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Daniel Arsham: l’archeologo del futuro

Pubblicato il: 24 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Daniel Arsham trasforma il nostro presente in vestigia archeologiche e il nostro futuro in passato cristallizzato. L’artista americano si è imposto come maestro dell’archeologia fictionale, creando opere che sfidano la nostra percezione del tempo e della materialità.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Daniel Arsham (nato nel 1980) è l’illusionista contemporaneo che ci inganna tutti. Con il suo talento indiscutibile nel trasformare il presente in vestigia archeologiche fittizie e la sua ossessione per la manipolazione architettonica, ci propone una visione del futuro che si avvicina pericolosamente al presente.

Arsham si è imposto come il maestro indiscusso di ciò che chiama “archeologia fictionale”. Una pratica che consiste nel creare oggetti contemporanei come se fossero stati scoperti in un lontano futuro, cristallizzati, erosi, fossilizzati. Trasforma i nostri gadget elettronici, le nostre auto sportive e i nostri simboli culturali in reliquie preziose. È magistrale e terrificante allo stesso tempo. Queste opere ci riportano alla nostra mortalità, alla fragilità della nostra civiltà del consumo. Come scriveva Walter Benjamin in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ogni epoca sogna la seguente, ma Arsham va oltre: ci fa sognare la nostra stessa fine.

Prendiamo i suoi “Future Relics”, questa serie di oggetti quotidiani trasformati in reperti archeologici. Una console per videogiochi Nintendo, una macchina fotografica Polaroid, un telefono cellulare degli anni ’90, tutti congelati in uno stato di decomposizione cristallina, come se il tempo stesso si fosse solidificato intorno a loro. È una critica aspra alla nostra società di consumo, ma anche una celebrazione perversa delle sue icone. Questi oggetti, trattati con lo stesso rispetto riverente delle antichità greche o romane, ci costringono a mettere in discussione il nostro rapporto con la cultura materiale. Come sottolineava Jean Baudrillard in “Il sistema degli oggetti”, viviamo in un mondo in cui gli oggetti sono diventati segni, e Arsham spinge questa logica al suo parossismo assurdo.

La manipolazione architettonica è un’altra ossessione di Arsham. I suoi interventi nello spazio costruito sfidano la nostra percezione della solidità e della permanenza. I muri sembrano sciogliersi, le superfici si deformano, l’architettura stessa diventa liquida. Queste installazioni ci ricordano le teorie di Paul Virilio sulla “dromologia” e l’accelerazione del tempo nella nostra società contemporanea. Le strutture di Arsham non si limitano a occupare lo spazio, lo divorano, lo digeriscono, lo trasformano in qualcosa di stranamente organico.

I suoi muri che sembrano essere stati colpiti da una catastrofe naturale, le sue figure umane che emergono dalle superfici architettoniche come fossili viventi, tutto ciò crea un senso di profonda destabilizzazione. Queste opere ci ricordano che viviamo in un mondo in cui, come disse Marshall McLuhan, “avanziamo guardando nello specchietto retrovisore”, e possiamo comprendere il presente solo guardandolo come se fosse già passato.

Ma attenzione, non sbagliatevi. Se Arsham gioca con i codici dell’archeologia e della storia dell’arte, è per intrappolarci meglio nel nostro stesso presente. Le sue opere sono specchi deformanti che riflettono la nostra ossessione per la tecnologia, il nostro feticismo degli oggetti, il nostro patetico desiderio di immortalità attraverso la cultura materiale.

Questo approccio non è senza richiamare le riflessioni di Roland Barthes sulla fotografia in “La camera chiara”. Proprio come la fotografia cattura un momento che è già morto non appena viene fissato, le sculture di Arsham congelano il nostro presente in uno stato di decomposizione perpetua. Sono allo stesso tempo memento mori e celebrazione della cultura pop, critica sociale ed esercizio di stile virtuoso.

L’uso che Arsham fa dei materiali è particolarmente rivelatore. Il vetro frantumato, i cristalli, la cenere vulcanica, il bronzo, ogni materiale è scelto per la sua capacità di suggerire sia la permanenza che la fragilità. Come notò Rosalind Krauss in “Passages in Modern Sculpture”, la materialità stessa di una scultura può essere portatrice di significato, e Arsham sfrutta questa idea fino all’ossessione.

