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Eddie Martinez, la furia pittorica senza compromessi

Pubblicato il: 3 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Eddie Martinez crea quadri con un’energia contagiosa, rifiutando le semplici dicotomie tra astrazione e figurazione. I suoi colpi di pennello frenetici e le audaci giustapposizioni di colori rivelano un artista che trova la sua poesia nell’ordinario.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Ho qualcosa da dirvi su Eddie Martinez, quel furioso sciamano della pittura che non si scusa mai della sua vitalità frenetica. Mentre voi sorseggiate i vostri pessimi champagne nelle vostre gallerie tutte bianche, lui riversa torrenti di pittura su tele gigantesche con l’urgenza di un pugile, questo sport che ama tanto paragonare alla sua pratica artistica.

Martinez dipinge come se domani non esistesse, come se ogni colpo di pennello fosse un’affermazione esistenziale. Ultimamente la sua fama esplode, rappresentando San Marino alla Biennale di Venezia 2024 con “Nomader”, mostre personali allo Space K di Seoul e al Parrish Art Museum di New York… ma non pensate che la sua pittura si sia placata o domata. No, è rimasta selvaggia, grezza, viscerale.

Guardate i suoi “White Outs”, dove copre parzialmente di bianco delle sagome serigrafate, creando una coreografia fantasma di forme che si dissolvono e riappaiono. Questa tecnica ricorda stranamente la poesia di Mallarmé e i suoi giochi con lo spazio della pagina [1]. Come il poeta simbolista che utilizzava i bianchi per creare silenzi visivi tra le parole, Martinez impiega il bianco come uno spazio di tensione attiva. Non è semplicemente un colore, ma un elemento strutturale che organizza il caos, che crea respirazioni nella sua composizione frenetica.

L’opera di Martinez è profondamente inscritta nella storia della poesia moderna. Quando cancella parzialmente i propri segni, quando lascia emergere forme semi-visibili sotto strati di vernice bianca, rielabora il gesto mallarméano di “dare un senso più puro alle parole della tribù” [2]. Purifica il proprio vocabolario visivo, ma senza mai cedere alla tentazione della cancellazione totale. I fantasmi persistono, le tracce rimangono.

Questo dialogo con Mallarmé non è semplicemente formale. Il poeta scriveva: “Dipinge, non la cosa, ma l’effetto che essa produce” [3]. Non è forse esattamente ciò che fa Martinez quando trasforma i suoi piccoli disegni a pennarello permanente Sharpie in enormi pitture, non per riprodurre fedelmente il disegno, ma per catturarne l’energia, la spontaneità, l’immediatezza? Non dipinge oggetti, ma l’effetto che essi producono sulla sua psiche.

Ma non fatevi ingannare: Martinez non è un intellettuale prezioso. È un maniaco del tennis ossessivo che paragona il suo processo creativo a quello di Roger Federer, la cui grazia in campo nasconde un lavoro instancabile. “Voglio che la pittura sia come un buon colpo sulla mascella, improvviso, energico e non completamente piacevole”, potrebbe dire, parafrasando l’osservazione di Elaine de Kooning su Stuart Davis [4].

Se la poesia di Mallarmé infonde una dimensione strutturale alla sua opera, è il cinema espressionista tedesco che ne rivela la dimensione psicologica. Le ombre deformate del “Cabinet del Dr. Caligari” (1920), dove lo spazio architettonico era volutamente distorto per creare una sensazione di disagio [6], trovano un’eco contemporanea in quelle sagome torturate che Martinez fa emergere dalle sue tele [5], in particolare in “Primary” (2020), dove giustappone forme primarie colorate su uno sfondo bianco immacolato. I contorni neri spessi delimitano zone di rosso, blu e giallo che sembrano galleggiare in uno spazio indefinito. Il modo in cui utilizza il nero e il bianco nei suoi “White Outs” richiama direttamente la fotografia espressionista, dove i contrasti bruschi creavano un’atmosfera di angoscia esistenziale. Le strade tortuose di Holstenwall trovano il loro equivalente contemporaneo nelle linee sinuose di Martinez.

