Ascoltatemi bene, banda di snob, il nostro mondo sta crollando, e Edward Burtynsky (nato nel 1955) è qui per mostrarcelo con un’eleganza perversa che fa male agli occhi e all’anima. Questo canadese non è solo un semplice fotografo di paesaggi industriali, è un archeologo del futuro che documenta meticolosamente le cicatrici che infliggiamo al nostro pianeta. Mentre noi sfoggiamo nelle gallerie climatizzate sorseggiando champagne, lui percorre il mondo per catturare l’enormità vertiginosa della nostra hybris collettiva.
Le sue fotografie monumentali ci confrontano con una realtà che Friedrich Nietzsche avrebbe definito un’espressione pura della “volontà di potenza”. Queste immagini sono la testimonianza brutale del nostro desiderio insaziabile di dominare la natura, di piegarla ai nostri bisogni sempre più voraci. Come scriveva il filosofo in “Così parlò Zarathustra”: “Dove c’è vita, c’è volontà di potenza”. E che potenza distruttiva dispieghiamo! Le cave di marmo di Carrara fotografate da Burtynsky non sono più semplicemente siti estrattivi, diventano sotto il suo obiettivo cattedrali rovesciate, monumenti alla nostra arroganza tecnologica che sfida le leggi della natura.
I paesaggi che cattura sono così vasti da diventare astratti, come se il nostro cervello si rifiutasse di accettare la scala della devastazione. Prendete le sue serie sulle miniere a cielo aperto in Australia o le sue vedute aeree dei campi petroliferi: sembrerebbe di vedere tele di Mark Rothko impazzite, composizioni geometriche allucinanti che ci ricordano che anche nella distruzione creiamo motivi di una bellezza inquietante. Ed è proprio lì che risiede il genio perverso di Burtynsky: ci fa ammirare l’estetica della nostra stessa apocalisse.
La filosofia hegeliana trova qui una perfetta illustrazione della sua dialettica del padrone e dello schiavo. Nella nostra frenetica ricerca di dominare la natura, siamo diventati schiavi del nostro stesso sistema di produzione. Guardate le sue immagini delle gigantesche fabbriche cinesi, dove migliaia di operai si muovono come formiche in una coreografia meccanica, questa è l’alienazione moderna che Karl Marx non avrebbe rinnegato. Abbiamo creato sistemi che ci superano e ci inghiottono, e Burtynsky è lì per documentare questa danza macabra con una precisione clinica che fa venire i brividi.
Le sue fotografie dei cantieri di riciclaggio delle navi in Bangladesh non sono solo documenti sull’inquinamento e lo sfruttamento, sono vanità contemporanee che ci ricordano la nostra stessa mortalità e quella della nostra civiltà industriale. Questi giganti d’acciaio smembrati sulle spiagge di Chittagong raccontano la storia della nostra smisuratezza tecnologica meglio di qualsiasi trattato filosofico. I lavoratori che si accaniscono su queste carcasse metalliche somigliano a formiche che smembrano il cadavere di un elefante, metafora perfetta del nostro rapporto squilibrato con la tecnologia.
La tecnica fotografica di Burtynsky è impeccabile, quasi clinica. Usa apparecchi di grande formato e droni per catturare le sue immagini con precisione chirurgica. Ogni dettaglio è nitido, ogni sfumatura di colore è calcolata. Questa perfezione tecnica non è casuale: serve a costringerci a guardare, a guardare davvero ciò che preferiremmo ignorare. È come se Andreas Gursky avesse deciso di documentare la fine del mondo con la precisione di un contabile svizzero, solo che Burtynsky va oltre, più in profondità nel nostro malessere collettivo.
I filosofi della Scuola di Francoforte, in particolare Theodor Adorno, parlavano della “dialettica negativa”, questa capacità dell’arte di rivelare le contraddizioni della nostra società. Burtynsky eccelle in questo esercizio. Le sue immagini sono contemporaneamente belle e terrificanti, seducenti e ripugnanti. Ci attraggono per la loro qualità estetica mentre ci respingono per ciò che rappresentano. È un’impresa intellettuale che ci costringe a confrontarci con la nostra stessa complicità nella distruzione del nostro habitat.
Guardate le sue fotografie delle miniere di potassio in Russia: questi motivi geometrici perfetti scavati nella terra somigliano a mandala buddhisti creati da un dio industriale folle. Oppure le sue immagini delle saline del Gujarat, che trasformano zone di sfruttamento in quadri astratti degni di Paul Klee. È arte concettuale involontaria su scala planetaria, una performance artistica in cui gli attori ignorano di partecipare a un’opera d’arte.
Burtynsky ci mostra la bellezza nell’orrore senza mai lasciarci dimenticare che questa bellezza è il sintomo di una malattia terminale della nostra civiltà. Come scriveva Walter Benjamin nelle sue “Tesi sul concetto di storia”, ogni documento di civiltà è anche un documento di barbarie. Le fotografie di Burtynsky sono proprio questo: documenti che testimoniano simultaneamente il nostro genio creativo e la nostra capacità distruttiva.
Il suo lavoro recente sull’Antropocene, questa nuova era geologica definita dall’impatto umano sul pianeta, è particolarmente incisivo. Non si limita a documentare i cambiamenti, crea una nuova estetica per quest’epoca turbolenta. Le sue immagini delle miniere di litio in Cile o delle vaste fattorie industriali in Spagna sono come affreschi del Rinascimento andati male, celebrazioni involontarie del nostro gigantismo tecnologico.
