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Emma Webster: Teatro dei paesaggi virtuali

Pubblicato il: 26 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Esposizione

Tempo di lettura: 7 minuti

Emma Webster crea paesaggi che sfidano la nostra percezione. Tra realtà virtuale e pittura tradizionale, crea mondi dove la natura diventa teatro, dove la luce scolpisce lo spazio come in un sogno ad occhi aperti.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Pensate di conoscere il paesaggio contemporaneo? Credete di aver visto tutto? Vi sbagliate di grosso! Emma Webster espone attualmente alla Petzel Gallery di New York con “That Thought Might Think”, un’esplosione visiva che frantuma le nostre certezze e ridefinisce cosa significa dipingere un paesaggio nel XXI secolo.

Webster non è semplicemente una pittrice di paesaggi, è una grande architetta di mondi. Nel suo studio di Los Angeles, questa trentenne britannico-americana non si limita a catturare la natura: la crea da zero. Armata di tecnologie di realtà virtuale, scolpisce ambienti digitali che poi traduce in oli su tela con una virtuosità tecnica che farebbe ingelosire anche i maestri antichi. Il risultato? Visioni panoramiche così destabilizzanti, così deliziosamente perverse nella loro relazione con la realtà che ci fanno dubitare della nostra stessa percezione.

Prendiamo “The Material World” (2025), un’opera monumentale larga più di quattro metri. Alberi dalle forme contorte si ergono come spettri in un crepuscolo dai toni sintetici, mentre in lontananza montagne incredibilmente appuntite sembrano trapassare un cielo che sfida le leggi della fisica. La luce, oh, quella luce!, non proviene dal sole ma da una fonte teatrale, artificiale, come se fossimo di fronte a un set cinematografico piuttosto che alla natura.

È proprio questa tensione tra reale e artificiale che fa vibrare il lavoro di Webster. Lei gioca con il nostro antico desiderio di natura mentre ci ricorda costantemente che la nostra percezione del mondo naturale è irrimediabilmente plasmata dalla cultura, dalla tecnologia e dall’immaginazione. Come scriveva Susan Sontag in “Sulla fotografia”: “La natura offre poche cose che si organizzino in eventi; dobbiamo strutturarla affinché diventi uno spettacolo” [1]. Webster prende questa idea di petto, trasformando la natura in uno spettacolo consapevole della propria teatralità.

Ma aspettate, non credete che il suo lavoro si riduca a semplici effetti digitali trasferiti nella pittura. Sarebbe perdere la profondità filosofica che sostiene il suo percorso. In realtà, Webster si inserisce in una riflessione sull’iperrealtà che Jean Baudrillard avrebbe apprezzato con piacere. I suoi paesaggi sono simulacri che non hanno più referente nel reale, sono “la generazione tramite modelli di un reale senza origine né realtà”, per usare le parole del filosofo francese [2].

Considerate “Era of Eternity” (2025), in cui il cielo si apre letteralmente come un sipario teatrale per rivelare una luce soprannaturale. Quest’opera non è una rappresentazione della natura, è una costruzione che rivela quanto la nostra stessa idea di “natura” sia una fabbricazione culturale. Nella nostra era di catastrofe climatica e ansia ecologica, Webster ci confronta con la scomoda verità che le nostre immagini idilliache della natura sono forse fantasie nostalgiche di un mondo che non è mai realmente esistito.

Eppure, le sue tele ci attirano irresistibilmente. Questi panorami sono ipnotici, facendoci oscillare tra diffidenza intellettuale e abbandono sensoriale. Perché nonostante tutta la loro artificialità consapevole, queste opere toccano qualcosa di profondamente primordiale in noi, un desiderio di immersione in un mondo che supera l’umano, che ci inghiotte nella sua grandezza.

È qui che la dimensione teatrale del lavoro di Webster acquista tutto il suo senso. Come spiega lei stessa: “Il teatro è la prima realtà virtuale” [3]. I suoi paesaggi funzionano come scenografie che invitano lo spettatore a entrare in uno spazio al contempo fisico e mentale, reale e simulato. Non è un caso che Webster abbia lavorato nella progettazione di scenografie prima di dedicarsi alla pittura, comprende visceralmente come lo spazio scenico possa diventare un portale verso altri mondi.

Nella sua pratica, la tecnologia non è un fine a sé stante ma uno strumento che arricchisce un processo fondamentalmente pittorico. Contrariamente ad alcuni artisti digitali che si compiacciono nella perfezione algoritmica, Webster abbraccia le imperfezioni, gli incidenti, le tracce della mano umana. Le sue cinquanta sfumature di verde, verdi freddi, sintetici, volutamente artificiali, creano un lussureggiante labirinto visivo dove l’occhio si perde con piacere.

Ed è forse qui che risiede il vero coraggio del suo lavoro. In un’epoca in cui la tecnologia ci promette esperienze sempre più immersive, in cui i metaversi ci seducono con i loro ambienti digitali “perfetti”, Webster torna ostinatamente alla pittura, quest’arte millenaria, tattile, sensuale, per esplorare le nostre complesse relazioni con il mondo naturale e le sue rappresentazioni.

