Ascoltatemi bene, banda di snob, voi che sfoggiate nelle fiere d’arte contemporanea con le vostre teorie esoteriche e le vostre pose intellettuali. Vi parlerò di Dong Shaw-Hwei, nata nel 1962 a Taipei, un’artista che rifiuta categoricamente di piegarsi ai dettami del vostro piccolo mondo artistico narcisista e auto-soddisfatto.
In un panorama artistico contemporaneo saturo di installazioni chiassose e opere concettuali vuote, Dong Shaw-Hwei emerge come una forza tranquilla ma rivoluzionaria. Ha costruito la sua identità artistica fondendo l’impressionismo occidentale con la filosofia taoista, creando così un’opera che trascende non solo i confini culturali, ma anche le mode effimere che tanto ossessionano il mercato dell’arte attuale.
La sua serie “Courtyard” non è semplicemente una collezione di dipinti di giardini. È un manifesto visivo contro la nostra epoca ossessionata dalla velocità e dal cambiamento perpetuo. In queste opere, cattura l’essenza stessa di questi cortili tradizionali di Taipei che scompaiono sotto gli assalti implacabili della modernizzazione urbana. Questi spazi, con i loro alberi secolari e le loro pietre muschiose, diventano sotto il suo pennello testimoni silenziosi di una saggezza millenaria che si cancella. Ogni quadro è una meditazione profonda su ciò che Walter Benjamin chiamava l’aura, quell’unica apparizione di un lontano, per quanto vicino possa essere. Questi giardini non sono semplici reliquie nostalgiche, ma spazi di resistenza culturale attiva contro l’uniformazione galoppante del nostro ambiente urbano.
Il modo in cui Dong tratta la luce in queste opere è particolarmente rivelatore. A differenza degli impressionisti che cercavano di catturare l’attimo fugace, lei crea una luminosità che sembra emanare dagli oggetti stessi. È come se fosse riuscita a materializzare ciò che Maurice Merleau-Ponty descriveva in “L’Oeil et l’Esprit” come “la luce seconda” che non viene dall’esterno ma che emana dalla cosa stessa. Questo approccio unico trasforma i suoi quadri in vere e proprie meditazioni sulla natura della percezione stessa.
Nella sua serie “Still Life of Black Table” spinge ancora più lontano la sua riflessione sullo spazio e il tempo. Queste nature morte trascendono il loro genere tradizionale per diventare ciò che Martin Heidegger avrebbe chiamato “svelamenti dell’essere”. Il tavolo nero, ricorrente nelle sue composizioni, non è un semplice supporto per gli oggetti. Diventa un teatro metafisico dove ogni oggetto, ogni fiore, ogni ombra porta in sé un carico esistenziale profondo. Il nero profondo del tavolo funziona come ciò che Theodor Adorno chiamava “l’apparenza del non apparente”, creando uno spazio di riflessione in cui lo spettatore è invitato a contemplare non solo gli oggetti rappresentati, ma anche il proprio rapporto con il mondo materiale.
Il modo in cui struttura lo spazio nelle sue composizioni sfida tutte le convenzioni stabilite. Non segue né le regole della prospettiva occidentale né le convenzioni della pittura tradizionale cinese. Al contrario, crea ciò che Gaston Bachelard chiamava una “poetica dello spazio”, dove le relazioni spaziali sono dettate non da regole geometriche, ma da una logica interna che appartiene più alla poesia che alla prospettiva. Questo approccio è particolarmente evidente in opere come “The Golden Days in Courtyard” (2023), dove lo spazio diventa una metafora della coscienza stessa.
Il suo uso del colore è altrettanto rivoluzionario. Dove gli impressionisti cercavano di catturare la vibrazione della luce naturale, Dong utilizza il colore come uno strumento filosofico. I suoi verdi profondi e i suoi neri vellutati non sono lì per imitare la natura, ma per creare ciò che Gilles Deleuze chiamava “blocchi di sensazione”. Ogni sfumatura è carica di un’intenzione meditativa che trasforma l’atto di guardare in un’esperienza quasi spirituale, ma senza mai cadere nella trappola del misticismo facile.
Ciò che è particolarmente notevole nel suo lavoro è che trasforma il banale in sublime senza mai ricorrere agli artifici spettacolari così comuni nell’arte contemporanea. In “The Old Courtyard-Happy Flowerbed I-II” (2021), eleva un semplice aiuola di fiori a una meditazione cosmica. Questa capacità di rivelare l’extraordinario nell’ordinario ricorda ciò che Georges Perec descriveva in “L’Infra-ordinaire” come la necessità di mettere in discussione ciò che sembra così scontato da farci dimenticare la sua origine.
Il suo trattamento dei motivi botanici nelle sue opere recenti rivela una profonda comprensione di ciò che Michel Foucault chiamava “l’ordine delle cose”. Le piante nei suoi quadri non sono semplici elementi decorativi, ma presenze vive che partecipano a ciò che il filosofo François Jullien chiama la “grande immagine senza forma”. Questo approccio è particolarmente visibile nelle sue opere come “Plum blossoms in Courtyard I-II” (2023), dove i fiori diventano attori a pieno titolo in un dramma cosmico silenzioso.
