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Etel Adnan : La montagna come coscienza

Pubblicato il: 2 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Etel Adnan ha sconvolto le nostre certezze estetiche con la potenza di un terremoto californiano. I suoi dipinti, spesso non più grandi di una copertina di libro, possiedono un’intensità che sfida la loro dimensione modesta. Con la sua spatola, applica colori puri in forme geometriche semplici.

Ascoltatemi bene, banda di snob, perché vi parlerò di un’artista che ha sconvolto le nostre certezze estetiche con la potenza di un terremoto californiano, ma il cui riconoscimento tardivo ci ricorda il nostro stesso cieco collettivo. Etel Adnan, questa donna straordinaria, morta a Parigi nel 2021 a 96 anni, ha vissuto diverse vite simultaneamente, navigando tra culture, lingue e forme di espressione con una libertà che ci fa invidia.

La storia di Adnan è quella di un’esistenza tessuta di fili di esilio e ritorni, tra Beirut, Parigi, Sausalito in California e altrove. Ma ridurre questa artista al suo vagabondare è come voler catturare l’oceano in un bicchiere d’acqua. Nei suoi quadri, nei suoi libri-accordion, nei suoi arazzi, vibra una chiarezza splendida che ha pochi eguali nell’arte contemporanea. Un’energia contenuta che produce, paradossalmente, una sensazione di immensità.

Che vita abbagliante ha vissuto prima che il mondo dell’arte finalmente si degnasse di notarla! Bisognò aspettare la Documenta 13 di Kassel nel 2012 affinché questa ottantenne ricevesse l’attenzione che meritava da decenni. Che vergogna per le nostre istituzioni artistiche occidentali aver ignorato così a lungo questo talento grande! I vostri occhi erano forse ostruiti da tanti pregiudizi, signore e signori curatori?

Ciò che colpisce nell’opera pittorica di Adnan è questa capacità di condensare un mondo in un formato minuscolo. I suoi dipinti, spesso non più grandi di una copertina di libro, possiedono un’intensità che sfida la loro modesta dimensione. Con la spatola, mai il pennello, applica generose velature di colori puri che accosta in forme geometriche semplici. Nessun mescolamento, nessuna esitazione. Solo l’affermazione categorica di una presenza.

L’esperienza fenomenologica del colore

Guardate attentamente i suoi quadri: questi rettangoli di colori vibranti, questi triangoli che evocano montagne, questi dischi solari sospesi in cieli di una profondità abissale… C’è qualcosa che sfugge alla pura astrazione senza mai cadere nella figurazione convenzionale. È in questa tensione che risiede la forza delle opere di Adnan.

“Il colore è l’espressione della volontà di potenza della materia”, diceva lei nel 2023, ispirandosi a Nietzsche [1]. Questa frase riassume perfettamente la sua filosofia estetica. Per Adnan, i colori non sono semplici attributi visivi, ma entità quasi viventi, dotate di una propria potenza. Non rappresentano il mondo; sono il mondo nella sua intensità più fondamentale.

Questa concezione fenomenologica del colore trova le sue radici nella sua formazione filosofica. Studiando alla Sorbona, Adnan ha seguito i corsi di Gaston Bachelard e Étienne Souriau. L’influenza della fenomenologia, corrente filosofica che si interessa al modo in cui i fenomeni appaiono alla coscienza, è evidente nella sua opera. Come scriveva Merleau-Ponty, “la percezione non è una scienza del mondo, non è neppure un atto, una presa di posizione deliberata, è il fondamento sul quale tutti gli atti si distaccano” [2]. I dipinti di Adnan incarnano questa coscienza percettiva allo stato puro.

I suoi rettangoli di colore non sono arbitrari; derivano da una percezione diretta, quasi viscerale, del mondo. Sono meno rappresentazioni che registrazioni di esperienze vissute. Quando dipinge il monte Tamalpais, questa montagna californiana che considerava “la sua migliore amica”, non cerca di riprodurne l’aspetto, ma di catturare la sensazione che provoca, l’effetto che produce sulla coscienza.