La critica Susan Sontag ci ricorda che “la realtà è sempre stata interpretata attraverso le immagini che ne diamo” [4]. In questa prospettiva, il lavoro di Webster non è semplicemente una riflessione sulla natura, ma sul nostro modo di percepirla, rappresentarla e desiderarla. I suoi paesaggi sono specchi che non ci rimandano alla natura stessa, ma al nostro sguardo su di essa.

Questo sguardo è oggi irrimediabilmente plasmato dalla tecnologia. Vediamo il mondo attraverso schermi, applicazioni, filtri Instagram che trasformano ogni tramonto in uno spettacolo kitsch. Webster non rifiuta questa mediazione tecnologica, la abbraccia per interrogarla meglio. Come sottolineava Baudrillard, “non si tratta più di imitazione, né di raddoppio, né tantomeno di parodia. Si tratta di una sostituzione del reale con i segni del reale” [5].

In “Griffith”, il fogliame violaceo che incornicia un corso d’acqua illuminato come una scena teatrale ci trasporta in uno spazio dove la natura è al contempo presente e assente. Non è una natura osservata, ma una natura immaginata, sognata, ricostruita a partire da frammenti di memoria, desiderio e ansia. Webster crea ciò che Baudrillard chiamerebbe un “iperreale”, più reale del reale, più seducente anche, perché liberato dai vincoli del possibile.

Eppure, contrariamente alla visione pessimistica di Baudrillard per cui l’iperreale significa la morte del reale, Webster sembra suggerire una convivenza più complessa. I suoi paesaggi non sostituiscono la natura, arricchiscono il nostro dialogo con essa, ampliano la nostra capacità di immaginarla, desiderarla, forse persino proteggerla.

Parlando del suo processo, Webster parla di come costruisce le sue immagini: “Quando lavoro in realtà virtuale, mescolo paesaggi che ho visto o parchi con schizzi. È un ibrido in cui uso elementi di riferimento dal mondo reale, ma molti sono creati a partire da ideali, cose che mi piacerebbe vedere in un paesaggio, o cose che mi sorprenderebbero in un paesaggio” [6]. Questa dichiarazione rivela un’artista profondamente impegnata non nella fuga dalla realtà, ma nella sua espansione poetica.

Perché si tratta proprio di poesia, una poesia visiva che gioca con le nostre aspettative, i nostri ricordi e le nostre proiezioni. Webster ci ricorda che il paesaggio non è mai stato un genere pittorico “innocente”, da Claude Lorrain a Thomas Kinkade, ha sempre veicolato ideali, fantasie, ideologie. La differenza è che lei assume pienamente questa soggettività, questa costruzione.

Ciò che rende il lavoro di Webster così rilevante oggi è la sua capacità di navigare tra diversi mondi, tra il digitale e l’analogico, tra il reale e il virtuale, tra l’osservazione e l’invenzione. In un’epoca in cui la tecnologia ridefinisce costantemente il nostro rapporto con il mondo, ci offre uno spazio di contemplazione dove queste tensioni possono coesistere in modo produttivo.

Sontag ci ricordava che “la stessa percezione di ciò che è reale è stata trasformata dall’abitudine alla rappresentazione fotografica” [7]. Oggi si potrebbe dire che la nostra percezione del reale è trasformata dall’onnipresenza delle simulazioni digitali. Il genio di Webster è farci sentire questa trasformazione non come una perdita, ma come una possibilità, quella di immaginare nuovi mondi, prospettive inedite, modi diversi di relazionarci a ciò che chiamiamo “natura”.

Allora sì, andate a vedere questa mostra. Lasciatevi trasportare da queste visioni allucinanti, questi paesaggi impossibili che sembrano emergere da un sogno febbrile. E mentre ci siete, interrogatevi su ciò che cercate davvero quando contemplate un paesaggio, è la natura stessa, o l’idea che vi fate di essa?

Emma Webster, invece, sembra aver trovato la sua risposta. Ed è luminosa.


  1. Sontag, Susan. Sulla fotografia. Parigi: Christian Bourgois, 2008.
  2. Baudrillard, Jean. Simulacri e simulazione. Parigi: Galilée, 1981.
  3. Webster, Emma. Intervista con Carol Real, Art Summit, 25 marzo 2025.
  4. Sontag, Susan. Sulla fotografia. Parigi: Christian Bourgois, 2008.
  5. Baudrillard, Jean. Simulacri e simulazione. Parigi: Galilée, 1981.
  6. Webster, Emma. Intervista con Carol Real, Art Summit, 25 marzo 2025.
  7. Sontag, Susan. Sulla fotografia. Parigi: Christian Bourgois, 2008.
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Riferimento/i

Emma WEBSTER (1989)
Nome: Emma
Cognome: WEBSTER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 36 anni (2025)

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