Il modo in cui lei affronta la tradizione è altrettanto rivoluzionario. Invece di respingere completamente l’eredità pittorica come fanno molti artisti contemporanei, o di sottomettersi ciecamente ad essa come i tradizionalisti, instaura un dialogo critico con questa eredità. La sua approfondita comprensione della filosofia di Zhuangzi, su cui ha scritto un libro nel 1993, le permette di trascendere la dicotomia sterile tra tradizione e innovazione. Crea così quello che Pierre Bourdieu avrebbe chiamato un “habitus artistico” unico, che non è né totalmente orientale né completamente occidentale.
Nelle sue composizioni recenti, in particolare nella sua serie di dittici, spinge ancora più avanti questa fusione di tradizioni. La struttura a due pannelli, ispirata ai rotoli tradizionali cinesi, diventa sotto il suo pennello un dispositivo concettuale sofisticato che interroga la nostra percezione del tempo e dello spazio. Questo approccio ricorda ciò che Jacques Derrida chiamava la “différance”, quella tensione produttiva tra presenza e assenza che genera significato.
Ciò che rende il suo lavoro particolarmente rilevante oggi è che si oppone alla mercificazione sfrenata che caratterizza il mondo dell’arte contemporanea. Le sue opere non sono pensate per i selfie su Instagram o per le vendite all’asta spettacolari. Esse richiedono una forma di attenzione che contrasta con la nostra cultura della distrazione permanente. In questo senso, la sua arte diventa quello che Guy Debord avrebbe definito un anti-spettacolo, una forma di resistenza silenziosa ma efficace contro la società dello spettacolo.
La dimensione femminista della sua opera, sebbene mai esplicitamente rivendicata, è profondamente radicata nella sua pratica. Come avrebbe sottolineato Simone de Beauvoir, il semplice fatto di creare come donna in un mondo dell’arte ancora largamente dominato dagli uomini è di per sé un atto politico. Ma Dong va oltre. Riesce a trascendere gli stereotipi di genere creando un’arte che assume pienamente la sua sensibilità femminile.
Il suo trattamento delle nature morte è particolarmente rivelatore a questo riguardo. Tradizionalmente considerato un genere “femminile” minore, lei lo trasforma in un veicolo per riflessioni filosofiche profonde. In opere come “A Peaceful Day-Pink Camellia” (2023), trasforma un semplice allestimento floreale in una meditazione sulla natura stessa dell’esistenza, ricordando ciò che Julia Kristeva chiama “il tempo delle donne”, una temporalità ciclica che si oppone al tempo lineare patriarcale.
Il modo in cui tratta l’astrazione nelle sue opere recenti merita anch’esso la nostra attenzione. Contrariamente all’astrazione occidentale che tende verso una rottura totale con il reale, la sua astrazione emerge organicamente dall’osservazione attenta del mondo naturale. Questo approccio ricorda ciò che François Jullien descrive come la “grande immagine senza forma” nel pensiero cinese, dove l’astratto non è l’opposto del concreto ma la sua naturale prosecuzione.
Il suo uso dello spazio negativo nelle composizioni è particolarmente sofisticato. I vuoti nei suoi quadri non sono semplici assenze, ma presenze attive che strutturano l’intera composizione. Questo approccio ricorda ciò che il filosofo giapponese Kitaro Nishida chiamava il “luogo del nulla”, un concetto che trascende l’opposizione occidentale tra essere e non essere.
Il modo in cui affronta la questione della memoria nelle sue opere della serie “Courtyard” è profondamente commovente senza mai scadere nel sentimentalismo. Questi giardini che scompaiono sotto i bulldozer della modernizzazione diventano sotto il suo pennello ciò che Pierre Nora chiamava “luoghi della memoria”, spazi dove la memoria collettiva si cristallizza e si rifugia. Ma contrariamente a tanti artisti che si limitano a documentare la sparizione, Dong crea opere che trasformano questa perdita in una fonte di bellezza e riflessione.
Dong Shaw-Hwei ci ricorda che la vera innovazione non consiste nel rifiutare il passato, ma nell’integrarlo in modo creativo in una visione contemporanea. La sua opera dimostra che è possibile creare un’arte profondamente radicata nella tradizione pur essendo radicalmente contemporanea. Ci prova che la vera rivoluzione nell’arte non risiede nel rifiuto spettacolare delle forme stabilite, ma nella loro trasformazione sottile e profonda. La sua opera è la prova vivente che l’arte può ancora essere uno spazio di resistenza e riflessione in un mondo dominato dallo spettacolo e dall’immediatezza. Ci ricorda che la vera radicalità nell’arte non risiede nella provocazione superficiale, ma nella capacità di creare opere che trasformano il nostro modo di vedere e pensare il mondo.
Allora sì, potete continuare a stupirvi davanti alle vostre installazioni video pacchiane e alle vostre performance prive di senso. Ma nel frattempo, Dong Shaw-Hwei continua a creare un’arte che avrà ancora significato molto tempo dopo che le mode attuali saranno state dimenticate. Ci ricorda che l’arte vera non ha bisogno di urlare per essere ascoltata, può parlare dolcemente ma profondamente all’anima umana. La sua opera resta un baluardo di resistenza silenziosa ma potente.
