La sua collaborazione con marchi di lusso come Porsche, Tiffany & Co., o Dior potrebbe sembrare contraddittoria rispetto alla sua apparente critica della società di consumo. Ma è qui che risiede il genio perverso di Arsham: utilizza gli stessi meccanismi del capitalismo tardivo per diffondere la sua visione distopica. È un po’ come se Andy Warhol avesse deciso di creare non delle serigrafie di scatole di zuppa Campbell’s, ma i loro reperti archeologici.

Le installazioni di Arsham ci costringono a confrontarci con la nostra stessa temporalità. In un mondo ossessionato dal momento presente, dalla novità perpetua, ci propone una visione del futuro che è già in fase di decomposizione. È un’impresa concettuale che ci lascia profondamente a disagio, come se fossimo diventati gli spettatori della nostra stessa estinzione.

Questa tensione tra presente e futuro, tra creazione e distruzione, tra permanenza ed effimero è al centro del lavoro di Arsham. Come ha scritto Georges Didi-Huberman in “Davanti al tempo”, il nostro rapporto con la storia è sempre anacronistico, e Arsham gioca proprio su questo anacronismo fondamentale.

Lucy Lippard, in “Six Years: The Dematerialization of the Art Object”, parlava di come l’arte concettuale abbia messo in discussione la materialità dell’opera d’arte. Arsham fa esattamente il contrario: rimaterializza i nostri concetti, i nostri desideri, le nostre paure sotto forma di oggetti che sembrano aver sopravvissuto alla loro stessa distruzione.

Forse la cosa più affascinante è il modo in cui Arsham riesce a creare un senso di inquietante estraneità, quello che Freud chiamava “das Unheimliche”. Le sue opere ci sono allo stesso tempo familiari e profondamente alienanti. Una macchina fotografica Leica fossilizzata, un’auto sportiva cristallizzata, questi oggetti sono riconoscibili ma resi strani dalla loro trasformazione. È come se stessimo guardando la nostra stessa cultura attraverso gli occhi di una civiltà futura che cerca di comprendere i nostri rituali e i nostri feticci.

John Berger, in “Ways of Seeing”, ci ricordava che il modo in cui vediamo le cose è influenzato da ciò che sappiamo o crediamo. Arsham gioca proprio su questo principio presentandoci oggetti familiari in uno stato di decomposizione futura, costringendoci così a riconsiderare il nostro rapporto con quegli stessi oggetti nel presente.

La pratica di Arsham si inserisce in una tradizione di artisti che hanno messo in discussione il nostro rapporto con il tempo e la materialità. Ma mentre Robert Smithson creava opere che si decomponevano naturalmente, Arsham accelera e congela il processo di decomposizione, creando rovine istantanee che sembrano venire da un futuro impossibile.

Il suo lavoro è una meditazione sull’obsolescenza programmata, non solo degli oggetti tecnologici, ma della nostra stessa civiltà. Come ha scritto Marc Augé in “Il tempo in rovina”, le rovine hanno sempre avuto una funzione profetica. Le rovine di Arsham non ci parlano del passato, ma di un futuro che è già qui, che ci guarda attraverso i cristalli e le crepe delle sue sculture.

Questo approccio non è senza rischi. A forza di giocare con i codici dell’archeologia fittizia e della cultura pop, Arsham potrebbe cadere nella trappola della ripetizione, della formula. Ma finora è riuscito a mantenere un equilibrio precario tra innovazione formale e coerenza concettuale.

Daniel Arsham è più di un semplice creatore di oggetti estetici. È uno cronista del nostro presente visto attraverso il prisma di un futuro immaginario. Le sue opere sono capsule temporali invertite, messaggi inviati non verso il futuro ma dal futuro. E il messaggio che portano è allo stesso tempo seducente e terrificante: tutto ciò che creiamo, tutto ciò che amiamo, tutto ciò che consideriamo permanente non è che polvere in divenire, cristalli in formazione, rovine in attesa.

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Riferimento/i

Daniel ARSHAM (1980)
Nome: Daniel
Cognome: ARSHAM
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 45 anni (2025)

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