Ascoltatemi bene, banda di snob: se pensate ancora che la pittura figurativa sia una cosa del passato, un relitto polveroso del secolo scorso, evidentemente non avete mai posato gli occhi sul lavoro di Danielle Mckinney. Quest’artista nata nel 1981 a Montgomery, Alabama, formata alla fotografia prima di riappropriarsi della pittura durante i confinamenti del 2020, non produce semplici ritratti. Costruisce santuari, camere chiuse dove il tempo si sospende, dove le donne nere che ritrae si concedono finalmente quel lusso scandaloso: non fare assolutamente nulla.
Perché è proprio qui che risiede il genio discreto di Mckinney. In un mondo saturo di immagini che urlano, che rivendicano, che performano l’identità fino all’esaurimento, lei sceglie il sussurro. Le sue tele di piccolo formato, spesso appena più grandi di un foglio di carta, emanano una potenza inversamente proporzionale alla loro dimensione. Non urlano la loro presenza; la impongono con la densità del loro silenzio. Le donne che dipinge fumano, dormono, leggono, fantasticano, occupano spazi domestici immersi in ombre fitte da cui emergono tocchi di colore saturo: un’unghia rosso sangue, un cuscino ocre, una luce verde che filtra attraverso le tapparelle. Questi dettagli non sono mai gratuiti. Costituiscono le coordinate emotive di una cartografia intima che l’artista traccia con la precisione di una chirurga.
Mckinney lavora su uno sfondo nero, rovesciando così la convenzione accademica della tela bianca. Questa scelta tecnica non è solo estetica: è filosofica. Il nero diventa la matrice da cui emergono le figure, come apparizioni fotografiche in una camera oscura. L’artista, che ha ottenuto il suo master in fotografia alla Parsons School of Design nel 2013, non può sfuggire a questa formazione iniziale. Dipinge con l’occhio del fotografo, costruendo le sue composizioni a partire da collage di immagini raccolte in riviste vintage dagli anni ’30 agli anni ’70, su Pinterest o in fotografie antiche. Questo metodo di lavoro ricorda le scatole di scarpe che realizzava da bambina, in cui collocava figurine femminili in scenari minuziosamente dipinti. L’artista non ha mai abbandonato questo territorio ludico e protettivo della costruzione di mondi in miniatura. Vi rimane, trasformando ogni tela in un diorama psicologico dove si giocano drammi interiori di una raffinatezza notevole.
Sociologicamente, l’opera di Mckinney si inserisce in un momento storico preciso e necessario. Quando afferma: “Non ho mai visto una donna nera con la pelle nera in una rivista” [1], indica un’assenza strutturale nella rappresentazione visiva occidentale. Questa assenza non è banale; costituisce una violenza simbolica che Pierre Bourdieu avrebbe definito come una dominazione morbida, quella che si esercita attraverso l’invisibilizzazione piuttosto che attraverso la costrizione esplicita. Le donne nere, quando compaiono nell’iconografia dominante, sono spesso confinate a ruoli codificati: la serva nell’Olympia di Manet, relegata ai margini del quadro e dell’attenzione critica, oppure l’eroina sacrificale portatrice di tutti i fardelli collettivi. Mckinney rifiuta questi due ostacoli con un’eleganza disarmante. Le sue figure non sono né subordinate né eroiche. Sono, semplicemente. Si concedono il privilegio borghese della noia, del riposo, della contemplazione oziosa, territori storicamente riservati ai corpi bianchi nella storia dell’arte occidentale.
La sociologa Tina Campt, nel suo fondamentale libro “Listening to Images”, sviluppa il concetto di immagini silenziose, che definisce come “né silenziose né inaudibili”, ma vibranti “appena sotto la soglia dell’udito” [2]. Questa nozione si applica con una precisione sconvolgente ai dipinti di Mckinney. Non parlano, ma non sono mute. Producono una risonanza aptica, una qualità tattile che evoca il senso del tatto tanto quanto quello della vista. Si percepisce la texture cremosa della pittura a olio, lo spessore delle pennellate, il calore umido delle stanze rappresentate. Questa dimensione sensoriale trasforma l’atto di guardare in un atto di immersione. Lo spettatore non osserva queste donne; condivide la loro atmosfera. Questa intimità forzata può generare un disagio produttivo. Interroga i limiti del voyeurismo, la legittimità dello sguardo, la responsabilità di chi guarda. Mckinney controlla perfettamente questa tensione. Le sue figure distolgono spesso lo sguardo, rifiutando il contatto visivo diretto che stabilirebbe una relazione di potere troppo esplicita. Ci concedono il privilegio di entrare nel loro spazio, ma non quello di possederle con lo sguardo.