È stupefacente constatare come questo approccio filosofico al colore sfidi le nostre aspettative convenzionali. Le tonalità di Adnan possiedono una luminosità interiore che non deve nulla agli effetti di luce o ombra. Ogni colore esiste per sé, nella sua pienezza ontologica. Questa autonomia del colore richiama le riflessioni di Wittgenstein sull’impossibilità di definire i colori se non tramite l’esperienza diretta. Siamo di fronte all’ineffabile, a ciò che non può essere tradotto in parole.

I filosofi hanno a lungo discusso sulla relazione tra percezione e coscienza, ma pochi artisti sono riusciti a materializzare questo interrogativo con tanta chiarezza quanto Adnan. Le sue tele non sono illustrazioni di concetti filosofici; sono atti filosofici in sé, meditazioni visive sulla natura dell’esperienza.

Quando guardi un quadro di Adnan, non ti trovi davanti a un’immagine; sei immerso in un evento percettivo. L’esperienza non è passiva, ti coinvolge completamente. I suoi colori ti catturano, ti obbligano a riconsiderare il tuo stesso rapporto con il visibile. Ti ricordano che vedere non è mai un atto neutro, ma sempre una partecipazione attiva al mondo.

Questa dimensione fenomenologica della sua opera spiega in parte perché i suoi dipinti resistono così bene alla riproduzione. Vederli online o in un libro non basta; bisogna essere in loro presenza per sentirne pienamente l’impatto. La loro modestia di formato crea un’intimità che contraddice l’immensità che evocano, un paradosso che costituisce uno degli aspetti più affascinanti del suo lavoro.

Poesia e memoria: i leporello come mappatura dello spostamento

Se la pittura di Adnan cattura per la sua immediatezza, i suoi leporello (quei libri-accordion ispirati alla tradizione giapponese) ci rivelano un’altra dimensione del suo talento. Queste opere ibride, a metà strada tra il libro e il quadro, tra la scrittura e il disegno, costituiscono una forma di mappatura poetica del movimento.

La poesia è sempre stata al centro del percorso artistico di Adnan. Prima ancora di dedicarsi alla pittura, era già una poetessa e scrittrice riconosciuta, autrice di testi potenti come Sitt Marie Rose o L’Apocalisse araba. Nei suoi leporelli, questi due aspetti della sua creatività convergono in modo sorprendente. La scrittura diventa visiva, e il disegno narrativo.

Jorge Luis Borges, quell’altro grande esploratore dei confini tra le lingue e le culture, scriveva: “Un libro non è un oggetto isolato: è una relazione, è un asse di innumerevoli relazioni” [3]. I leporelli di Adnan incarnano perfettamente questa concezione. Non sono semplici supporti d’espressione, ma spazi di relazione, luoghi dove si intrecciano connessioni tra mondi solitamente separati.

Quando Adnan inserisce poesie arabe nei suoi leporelli, intrecciate con disegni a inchiostro e acquerelli, non si limita a giustapporre due forme di espressione; crea un dialogo tra loro. La scrittura araba, con la sua fluidità calligrafica, diventa essa stessa disegno, mentre i tratti colorati che l’accompagnano acquisiscono una dimensione narrativa.

Ciò che è particolarmente interessante in queste opere è il modo in cui incarnano la memoria culturale. Adnan, che non padroneggiava abbastanza l’arabo per scriverlo fluentemente, trascriveva poesie di altri autori arabi. Questo gesto apparentemente semplice rivela una profonda riflessione sull’identità e sull’appartenenza. Copiando questi testi in una lingua che non possedeva pienamente, riattivava un’eredità culturale pur riconoscendo la sua distanza da essa.

Come ha sottolineato Edward Said nelle sue riflessioni sull’esilio, “la maggior parte delle persone ha coscienza principalmente di una cultura, di un ambiente, di una casa; gli esiliati ne hanno almeno due, e questa pluralità di visione dà origine a una coscienza di dimensioni simultanee” [4]. I leporelli di Adnan materializzano precisamente questa “coscienza di dimensioni simultanee”. Sono oggetti-soglia, opere-confine che rifiutano di appartenere a un solo mondo.