Prendiamo ad esempio la sua serie sui pozzi petroliferi in California. Questi meccanismi chiamati “nodding donkeys”, cioè “asinelli che annuiscono” come li chiamano gli americani, pompano instancabilmente il petrolio dalle viscere della Terra. Attraverso l’obiettivo di Burtynsky, diventano un esercito di creature meccaniche, assurde e sinistre, impegnate in una danza rituale folle. È teatro dell’assurdo su scala industriale, uno spettacolo che avrebbe deliziato Samuel Beckett.
I rifiuti elettronici in Cina, altro soggetto prediletto di Burtynsky, assumono sotto il suo obiettivo le sembianze di una natura morta high-tech. Queste montagne di circuiti stampati, cavi aggrovigliati e schermi rotti raccontano la storia della nostra ossessione per il progresso tecnologico e del suo costo ambientale. Ogni pixel di queste immagini è un promemoria della nostra incapacità a gestire le conseguenze della nostra sete di innovazione.
Nelle sue fotografie aeree delle miniere di rame, Burtynsky crea paesaggi che sembrano pianeti extraterrestri. Questi giganteschi crateri, queste terrazze concentriche che scendono a spirale nelle viscere della Terra, sono come portali verso un altro mondo. Un mondo che abbiamo creato estraendo, scavando e perforando sempre più in profondità. Queste immagini sono tanto più disturbanti quanto belle, una bellezza che ci fa vergognare di ammirare.
La cosa più interessante nel lavoro di Burtynsky è che trasforma siti industriali in tele astratte senza mai perdere di vista il loro significato politico e ambientale. Le sue fotografie dei tailings (residui minerari) in Ontario sono un perfetto esempio di questo approccio. Questi laghi tossici dai colori surreali, arancio acceso, verde acido, blu elettrico, assomigliano a esperimenti di color field painting. Ma ogni tonalità è il risultato di un’inquinamento specifico, ogni sfumatura racconta una storia di contaminazione.
Il lavoro di Burtynsky sull’acqua è particolarmente toccante. Le sue immagini delle mega-dighe in Cina, in particolare la diga delle Tre Gole, mostrano l’incredibile scala della nostra interferenza con i sistemi naturali. Queste strutture colossali che trattengono masse d’acqua capaci di modificare la rotazione della Terra sono presentate come monumenti alla nostra smisuratezza. Ma sono anche presagi inquietanti della nostra vulnerabilità di fronte alle forze che pretendiamo di dominare.
Le serie dedicate alle cave di marmo di Carrara meritano la nostra attenzione. Burtynsky vi è tornato venticinque anni dopo le sue prime riprese, armato questa volta di tecnologie digitali avanzate. Le immagini che ne ha riportato sono stupefacenti. Queste montagne squarciate, questi blocchi geometrici ritagliati nella roccia, raccontano una storia di estrazione che risale all’Impero romano. Ma sotto l’occhio di Burtynsky diventano anche una meditazione sul tempo geologico e la nostra ossessione a disturbarlo.
Il sale è un altro tema ricorrente nella sua opera. Le sue fotografie delle saline in India trasformano queste zone di sfruttamento in composizioni astratte che ricordano le opere di Piet Mondrian. Le linee geometriche, i rettangoli di colore, i motivi ripetitivi creano una tensione visiva tra la bellezza formale e la realtà ambientale che rappresentano. È un perfetto esempio della capacità di Burtynsky di trasformare siti industriali in opere d’arte contemplative.
Ma non illudetevi: dietro questa bellezza formale si nasconde sempre un messaggio di gravità assoluta. Le immagini di Burtynsky dei cantieri di demolizione navale in Bangladesh sono tra le più inquietanti della sua opera. Questi giganti di acciaio arenati, smembrati a mano da operai in condizioni pericolose, sono come balene spiaggiate dell’era industriale. Il loro smembramento metodico è una metafora perfetta del nostro rapporto con il mondo: creiamo mostri che non sappiamo distruggere in modo pulito.
La più ironica di tutte è che probabilmente queste fotografie diventeranno gli ultimi testimoni della nostra civiltà industriale. Saranno i nostri geroglifici moderni, raccontando la storia di una specie che ha confuso progresso e distruzione. Gli archeologi del futuro che scopriranno queste immagini capiranno il nostro paradosso? Come abbiamo potuto essere contemporaneamente così consapevoli e così inconsapevoli delle conseguenze delle nostre azioni?
Lo stesso Burtynsky resta stranamente distaccato nei suoi commenti. Si presenta come un semplice testimone, un cronista dell’Antropocene. Ma la sua opera è tutt’altro che neutrale. Ogni inquadratura, ogni scelta di punto di vista è un atto di accusa silenzioso. Ci mostra il nostro mondo com’è diventato, senza giudizi espliciti ma con una precisione implacabile che non lascia spazio al negazionismo.
Gli ultimi progetti di Burtynsky esplorano nuove tecnologie, in particolare la realtà aumentata, per farci sperimentare in modo diverso l’impatto della nostra presenza sulla Terra. Forse qui risiede l’ultima ironia del suo lavoro: utilizzare gli strumenti della modernità per documentarne gli eccessi. Ma non è forse proprio ciò di cui abbiamo bisogno? Uno specchio high-tech per contemplare la nostra stessa follia?
L’opera di Burtynsky è un memento mori per l’era industriale, un promemoria che tutta la nostra “potenza” non è che un’illusione che lascerà cicatrici permanenti sulla superficie della Terra. Le sue immagini sono belle, sì, ma di una bellezza che ci accusa. Sono il testamento fotografico di una civiltà che si è presa per un dio e che scopre, forse troppo tardi, i limiti della sua smisuratezza.
