Il contesto di emergenza di Mckinney merita anch’esso di essere approfondito. Nel 2020, dopo l’omicidio di George Floyd e l’amplificazione del movimento Black Lives Matter, il mondo dell’arte ha vissuto quello che potremmo pudicamente chiamare un “momento di consapevolezza”. Gallerie e istituzioni, improvvisamente preoccupate per il loro bilancio morale, si precipitarono a esporre artisti neri. Questa frenesia del recupero ha prodotto effetti ambivalenti. La stessa Mckinney ha posto frontalmente la domanda alla sua gallerista Marianne Boesky: “Mi rappresenta perché ama la mia arte o perché ha bisogno di un’artista nera?” Questa lucidità critica l’onora. Rifiuta di essere strumentalizzata, anche a favore della propria carriera. Esige che il suo lavoro sia guardato per quello che è, non per quello che permette di segnalare virtuosamente. Questa esigenza è politica nel senso più nobile del termine. Richiede il diritto alla complessità, all’ambiguità, all’esplorazione formale senza dover perpetuamente giustificare la propria legittimità attraverso il prisma razziale. I suoi dipinti non sono manifesti. Sono proposte sensibili, inviti alla rêverie, momenti di grazia catturati nell’oscurità.
Sul piano strettamente pittorico, Mckinney si inscrive in una genealogia che rivendica senza complessi. Henri Matisse rimane per lei il riferimento cardinale, colui che le ha permesso di comprendere che non si deve “dipingere ciò che si vede, ma ciò che si sente” [3]. Questa massima di Matisse irrora tutta la sua pratica. I colori in Mckinney non sono mai naturalistici. Sono emozionali. Un verde smeraldo invade un bagno come una presenza liquida e inquietante. Un arancio bruciato riveste un corpo femminile con una sensualità palpabile. Queste scelte cromatiche costruiscono atmosfere che vanno oltre la semplice descrizione di un luogo. Generano stati psicologici, climi affettivi in cui lo spettatore può perdersi. L’influenza di Matisse si manifesta anche nella libertà del gesto, in questo modo di lasciare che il pennello tracci la propria strada, di non controllare tutto, di accogliere l’incidente felice. Mckinney racconta di aver dovuto imparare a lasciar andare, ad accettare l’imperfezione di un uccello mal proporzionato in una composizione per il resto riuscita. Questa accettazione della falla è una lezione di umiltà che pochi artisti contemporanei si permettono.
L’altra importante referenza nel pantheon personale di Mckinney è Edward Hopper, maestro americano della solitudine urbana e delle luci cinematografiche. Come lui, cattura istanti sospesi in cui il tempo sembra fermarsi. Come lui, padroneggia l’arte della finestra che lascia filtrare una luce obliqua, creando giochi di ombra e chiarezza che suddividono lo spazio in zone di intimità e di rivelazione. Ma laddove Hopper coltivava una freddezza quasi clinica, una distanza emotiva che rendeva le sue figure inaccessibili, Mckinney inietta calore. I suoi interni sono accoglienti nonostante la loro oscurità. Invitano a rannicchiarsi, a trovare rifugio. Questa differenza forse è legata al genere. Le donne di Hopper sembrano prigioniere della loro solitudine; quelle di Mckinney la abitano come una scelta, come un territorio riconquistato. Questa sfumatura è fondamentale. Trasforma la malinconia in un’emancipazione discreta, il ritiro dal mondo in una strategia di preservazione di sé.
Johannes Vermeer, maestro olandese del XVII secolo, infesta anche queste tele. Mckinney riprende a suo vantaggio il dispositivo della soglia, quel modo di inquadrare una scena come se si fosse appena aperta una porta socchiusa. In molte sue composizioni, lo spettatore scopre l’interno a frammenti, attraverso un telaio di porta o un’apertura che delimita il campo visivo. Questa strategia produce un effetto di sorpresa e discrezione. Si ha l’impressione di sorprendere un momento che non ci era destinato, il che accentua la sensazione di intimità rubata. Vermeer dipingeva serve e borghesi olandesi intenti alle loro occupazioni domestiche in una luce lattiginosa del Nord. Mckinney trasporta questo vocabolario visivo in un contesto afro-americano contemporaneo, dimostrando che queste composizioni classiche possono accogliere corpi storicamente esclusi dal canone occidentale senza perdere la loro forza plastica. Al contrario, questa riappropriazione le rivitalizza, le carica di significati nuovi e le salva dalla fossilizzazione museale.
La dimensione spirituale del lavoro di Mckinney, sebbene discreta, attraversa comunque la sua opera. Cresciuta in una famiglia battista del Sud profondo, dissemina i suoi interni di simboli religiosi: crocifissi, immagini della Vergine Maria, icone cristiane che fluttuano negli sfondi sfocati. Ma questi riferimenti sono trattati con ambivalenza. Spesso appaiono sfocati, come presenze incerte, vestigia di una fede messa in discussione. Mckinney racconta di essere cresciuta vedendo rappresentazioni di Gesù bianco dalla nonna, una situazione assurda per una bambina nera. Questa incongruenza alimenta una riflessione sulla costruzione delle immagini sacre, sulla loro violenza simbolica, sul modo in cui impongono norme estetiche che escludono. Includendo questi simboli e rendendoli sfocati, Mckinney non li rifiuta completamente. Li mantiene nello spazio pittorico come domande aperte, come irritanti produttivi che impediscono ogni lettura univoca.