Il cinema espressionista utilizzava l’ombra come metafora visiva dell’inconscio. Allo stesso modo, Martinez proietta sulle sue tele le ombre delle sue ossessioni, quei teschi, quegli uccelli, quelle forme organiche che tornano a infestare le sue composizioni. Come in “Nosferatu” di Murnau, dove l’ombra del vampiro precede la sua presenza fisica, le sagome di Martinez sembrano esistere in un regno tra materialità e immaterialità [7].

Ma Martinez non è solo un pessimista tormentato. C’è una gioia selvaggia nella sua pittura, una celebrazione dell’atto stesso di creare che trascende l’angoscia espressionista. “È tutto quello che voglio davvero fare, dipingere,” dice [8]. Questa affermazione semplice ma potente rivela l’essenziale: Martinez è prima di tutto un pittore che trova la sua salvezza nell’atto stesso di dipingere.

Il rapporto che Martinez instaura con i suoi materiali è quasi erotico. Li accarezza, li violenta, li seduce. Usa “tutto ciò che ha davanti a sé”, coltelli, pennelli, bastoncini di pigmento, bombolette spray [9]. Non gerarchizza i suoi strumenti, non sacralizza una tecnica a scapito di un’altra. Questo atteggiamento irriverente nei confronti della tradizione pittorica è rinfrescante in un mondo dell’arte spesso bloccato dalle sue stesse convenzioni.

Martinez ha dichiarato: “Sono interessato alla velocità, davvero. È ciò che mi eccita di più, qualcosa che si fa senza molta riflessione” [10]. Questa valorizzazione dell’immediatezza, dell’istinto, ci riporta all’espressionismo tedesco, dove l’espressione diretta delle emozioni prevaleva sulla rappresentazione fedele della realtà. I registi espressionisti cercavano di rappresentare lo stato mentale dei loro personaggi attraverso scenografie deformate e giochi di ombre esagerati; Martinez esprime il suo mondo interiore attraverso gesti rapidi e audaci giustapposizioni di colori e forme.

Potreste pensare che questo approccio intuitivo conduca a una pittura caotica, senza struttura. Sbagliate. Martinez è un compositore rigoroso che sa esattamente dove posizionare ogni segno. Come i registi espressionisti che pianificavano meticolosamente le loro distorsioni visive, Martinez orchestra il suo caos con precisione.

Prendete “Emartllc No.5 (Recent Growth)” (2023), dove una “bufly” (termine inventato da suo figlio per dire “butterfly”, farfalla) sul lato sinistro della tela sembra innescare un’esplosione di attività sul lato destro. Questa composizione non è casuale. Racconta una storia di trasformazione, di energia potenziale che diventa cinetica. È una migrazione controllata di forme, una narrazione visiva che non ha bisogno di parole per essere compresa.

La dinamica di questo dipinto ricorda le sequenze oniriche nei film espressionisti, dove la logica narrativa veniva sostituita da una logica emotiva [11]. Le transizioni brusche, le distorsioni di scala, le giustapposizioni inaspettate, tutti questi elementi si ritrovano nell’opera di Martinez, creando un’esperienza visiva che sfida la razionalità ma parla direttamente al nostro subconscio.

Martinez de-costruisce e ricostruisce costantemente il proprio linguaggio visivo. Non esita a distruggere un dipinto per crearne uno nuovo, come ha fatto con “Bad War” del 2009, che ha coperto per creare una nuova opera [12]. Questo approccio a strati successivi crea tele con una profondità storica, strati di decisioni e gesti che si accumulano come le stratificazioni geologiche.

Il critico David Coggins ha scritto che Martinez “rinvigorisce la natura morta… in uno spirito di esplorazione lucida piuttosto che di posa postmoderna” [13]. Questa osservazione va al cuore della questione: nonostante tutti i suoi riferimenti storici, la pittura di Martinez non è mai cinica o calcolata. È profondamente sincera, quasi ingenua nella sua fiducia nel potere trasformativo dell’arte.

