Ascoltatemi bene, banda di snob. È tempo di parlare di Donald Sultan, nato nel 1951, quell’artista che è riuscito a trasformare il catrame in oro. Non l’oro degli speculatori o dei mercanti d’arte che pullulano a Chelsea, ma l’oro nero dell’industria americana, quello che scorre nelle vene della nostra società post-industriale come il sangue nelle nostre arterie.
Fermiamoci prima sulla sua serie dei “Disaster Paintings”, queste opere monumentali di 2,4 metri per 2,4 metri che ci mettono di fronte alla nostra stessa hybris. Sultan non è delicato, prende catastrofi industriali, incendi di fabbriche, deragliamenti di treni, e le trasforma in meditazioni visive sulla nostra civiltà in declino. Questi dipinti sono il nostro Guernica moderno, solo che invece di cavalli urlanti e donne piangenti, abbiamo sagome di fabbriche che si stagliano su cieli sulfurei come spettri della nostra stessa arroganza tecnologica.
In “Early Morning May 20 1986”, una delle sue opere più potenti, il cielo giallo tossico sembra sul punto di esplodere, mentre le strutture industriali si ergono come monumenti alla nostra follia collettiva. È come se Max Ernst avesse dipinto l’apocalisse industriale, solo che Sultan usa i materiali stessi di questa apocalisse per creare la sua opera. Il filosofo Paul Virilio parlava dell’incidente come rivelatore della sostanza, i “Disaster Paintings” di Sultan sono proprio questo: rivelazioni della sostanza stessa della nostra modernità.
Ciò che è affascinante è il modo in cui Sultan manipola i suoi materiali. Non si limita a tubetti di pittura da 50 euro l’uno comprati in una boutique chic del Marais. No, usa catrame, mastice, piastrelle di linoleum, i materiali stessi che costituiscono l’ossatura delle nostre città. Walter Benjamin parlava dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; Sultan, lui, crea opere d’arte con i materiali stessi di questa riproducibilità. È come se Heidegger avesse deciso di diventare pittore invece di filosofare sull’essenza della tecnica.
Guardate “Plant May 29, 1985”. I camini delle fabbriche emergono da una nebbia di catrame come totem industriali. Sultan non illustra semplicemente una catastrofe, crea una nuova forma di sublime industriale. Edmund Burke parlava del sublime come di ciò che ci supera e ci terrorizza pur attirandoci irresistibilmente. Le opere di Sultan incarnano perfettamente questa definizione. Ci confrontano con il terrore della nostra stessa creazione, l’industria, pur seducendoci con la loro bellezza brutale.
Passiamo ora alla sua seconda ossessione: le sue nature morte monumentali. I suoi limoni neri, i suoi fiori sovradimensionati, le sue mele giganti. Queste immagini non sono semplici esercizi di stile o omaggi rispettosi a Chardin o Cézanne. No, sono colpi visivi che ci costringono a riconsiderare il nostro rapporto con il mondo naturale. Quando Sultan dipinge un limone nero grande come un piccolo satellite, non sta solo giocando con la scala, sta creando un buco nero visivo che assorbe tutte le nostre certezze su cosa dovrebbe essere una natura morta.
Nella sua serie “Black Lemons” del 1985, i frutti diventano presenze inquietanti, più vicine alle sculture di Louise Bourgeois che alle nature morte tradizionali. Il nero profondo del catrame conferisce a questi limoni una presenza fisica schiacciante. È come se Malevich avesse deciso di dipingere frutti, ma Sultan infonde alle sue forme geometriche una sensualità organica che le rende profondamente disturbanti.
Queste nature morte sono distanti dalle composizioni tradizionali come i film di David Lynch lo sono dalle commedie romantiche di Netflix. Sultan prende i codici classici del genere e li contorce finché non implorano pietà. I suoi fiori non sono lì per confortarci con la loro bellezza effimera, ma per confrontarci con la nostra stessa mortalità con la sottigliezza di un camion cisterna.
La filosofa Susan Sontag scriveva che l’arte doveva insegnarci a vedere di più, a sentire di più, a percepire di più. Le opere di Sultan fanno esattamente questo, ma non nel modo che ci si aspetterebbe. Ci costringe a vedere la bellezza nel disastro, la poesia nell’industria, la trascendenza nella vita quotidiana. È come se Theodor Adorno avesse incontrato Robert Rauschenberg in un magazzino abbandonato a Detroit.
