Ascoltatemi bene, banda di snob. Vi parlerò di un’artista che, come un mago malizioso nell’officina della storia dell’arte, trasforma la tradizione del ritratto europeo in uno spettacolo surreale e coinvolgente. Ewa Juszkiewicz, questa prodigio polacca emersa dalle nebbie di Danzica, non si limita a dipingere, ma decostruisce, reinventa e sconvolge le nostre certezze sulla rappresentazione femminile nell’arte.
Nel suo atelier di Varsavia, dove si ammassano parrucche vintage e tessuti preziosi come nei retroscena di un teatro barocco, Juszkiewicz orchestra una rivoluzione pittorica al tempo stesso sottile e radicale. Si appropria dei codici del ritratto classico del XVIII e XIX secolo con una tecnica impeccabile, ma è proprio per sovvertirli. I suoi dipinti sono come caramelle avvelenate, seducenti in superficie, ma portatori di una critica sociale mordace.
Prendiamo un momento per contemplare la sua tecnica. Ogni quadro è un tour de force tecnico che richiede diverse settimane di lavoro meticoloso. Applica la vernice a strati successivi, usando velature come i maestri antichi, creando superfici che catturano la luce con una sensualità quasi indecente. I tessuti sotto il suo pennello diventano vivi, i merletti respirano, le sete scintillanti ci ipnotizzano. È proprio questa virtuosità tecnica a rendere il suo intervento così incisivo, padroneggia perfettamente i codici che sceglie di trasgredire.
Ma qui si rivela il genio di Juszkiewicz: dove dovrebbero trovarsi i volti delle sue soggette femminili, crea assenze spettacolari. Masse di capelli scolpite come topiari allucinati, drappeggi che sembrano aver preso vita, bouquet di fiori che paiono sgorgati spontaneamente dai colletti in pizzo, maschere che nascondono e rivelano simultaneamente. È in questa tensione tra presenza e assenza che risiede tutta la forza del suo lavoro.
Questo gesto artistico radicale ci rimanda direttamente alle riflessioni di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Nel suo saggio fondamentale del 1935, Benjamin si interrogava sulla nozione di aura nell’arte nell’era della riproduzione meccanica. Juszkiewicz, reinterpretando ritratti storici, non si limita a riprodurli, ma infonde loro una nuova aura, creando opere che sono tanto omaggi quanto atti di ribellione. Ci costringe a chiederci: che cosa costituisce l’autenticità di un’opera d’arte? È la sua fedeltà a una tradizione, o la sua capacità di trascendere quella tradizione per creare qualcosa di radicalmente nuovo?
Questa questione dell’autenticità ci porta a un aspetto fondamentale del lavoro di Juszkiewicz: il suo rapporto con la storia dell’arte femminile. Dialoga in particolare con l’opera di Élisabeth Vigée Le Brun, straordinaria ritrattista del XVIII secolo che fu la pittrice ufficiale di Maria Antonietta. Vigée Le Brun riuscì a imporsi in un mondo artistico dominato dagli uomini, creando ritratti che, pur rispettando le convenzioni della sua epoca, riuscivano a infondere ai suoi soggetti una vitalità e una presenza notevoli. Juszkiewicz riprende questo filo conduttore, ma lo tesse in un arazzo decisamente contemporaneo.
Il modo in cui lei manipola gli elementi tradizionali del ritratto aristocratico è particolarmente affascinante. Gli abiti sontuosi, i gioielli scintillanti, le pose eleganti, tutti questi segni di status sociale sono meticolosamente riprodotti, ma il loro significato è completamente sconvolto dall’assenza del volto. È come se lei ci dicesse: “Guardate quanto queste convenzioni sono assurde, quanto questi codici sono arbitrari”. I tessuti che invadono i volti delle sue soggette diventano una potente metafora del modo in cui la società soffoca l’individualità femminile sotto il peso delle aspettative e delle convenzioni.
In questa prima parte dell’analisi, vediamo come Juszkiewicz utilizzi la tradizione pittorica come uno strumento per decostruire le norme sociali. Ma questo è solo l’inizio del suo progetto artistico. Perché al di là della critica sociale, c’è qualcosa di più profondo che si gioca nei suoi dipinti, un’esplorazione della natura stessa dell’identità e della rappresentazione.