L’atto di dispiegare che implica la lettura di un leporello è in sé significativo. Contrariamente al libro tradizionale, dove il passaggio da una pagina all’altra implica una rottura, il leporello si svolge in un continuum. Questa continuità fisica riflette il modo in cui Adnan concepiva la memoria: non come una raccolta di momenti isolati, ma come un flusso ininterrotto di esperienze che si trasformano reciprocamente.

Adnan paragonava i leporelli a viaggi, a fiumi che si risalgono o si scendono [5]. Questa metafora fluviale è particolarmente illuminante. Un fiume non è mai statico; è in perpetuo movimento, pur mantenendo la sua identità. Allo stesso modo, i leporelli di Adnan catturano il flusso della coscienza, i suoi meandri e le sue correnti, senza mai fissarlo.

La dimensione temporale è inoltre fondamentale in queste opere. A differenza di un quadro, che si può cogliere in un solo sguardo, un leporello impone una lettura sequenziale. C’è un prima e un dopo, uno svolgimento che imita quello del pensiero o del discorso. Questa temporalità intrinseca rende i leporelli oggetti profondamente poetici, nel senso che la poesia è sempre un’esperienza del tempo.

Borges, ancora lui, scriveva che “il tempo è la sostanza di cui sono fatto” [6]. I leporelli di Adnan ci ricordano che la nostra identità non è un’essenza fissa, ma una costruzione temporale, un intreccio complesso di momenti vissuti, ricordi e anticipazioni. Sono oggetti-memoria che conservano non solo contenuti, ma anche ritmi, pause, accelerazioni.

Questa concezione della memoria come processo dinamico piuttosto che come archivio statico è particolarmente rilevante per comprendere l’esperienza diasporica. Per qualcuno come Adnan, la cui identità si è formata attraverso molteplici spostamenti, la memoria non riguarda tanto la fedeltà al passato quanto una negoziazione costante tra diversi mondi culturali.

I leporelli testimoniano questa negoziazione. Sono spazi di traduzione, non nel senso linguistico stretto, ma nel senso più ampio di passaggio tra diversi sistemi di segni e di riferimenti. Ci ricordano che ogni identità è necessariamente traduttiva, che implica un lavoro costante di interpretazione e reinterpretazione.

Ciò che distingue i leporelli di Adnan da semplici esercizi formali è proprio questa dimensione esistenziale. Non sono solo oggetti estetici, ma modi di abitare il mondo, di dargli senso nonostante, o forse grazie, al suo carattere frammentato e multiplo.

La memoria, in Adnan, non è mai nostalgica. Non idealizza un passato perduto, non fantastica un ritorno impossibile. È piuttosto una potenza creativa che consente di riconfigurare costantemente il presente. I suoi leporelli sono atti di resistenza contro l’oblio, ma anche contro la fissazione identitaria.

Nel suo saggio sulla memoria culturale, Aleida Assmann scrive che “ricordare è un atto di semiotizzazione” [7]. I leporelli di Adnan illustrano perfettamente questa idea. Trasformano l’esperienza vissuta in segni, ma segni che preservano qualcosa della vitalità e della contingenza dell’esperienza stessa.

La forza dei leporelli risiede proprio nel loro rifiuto della monumentalizzazione. Contrariamente alle grandi installazioni che spesso dominano l’arte contemporanea, queste opere modeste invitano a una relazione intima, quasi tattile. Non si impongono allo spettatore; invitano a una decifrazione paziente, a una lettura attenta.

Questa qualità tattile è essenziale per comprendere l’approccio di Adnan. In un mondo sempre più dominato dalle immagini digitali e dalla loro riproducibilità infinita, i suoi leporelli affermano l’importanza della materialità, del contatto diretto, della presenza fisica. Ci ricordano che la memoria non è solo cognitiva, ma anche corporea.

Lungi dall’essere semplici curiosità formali, i leporelli di Adnan costituiscono quindi una riflessione profonda sulle questioni di identità, memoria e spostamento. Ci invitano a ripensare questi concetti non più in termini di essenza o origine, ma in termini di processo, traduzione e relazione.