Ciò che distingue veramente Martinez è la sua capacità di navigare tra astrazione e figurazione senza mai sembrare forzato o artificiale. I suoi “blockheads”, queste teste quadrate che appaiono periodicamente nella sua opera, non sono motivi che sfrutta per comodità commerciale, ma forme che emergono naturalmente dal suo processo creativo. “Quando si sente giusto, lo faccio, e quando si sente falso, non lo faccio”, spiega [14].

Questa autenticità è rara nel mondo dell’arte contemporanea, dove molti artisti sembrano creare opere in base alle tendenze del mercato. Martinez segue il suo istinto, il suo ritmo interiore. È come quei jazzisti che improvvisano senza rete, mantenendo comunque una struttura sottostante che dà senso alla loro esplorazione.

A proposito di esplorazione, bisogna parlare del suo rapporto con il disegno. Martinez disegna costantemente, ovunque, a casa, in viaggio, su blocchi per appunti, tovaglioli, qualsiasi supporto disponibile. Questi disegni non sono semplici preparazioni per i suoi dipinti, ma una pratica autonoma, un diario visivo che documenta la sua vita quotidiana [15]. Questo è quello che Wim Wenders avrebbe chiamato un “taccuino visivo” facendo riferimento al cinema d’autore [16].

Infatti, la pratica del disegno in Martinez ricorda molto l’approccio dei registi della Nouvelle Vague, che utilizzavano telecamere leggere per catturare momenti spontanei della vita quotidiana. Come Godard che diceva che “il cinema è la verità 24 volte al secondo”, Martinez usa il disegno per cogliere verità immediate, impressioni fugaci [17].

Questa pratica diaristica poi informa i suoi dipinti più elaborati. Nel 2015, ha iniziato a serigrafare i suoi piccoli disegni fatti a Sharpie su grandi tele, per poi svilupparli con la pittura. Questa tecnica gli permette di mantenere la spontaneità del disegno sfruttando le possibilità della grande scala. Chiama questa serie “Love Letters”, perché molti di questi disegni erano fatti su carta intestata che lui e sua moglie, l’artista Sam Moyer, avevano ricevuto dal loro agente immobiliare [18].

C’è qualcosa di profondamente toccante in questa aneddoto. Rivela come l’arte di Martinez sia radicata nella sua vita quotidiana, come trasforma oggetti banali in vettori di espressione artistica. È un’arte che non si prende troppo sul serio, che non si veste di grandilocenza pretenziosa, ma trova la sua poesia nell’ordinario.

Questa qualità democratica, questa accessibilità, è una delle grandi forze di Martinez. La sua arte può essere apprezzata a vari livelli, per la sua pura energia visiva, per i suoi riferimenti storici, per la sua abilità tecnica, o semplicemente per la sua vitalità grezza. Non ti esclude se non hai un dottorato in storia dell’arte, ma non ti sottovaluta nemmeno.

In “Olive Garden” (2024), presentato alla Biennale di Venezia, Martinez gioca con le nostre aspettative. Il titolo evoca deliberatamente la catena di ristoranti americana, ma l’opera stessa è un’esplosione di colori e forme che non ha nulla a che vedere con la cucina italiana commercializzata [19]. È un’occhiata ironica, un modo per dire: non prendete l’arte troppo sul serio, ma non sottovalutatela nemmeno.

Questa tensione tra serietà e ludicità, tra tradizione e innovazione, tra astrazione e figurazione, è al cuore della pratica di Martinez. Rifiuta le dicotomie semplicistiche, le categorizzazioni facili. “Io sono il tipo di pittore che sono, e sono influenzato da ciò che mi influenza, quindi non farò mai un quadrato nero solido e lo chiamerò astrazione. Questa è la mia idea di astrazione,” afferma [20].

Questa dichiarazione d’indipendenza è rinfrescante. Martinez non cerca di inserirsi in una particolare linea artistica, di seguire un programma estetico prestabilito. Prende ciò di cui ha bisogno dalla storia dell’arte, espressionismo astratto, CoBrA, neo-espressionismo, Philip Guston, e crea la propria sintesi.