Prendete “Forest Fire, 1984”. L’opera cattura non solo la violenza distruttiva di un incendio boschivo, ma anche la terribile bellezza di questa distruzione. Le fiamme, rese in catrame nero e lattice lucido, danzano sulla superficie come ombre sulla parete di una caverna platonica. Sultan ci costringe a contemplare la nostra stessa fascinazione per la distruzione, ricordandoci allo stesso tempo la nostra responsabilità in queste catastrofi ecologiche.
La sua tecnica è tanto brutale quanto innovativa. Comincia fissando piastrelle di linoleum su pannelli di Masonite, creando una griglia rigida che sostiene tutte le sue composizioni. Questa griglia non è solo un semplice supporto, è una metafora del nostro desiderio di ordine di fronte al caos. Come diceva Michel Foucault, la griglia è una delle strutture fondamentali del pensiero moderno. Sultan la usa come punto di partenza, poi la sovverte con le sue colate di catrame e le schizzi di lattice.
Il processo è fisico, quasi violento. Versa il catrame bollente, lo sculpisce, lo gratta, rivelando talvolta la superficie del linoleum sottostante. È un combattimento corpo a corpo con la materia che ricorda l’action painting di Pollock, solo che Sultan lavora con materiali che potrebbero uccidere un uomo. Il pericolo è reale, così come era reale il pericolo nelle fabbriche e miniere che hanno ispirato il suo lavoro.
In “Air Strike April 22, 1987”, una delle sue opere più impressionanti, la violenza del processo riecheggia la violenza del soggetto. Le tracce di catrame e gli schizzi di lattice creano un’atmosfera apocalittica dove la distinzione tra cielo e terra, tra naturale e artificiale, svanisce completamente. È pittura che odora di zolfo e sudore, che ci ricorda che dietro la nostra facciata di civiltà si nasconde sempre la possibilità del caos.
Sultan non è un artista che si accontenta di rappresentare il mondo, lo ricostruisce con le proprie mani, utilizzando i materiali stessi della nostra civiltà industriale. Come scriveva il filosofo Gaston Bachelard riguardo alla materia, essa non è passiva ma attiva, resistente, portatrice dei propri significati. Sultan comprende questo istintivamente. Le sue opere non sono immagini di catastrofi o nature morte, sono catastrofi e nature morte materializzate.
Prendete, ad esempio, i suoi tulipani neri. Questi fiori monumentali realizzati con carboncino su carta non sono semplici studi botanici. Sono presenze fisiche che occupano lo spazio con tanta autorevolezza quanto una scultura di Richard Serra. Il nero profondo del carboncino crea zone di oscurità così dense da sembrare assorbire la luce come buchi neri. È come se Sultan avesse trovato un modo per dare una forma materiale alla stessa malinconia.
E che dire dei suoi “Smoke Rings”, quegli anelli di fumo che fluttuano come aloni tossici su fondi neri? Queste opere non sono semplicemente belle, sono inquietanti, come presagi della nostra stessa distruzione ambientale. Il fumo, reso con una precisione quasi fotografica, diventa un simbolo della nostra smisuratezza tecnologica, della nostra capacità di inquinare persino il cielo sopra le nostre teste.
Ciò che è straordinario in Sultan è che mantiene un equilibrio precario tra ordine e caos, tra controllo e accidente. Le sue opere sono costruite con la precisione di un architetto ma contengono la libertà di un espressionista astratto. È questa tensione che conferisce al suo lavoro la sua potenza viscerale. Come scriveva Georges Bataille, l’arte vera si situa sempre al limite di ciò che è possibile, alla frontiera tra forma e informe.
I critici che vedono nel lavoro di Sultan solo una serie di esercizi formali eleganti mancano completamente il soggetto. La sua opera è profondamente radicata nelle contraddizioni della nostra epoca: il nostro desiderio di ordine di fronte al caos circostante, la nostra nostalgia della natura di fronte alla nostra dipendenza dalla tecnologia, il nostro bisogno di bellezza di fronte alla bruttezza dei nostri disastri industriali.
Nel 1999, Sultan è stato invitato a creare un’installazione permanente per l’Art’otel di Budapest. Invece di appendere semplicemente qualche quadro alle pareti, ha trasformato l’intero hotel in un’opera d’arte totale, progettando tutto, dalle fontane ai tappeti fino alle accappatoi. Era come se Richard Wagner avesse deciso di diventare interior designer, solo che Sultan ha creato il suo Gesamtkunstwerk, la sua opera d’arte totale, con materiali industriali invece che con note musicali.