Ciò che colpisce in Mckinney è anche la sua capacità di creare opere di risonanza universale senza diluire la loro specificità. I suoi dipinti parlano dell’esperienza particolare delle donne nere pur toccando corde emotive comuni a tutta l’umanità. Questa dialettica tra il particolare e l’universale è difficile da mantenere. Troppo particolarismo rinchiude l’opera in una nicchia identitaria; troppo universalismo astratto cancella le asperità che arricchiscono l’esperienza singolare. Mckinney trova un raro equilibrio. Dipinge donne nere, ma soprattutto la stanchezza, la rêverie, il desiderio, la noia, il ritiro in sé. Questi affetti attraversano i confini razziali e di genere. Ecco perché i suoi quadri attraggono pubblici diversi. Donne bianche vi vedono specchi della propria stanchezza. Uomini riconoscono una vulnerabilità che si proibiscono di esprimere. Questa polisemia non è casuale. Risulta da un’intelligenza compositiva che sa dosare i marcatori identitari e lasciarli aperti all’identificazione empatica.
La traiettoria fulminea di Mckinney pone anche questioni scomode sui meccanismi del mercato dell’arte contemporanea. In pochi anni, è passata dall’anonimato al riconoscimento istituzionale. Le sue opere ora figurano nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art, del Hirshhorn Museum e del Dallas Museum of Art, tra gli altri. Questa rapida ascesa può suscitare scetticismo. È il talento a spiegare questo successo, o semplicemente il tempismo favorevole di un’artista nera emergente nel momento in cui le istituzioni cercano disperatamente di diversificare le proprie collezioni? La risposta è probabilmente una miscela di entrambi, ed è proprio questo che rende la questione interessante. Il solo talento non basta mai. È necessario che le condizioni sociali, economiche e politiche siano riunite affinché venga riconosciuto. Mckinney ha avuto la lucidità di comprenderlo. Non si illude sulla durata dell’attenzione che le viene data. Si domanda: “Tra cinque anni, forse nessuno cercherà più una Danielle Mckinney”. Questa lungimiranza la protegge dall’hybris che minaccia ogni artista improvvisamente celebrato.
Rimane una domanda fondamentale: perché questi dipinti ci emozionano così tanto? Cosa, in queste piccole tele scure che rappresentano donne immobili, genera un’emozione così forte da poter far piangere collezionisti esperti durante le fiere d’arte? La gallerista Marianne Boesky racconta di aver visto una compratrice in lacrime davanti a un’opera di Mckinney. In ventotto anni di carriera, non aveva mai assistito a una scena simile. Questo potere emotivo della pittura rimane un mistero. Si può invocare la qualità del tocco, l’intelligenza delle composizioni, la risonanza dei temi. Ma in fondo, qualcosa sfugge all’analisi razionale. Forse è semplicemente che Mckinney dipinge con onestà, senza posa, senza calcolo. Dipinge ciò che sente, e questa autenticità si trasmette. Le sue figure diventano esseri viventi davanti ai nostri occhi. Respirano, pensano, esistono al di là della cornice. Questa animazione della materia inerte, questa insufflazione di vita nella pittura, è un dono raro che possiedono solo i grandi pittori.
Allora, cosa ricordare di Danielle Mckinney? Un’artista che rifiuta le facilità, che interroga costantemente la propria legittimità senza per questo crollare sotto il peso del dubbio. Una pittrice che dimostra che la figurazione non è morta, che può ancora dire cose nuove sulla nostra epoca tormentata. Una donna che offre ad altre donne nere il lusso di vedersi rappresentate in posture di riposo, rompendo così secoli di iconografia che le confinava al lavoro o all’eroismo sacrificale. Ma soprattutto, una creatrice che ci ricorda che l’arte non deve giustificare la sua esistenza dalla sua utilità sociale immediata. Può semplicemente essere bella, turbante, silenziosa. Può creare zone di respiro in un mondo soffocante. Può insegnarci, come fanno i dipinti di Mckinney, che non fare nulla è a volte l’atto più politico che ci sia. Nella lentezza delle sue figure languide, nel silenzio denso delle sue stanze chiuse, nel fumo che sale pigramente dalle sigarette, si dispiega una resistenza tranquilla al diktat della produttività, all’invito alla performance permanente. Queste donne che dormono, che sognano ad occhi aperti, che si annoiano magnificamente, ci insegnano una lezione essenziale: a volte, esistere basta.
- Danielle Mckinney, intervista con Alison Gingeras, Mousse Magazine, maggio 2021
- Tina Campt, Listening to Images, Duke University Press, Durham, 2017
- Danielle Mckinney, intervista con Alyssa Gaines, Boston Art Review, ottobre 2025
