L’etica di una resistenza gioiosa

Il riconoscimento tardivo di Adnan rappresenta molto più di una semplice ingiustizia finalmente riparata; testimonia soprattutto la perseveranza essenziale di alcune voci artistiche che rifiutano di scomparire in un mondo dell’arte spesso amnesico e opportunista. Perché Adnan non ha mai smesso di creare, indifferente alle mode e alle tendenze del mercato. Questa costanza non è ostinazione cieca, ma fedeltà a una visione.

Ciò che affascina nel suo percorso è anche questa capacità di trasformare le ferite della Storia in affermazione vitale. A 96 anni, continuava a dipingere tele piene di energia, come se l’età avesse solo rafforzato la sua intensità creativa.

Quando dichiara nel 2020 che preferirebbe “avere 10 Palestinesi con dottorati piuttosto che 10 Israeliani morti” [8], ci ricorda che il suo impegno politico non è mai scomparso, ma si è trasformato. Dalla rabbia incandescente de L’Apocalisse araba alle meditazioni luminose dei suoi ultimi anni, è lo stesso spirito che anima la sua opera: una ricerca instancabile di verità e bellezza in un mondo lacerato.

Il percorso di Adnan ci insegna una preziosa lezione: la vera arte non è quella che urla più forte, ma quella che persiste con un’integrità inflessibile. In un panorama artistico spesso dominato dallo spettacolare e dall’effimero, le sue piccole tele incandescenti ci ricordano che la grandezza può nascondersi nella apparente modestia.

Non fatevi ingannare: dietro la semplicità apparente dei dipinti di Adnan si cela una complessità vertiginosa, frutto di una vita intera di pensiero ed esperienza. Le sue montagne e i suoi soli non sono semplici motivi decorativi, ma presenze cosmiche, incarnazioni di quell’energia primordiale che lei ha costantemente inseguito nei suoi scritti così come nelle sue pitture.

In fondo, ciò che Etel Adnan ci offre è un’arte che riconcilia ciò che la nostra epoca tende a separare: l’impegno politico e la gioia creativa, la rigorosità intellettuale e la sensualità dei colori, il radicamento culturale e l’apertura al mondo. Un’arte che rifiuta i falsi alternativi e afferma la possibilità di una pienezza.

Allora, banda di snob collezionisti che percorrete le gallerie alla ricerca della prossima sensazione, prendetevi il tempo di fermarvi davanti alle sue opere. Guardate, guardate veramente questi piccoli quadri che contengono universi. E forse capirete che il vero coraggio non consiste nello scioccare, ma nell’affermare ostinatamente la bellezza in un mondo che sembra cospirare contro di essa.


  1. Adler, Laure. “Iniziare con il colore: un’intervista con Etel Adnan.” The Paris Review, 4 ottobre 2023.
  2. Merleau-Ponty, Maurice. Fenomenologia della percezione. Parigi: Gallimard, 1945.
  3. Borges, Jorge Luis. Inchieste. Parigi: Gallimard, 1986.
  4. Said, Edward. Riflessioni sull’esilio e altri saggi. Arles: Actes Sud, 2008.
  5. Coxhead, Gabriel. “Etel Adnan (1925, 2021)”, Apollo Magazine, 15 novembre 2021.
  6. Borges, Jorge Luis. “Una nuova confutazione del tempo”, in Altre inquisizioni. Parigi: Gallimard, 1964.
  7. Assmann, Aleida. Memoria culturale e civiltà occidentale: funzioni, media, archivi. Cambridge: Cambridge University Press, 2011.
  8. Adnan, Etel. Intervista con Charles Bernstein. The Brooklyn Rail, febbraio 2021.
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Riferimento/i

Etel ADNAN (1925-2021)
Nome: Etel
Cognome: ADNAN
Altri nome/i:

  • إيتيل عدنان (Arabo)

Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Libano
  • Francia
  • Stati Uniti

Età: 96 anni (2021)

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