Questa capacità di trascendere i limiti tradizionali tra belle arti e arti applicate, tra pittura e architettura, è caratteristica dell’approccio di Sultan. Egli non rispetta i confini stabiliti, li usa come punti di partenza per le sue esplorazioni. Come diceva Marcel Duchamp, l’arte non è questione di forma ma di funzione. Sultan lo comprende intuitivamente.
Guardate come tratta la superficie delle sue opere. In “Battery May 5, 1986”, gli strati di catrame e lattice creano una topografia complessa che fa della superficie del dipinto un territorio da esplorare. Le impronte dei suoi strumenti, le tracce dei suoi gesti, gli incidenti del processo, tutto questo diventa parte integrante dell’opera. È come se Jackson Pollock avesse deciso di dipingere paesaggi industriali.
Sultan non è un artista che cerca di confortarci con immagini piacevoli. Non fa decorativo o gradevole. La sua arte è dura e inflessibile come i materiali che usa. Ma è proprio questa durezza che rende il suo lavoro così pertinente oggi. In un mondo dove l’arte contemporanea spesso si perde in gesti concettuali privi di senso, Sultan ci ricorda che la pittura può ancora essere un mezzo potente per comprendere la nostra epoca.
Prendetevi il tempo per fermarvi davanti a uno dei suoi “Disaster Paintings”. Guardate come il catrame nero assorbe la luce come un buco nero. Osservate come le silhouette delle fabbriche emergono dal caos come spettri industriali. È una pittura che vi prende allo stomaco prima ancora che il vostro cervello abbia avuto il tempo di analizzare ciò che vedete. È un’arte che parla direttamente al vostro sistema nervoso, come una sinfonia di Mahler o un film di Tarkovskij.
Nel suo uso del nero, Sultan si unisce a una lunga serie di artisti che hanno compreso il potere di questo non-colore. Da Goya a Pierre Soulages, passando per Ad Reinhardt, il nero è sempre stato più di una semplice assenza di luce, è una presenza attiva, una forza che struttura lo spazio. I neri di Sultan sono particolarmente potenti perché sono fatti di catrame, un materiale che porta con sé tutta la storia della nostra rivoluzione industriale.
I suoi nature morte monumentali giocano anche con questa tensione tra presenza e assenza. Un limone nero di Sultan non è semplicemente un limone dipinto di nero, è un oggetto che esiste in uno spazio liminale tra rappresentazione e astrazione, tra natura e cultura. Come scriveva Roland Barthes riguardo alla fotografia, queste immagini sono contemporaneamente presenti e assenti, lì e non lì.
Il modo in cui Sultan tratta lo spazio nelle sue opere è anche notevole. Nei suoi grandi formati, lo spazio non è semplicemente un contenitore per gli oggetti rappresentati, diventa un attore a pieno titolo. I vuoti tra le forme sono importanti quanto le forme stesse. È come se Sultan avesse intuito ciò che il filosofo Martin Heidegger voleva dire quando parlava dello spazio come di una “radura dell’essere”.
Andate a vedere una mostra di Sultan. Guardate come reinventa il medium usando materiali industriali. Osservate come trasforma piastrelle di linoleum e catrame in poesia visiva. Questa è la vera innovazione nell’arte, non le ultime mode, ma la capacità di far dire qualcosa di nuovo a un mezzo antico.
Nel suo studio a Tribeca, Sultan continua a lavorare con la stessa intensità di all’inizio della sua carriera. Non è caduto nelle sirene del mercato dell’arte, non ha edulcorato il suo lavoro per piacere ai collezionisti. Resta fedele alla sua visione, continuando a esplorare le possibilità dei suoi materiali industriali con la stessa curiosità di un alchimista medievale.
L’opera di Sultan è un testamento alla resilienza della pittura come medium. In un mondo saturato di immagini digitali e realtà virtuale, ci ricorda che nulla può sostituire l’esperienza fisica di un’opera d’arte. I suoi quadri non sono finestre su un altro mondo, sono oggetti che esistono nel nostro mondo, reali e tangibili come le mura che ci circondano.
Quindi la prossima volta che sentite qualcuno dire che la pittura è morta, portatelo a vedere un’opera di Donald Sultan. E ricordategli che finché ci saranno artisti capaci di trasformare materiali industriali in poesia visiva, la pittura resterà viva. Perché questo è il vero lascito di Sultan, mostrarci che l’arte può ancora sorprenderci, destabilizzarci ed emozionarci, anche con i materiali più banali del nostro mondo industriale.
















