Ascoltatemi bene, banda di snob. Elizabeth Peyton (nata nel 1965) incarna tutto ciò che amo e detesto nell’arte contemporanea, ed è proprio per questo che merita la nostra attenzione. Questa artista americana, con i suoi ritratti al contempo preziosi e disinvolti, ci offre una visione del mondo tanto affascinante quanto irritante, tanto brillante quanto superficiale.
Iniziamo da ciò che salta agli occhi: la sua tecnica pittorica. Questi colpi di pennello fluidi, queste superfici lisce come vetro, ottenute mediante successive mani di gesso meticolosamente levigate fino a raggiungere una finitura quasi a specchio, creano una firma visiva immediatamente riconoscibile. È come se Peyton avesse trovato il modo di dipingere con miele liquido, dando ai suoi soggetti un’aura eterea che oscilla tra malinconia e glamour. Ma non fatevi ingannare: questa apparente semplicità tecnica nasconde una padronanza sofisticata del mezzo.
Ciò che mi colpisce particolarmente è il suo modo di trattare lo sguardo nei suoi ritratti. I suoi soggetti, che siano Kurt Cobain, Frida Kahlo o un amico intimo, distolgono sistematicamente gli occhi dallo spettatore. Questa messa a distanza deliberata evoca il concetto heideggeriano di “ritiro” (Entzug), dove l’essenza stessa dell’essere si rivela paradossalmente nel suo atto di sottrarsi. È proprio in questo gioco di assenza-presenza che Peyton eccelle, trasformando i suoi ritratti in meditazioni visive sulla natura fugace dell’identità contemporanea.
Prendiamo la sua ossessione per la giovinezza e la bellezza. I suoi soggetti sono bloccati in uno stato di grazia perpetua, come farfalle appuntate in una vetrina. Questa fissazione potrebbe sembrare superficiale, e in parte probabilmente lo è, ma rivela anche una profonda ansia di fronte alla temporalità. Walter Benjamin parlava dell’aura come di “l’apparizione di un lontano, per quanto vicino possa essere ciò che la evoca. Con la traccia, ci impadroniamo della cosa; con l’aura è lei che si impadronisce di noi“. I ritratti di Peyton incarnano perfettamente questa tensione: catturano il momento preciso in cui la giovinezza inizia a svanire, la celebrità comincia a declinare, la bellezza a dissolversi.
La sua scelta di soggetti, rockstar, artisti, amici intimi, costituisce un pantheon personale che riflette i gusti di una certa élite culturale newyorkese degli anni ’90. È al contempo la sua forza e il suo limite. Peyton crea quella che Roland Barthes chiamava una “mitologia” contemporanea, trasformando figure popolari in icone senza tempo. Ma a differenza di Andy Warhol, che utilizzava la ripetizione meccanica per svuotare i suoi soggetti della loro sostanza, Peyton infonde nei suoi un’intimità inquietante, quasi voyeuristica.
La tavolozza cromatica di Peyton, questi blu profondi, questi rosa delicati, questi verdi smeraldo, crea un’atmosfera che ricorda i primitivi italiani, pur rimanendo decisamente contemporanea. È come se dipingesse sotto l’influenza di un filtro Instagram prima ancora che esistesse. Questo approccio al colore non è senza ricordare le teorie di Goethe sulla percezione cromatica: ogni tonalità diventa un veicolo di emozione pura.
Il suo trattamento dello spazio pittorico è altrettanto affascinante. Gli sfondi spesso astratti o appena abbozzati creano una tensione con la resa minuziosa dei volti. Questa dicotomia spaziale evoca il concetto deleuziano di “piano di immanenza”, dove figura e sfondo si fondono in una stessa realtà pittorica. I ritratti di Peyton non sono tanto rappresentazioni quanto manifestazioni di un certo modo di essere al mondo.
Ciò che mi colpisce di più è la sua capacità di trasformare fotografie banali in dipinti che trascendono la loro fonte. Sapendo che la riproduzione meccanica può diminuire l’aura di un’opera d’arte, Peyton inverte questo processo: prende immagini mediatiche moltiplicate e restituisce loro un’aura unica attraverso la sua sensibilità pittorica.
Ma parliamo francamente: c’è qualcosa di profondamente irritante nel suo lavoro. Questa fascinazione senza fine per la bellezza giovanile, questa romanticizzazione della cultura pop, questa ossessione per una certa forma di elitismo culturale, tutto ciò potrebbe facilmente scivolare nella preziosità. Eppure, è proprio questa tensione tra superficialità e profondità che rende il suo lavoro così rilevante per la nostra epoca.
La sua pratica solleva domande sulla natura del ritratto contemporaneo. Nell’era dei selfie e dei filtri digitali, cosa significa dipingere un volto? Peyton ci mostra che il ritratto può ancora essere un atto di rivelazione, anche, o forse soprattutto, quando gioca con i codici della cultura popolare e della rappresentazione mediatica.
Peyton trasforma la banalità in trascendenza. I suoi ritratti non sono tanto rappresentazioni di persone quanto manifestazioni di un certo spirito del tempo, catturando lo spirito di un’epoca in cui celebrità, intimità e identità si intrecciano in modo inestricabile. La sua opera è allo stesso tempo uno specchio della nostra fascinazione collettiva per la giovinezza e la bellezza, e una meditazione sottile sulla natura effimera di questi ideali.
E per tutti coloro che pensano che l’arte contemporanea debba necessariamente essere concettuale o politicamente impegnata, dico: guardate di nuovo. In un mondo saturo di immagini, il vero radicalismo risiede forse nella capacità di trasformare il familiare in qualcosa di stranamente bello e inquietante. Elizabeth Peyton ci riesce con una grazia sconcertante, anche se a volte ci irrita. Ed è proprio per questo che merita la nostra attenzione critica.
















