasso e Robert e Sonia Delaunay (in “Hero Picnic” e “Mana Hatta” rispettivamente), von Heyl ci fa sapere che stiamo guardando Arte con la A maiuscola, ma aggiunge le sue sovrapposizioni giocose per attirare l’attenzione non solo sui suoi dipinti come quadri, ma piuttosto sul piacere assurdo di guardarne e riflettere su uno di essi.

Ogni pittura è fantasia, da Delacroix a Kahlo, e se una tela ci ricorda questo elemento fondamentale, possiamo apprezzarne ancora di più la magia. L’espansività di questo tipo di arte non si limita certo alla pittura, e l’evocazione di Emily Dickinson, il cui profilo compare in tre delle opere, testimonia lo stesso tipo di universalità accessibile a partire dal limitato.

“Mi interessano gli artisti che sono considerati di secondo o terzo livello, perché hanno individuato qualcosa, ma poi rimangono bloccati nel ripetersi”, ha detto von Heyl [14]. Questa perspicacia fa forse parte della determinazione di von Heyl a non ripetersi. Si dice spesso del suo lavoro che ogni dipinto è completamente diverso, un mondo a sé.

Eppure, ovviamente, ci sono elementi che unificano l’opera: il suo gusto, il suo modo di trattare il colore, il modo in cui la scala dei dipinti deriva dalla dimensione dei suoi gesti. Tutte queste cose fanno parte di quello che lei chiama “un po’ del filo rosso che attraversa”, che interpreto come la continuità che deriva dalla sua mano singolare: il suo sé singolare.

Nell’era dei social media e dell’attenzione frammentata, von Heyl ci offre opere che esigono e ricompensano un impegno sostenuto. I suoi dipinti sono rallentatori in un mondo che valorizza la velocità e l’efficienza. Ci ricordano che l’arte non necessita di giustificazioni utilitaristiche; il suo valore risiede proprio nella capacità di creare spazi di esperienza che sfuggono alla logica di mercato.

Ciò che distingue veramente Charline von Heyl è il suo rifiuto categorico dei dogmi artistici, che siano antichi o nuovi. Non è né una tradizionalista nostalgica né un’avanguardista determinata a rompere con il passato. Occupa piuttosto quella che la critica d’arte Rachel Wetzler chiama “una posizione di resistenza alle tendenze dominanti” [15]. Questa posizione non è definita dall’opposizione, ma da un’affermazione positiva della libertà artistica.

E non è esattamente ciò di cui la pittura ha bisogno oggi? Non più teoria, più ironia o più sincerità, ma semplicemente più audacia, più curiosità e più gioia nell’atto stesso di dipingere? Von Heyl ci mostra che il futuro della pittura non risiede nella ricerca di una nuova via dopo la presunta fine della storia dell’arte, ma nell’esplorazione infinita delle possibilità che sono sempre state insite nel mezzo.

Quindi la prossima volta che vedrete un’opera di Charline von Heyl, prendetevi il tempo. Lasciate che il vostro sguardo si perda sulla superficie. Permettete alla vostra percezione di cambiare col passare del tempo. E forse, proprio forse, scoprirete che il cervello è davvero più profondo del mare.


  1. Sontag, Susan. “Contro l’interpretazione”, in Contro l’interpretazione e altri saggi, 1966.
  2. Ovidio, Le Metamorfosi, Libro I, versi 1-2, I secolo.
  3. Von Heyl, Charline. Intervista con Bomb Magazine, 2010.
  4. Bergson, Henri. Saggio sui dati immediati della coscienza, 1889.
  5. Ibid.
  6. Pocaro, Alan. “Curiosamente confondente: una recensione di Charline von Heyl a Corbett vs. Dempsey”, Newcity Art, 10 febbraio 2021.
  7. Aristotele, De Anima, Libro III, IV secolo a.C.
  8. Von Heyl, Charline. Intervista con Jason Farago, EVEN Magazine, 2018.
  9. Rimbaud, Arthur. “Vocali”, Poesie, 1883.
  10. Pocaro, Alan. “Curiosamente confondente: una recensione di Charline von Heyl a Corbett vs. Dempsey”, Newcity Art, 10 febbraio 2021.
  11. Von Heyl, Charline. Intervista con Jason Farago, EVEN Magazine, 2018.
  12. Dickinson, Emily. Poesia 632, “Il cervello è più profondo del mare”, 1863.
  13. Jankélévitch, Vladimir. L’Ironia, 1964.
  14. Von Heyl, Charline. Intervista con Jason Farago, EVEN Magazine, 2018.
  15. Wetzler, Rachel. “Charline von Heyl”, Art in America, 1 dicembre 2018.
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Riferimento/i

Charline VON HEYL (1960)
Nome: Charline
Cognome: VON HEYL
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Germania

Età: 65 anni (2025)

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