Ma non interpretate ciò come un eclettismo superficiale. L’arte di Martinez è profondamente coerente nella sua apparente incoerenza. Come dice lui stesso: “Non voglio che nessuno si senta obbligato a pensare qualcosa. Non ho nulla di particolare nell’opera che voglio che le persone vedano, voglio che tutto sia interpretato” [21].

Questa apertura all’interpretazione è un segno di fiducia, non di indifferenza. Martinez crede abbastanza nel potere della sua arte da lasciare che lo spettatore vi trovi il proprio cammino. Crea dipinti che, come grandi poesie o grandi film, resistono a un’interpretazione definitiva pur invitando a un impegno profondo.

Ciò che rende l’opera di Martinez così affascinante è che essa esiste simultaneamente in diverse dimensioni temporali e stilistiche. È al contempo contemporanea e senza tempo, personale e universale, colta e istintiva. Punta al passato senza nostalgia, guarda al futuro senza presunzione.

E lo fa con un’energia contagiosa, una gioia quasi infantile nell’atto stesso di creare. Come dice semplicemente: “Voglio solo fare dei dipinti che mi diano un’erezione” [22]. Questa franchezza disarmante ci ricorda perché amiamo l’arte in primo luogo, non per il suo valore commerciale o il suo prestigio culturale, ma per la sua capacità di commuoverci, di eccitarci, di farci sentire vivi.

Allora, banda di snob, smettete di cercare spiegazioni complesse e lasciatevi semplicemente trasportare dall’onda Martinez. Sentite il ritmo delle sue pennellate, la pulsazione dei suoi colori, l’urgenza delle sue linee. E forse, proprio forse, sentirete quell’eccitazione primordiale, quell’erezione estetica che è la vera misura di una grande arte.


  1. Mallarmé, S. (1897). Un lancio di dadi mai abolirà il caso. Éditions Gallimard.
  2. Mallarmé, S. (1887). Il monumento a Edgar Poe. In “Poesie”.
  3. Lettera di Mallarmé a Henri Cazalis, 30 ottobre 1864.
  4. De Kooning, E. (1957). Recensione di Stuart Davis su ARTnews.
  5. Eisner, L. (1969). Lo schermo demoniaco: le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo. Éditions Ramsay.
  6. Kracauer, S. (1947). Da Caligari a Hitler: una storia psicologica del cinema tedesco. Princeton University Press.
  7. Elsaesser, T. (2000). Il cinema di Weimar e oltre: l’immaginario storico della Germania. Routledge.
  8. Simonini, R. (2012). “Il processo: Eddie Martinez”. The Believer.
  9. Ibid.
  10. Pricco, E. (2019). “Eddie Martinez: servizio veloce”. Juxtapoz Magazine.
  11. Kaes, A. (2009). Shell Shock Cinema: la cultura di Weimar e le ferite della guerra. Princeton University Press.
  12. Simonini, R. (2012). “Il processo: Eddie Martinez”. The Believer.
  13. Coggins, D. citato negli archivi di Mitchell-Innes & Nash.
  14. Pricco, E. (2019). “Eddie Martinez: Fast Serve”. Juxtapoz Magazine.
  15. Chen, P. (2023). “Eddie Martinez si piega ai desideri dei suoi colori”. The New York Times Style Magazine.
  16. Wenders, W. (1991). La logica delle immagini: saggi e conversazioni. Faber & Faber.
  17. Citazione attribuita a Jean-Luc Godard.
  18. Chen, P. (2023). “Eddie Martinez si piega ai desideri dei suoi colori”. The New York Times Style Magazine.
  19. Artforum (2024). “Diari di Venezia: Eddie Martinez al padiglione di San Marino”.
  20. Tiernan, K. (2017). “Eddie Martinez: ‘Voglio solo che le persone interpretino l’opera come vogliono'”. Studio International.
  21. Ibid.
  22. Simonini, R. (2012). “Il processo: Eddie Martinez”. The Believer.
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Riferimento/i

Eddie MARTINEZ (1977)
Nome: Eddie
Cognome: MARTINEZ
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 48 anni (2025)

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