La seconda parte della sua opera ci immerge in acque ancora più torbide. Perché se Juszkiewicz padroneggia l’arte della dissimulazione, eccelle anche in quella della rivelazione. Le sue maschere vegetali e tessili non sono semplici ostacoli alla nostra vista, sono inviti a vedere diversamente. Sostituendo i volti con composizioni di fiori, intrecci di capelli o drappeggi complessi, crea quella che definirei un’”estetica dello straripamento”.
Questa nozione di straripamento è centrale nel suo lavoro. Gli elementi che sostituiscono i volti sembrano sempre sul punto di sfuggire a ogni controllo, come se la natura stessa si ribellasse alle costrizioni della rappresentazione classica. Queste esplosioni di materia organica ci richiamano le riflessioni di Georges Bataille sull’informe, quella tendenza della materia a sconfinare nelle categorie che cerchiamo di imporle. Nei ritratti di Juszkiewicz, l’informe prende possesso proprio del luogo dove la tradizione pittorica occidentale colloca la sede dell’identità e della ragione: il volto.
Consideriamo un momento il significato storico di questo gesto. Nella tradizione del ritratto europeo, il volto era il luogo privilegiato dell’espressione dell’individualità e dello status sociale. I ritrattisti del XVIII secolo, in particolare, eccellevano nell’arte di rappresentare i loro soggetti in modo allo stesso tempo lusinghiero e riconoscibile, creando immagini che servivano sia da documenti sociali sia da affermazioni di potere. Cancellando sistematicamente questi volti, Juszkiewicz non si limita a criticare questa tradizione, la reinventa completamente.
Il suo lavoro ci invita a riflettere sulla natura stessa dell’identità femminile nella storia dell’arte. Le donne ritratte nei ritratti storici erano spesso ridotte ad archetipi: la nobildonna virtuosa, la giovane bellezza innocente, la matrona rispettabile. I loro volti, con le espressioni accuratamente composte e i tratti idealizzati, erano meno rappresentazioni di individui che maschere sociali. Sostituendo questi volti con masse di capelli scolpiti o composizioni floreali, Juszkiewicz rende esplicito ciò che era già implicito in questi ritratti: la loro natura profondamente artificiale.
I capelli, in particolare, giocano un ruolo principale nella sua opera. Nella società del XVIII secolo, l’acconciatura era un importante segno sociale, soggetta a codici rigorosi e mode mutevoli. Le donne dell’alta società portavano acconciature elaborate che potevano raggiungere altezze vertiginose, richiedendo ore di preparazione e l’aiuto di numerosi servitori. Trasformando queste acconciature in maschere che letteralmente divorano il volto delle sue soggette, Juszkiewicz trasforma un simbolo di controllo sociale in un’espressione di ribellione anarchica.
Questa trasformazione è particolarmente evidente nelle sue opere dove i capelli sembrano aver acquisito vita propria, contorcersi e intrecciarsi come serpenti medusiani. Queste composizioni ci ricordano che i capelli sono sempre stati un punto di tensione nella rappresentazione del femminile, simbolo allo stesso tempo di seduzione e oggetto di controllo sociale. Liberando i capelli dai loro vincoli storici, Juszkiewicz libera simbolicamente anche le sue soggette dai vincoli sociali che le definivano.
Il modo in cui tratta la moda storica è altrettanto rivelatore. Gli abiti sontuosi, i gioielli, gli accessori, tutti quegli elementi che, nei ritratti originali, servivano ad affermare lo status sociale della soggetta, sono riprodotti con una precisione maniacale. Ma associandoli a volti mascherati o trasformati, ne rivela la natura profondamente teatrale. Questi vestiti non sono più simboli di potere e prestigio, ma costumi in una mascherata sociale.
Il dialogo che Juszkiewicz stabilisce con la storia dell’arte non si limita alla semplice appropriazione. Lei crea quello che definirei un “archeologia critica” del ritratto femminile. Scavando nelle convenzioni del passato, non si limita a esporle allo sguardo contemporaneo, ma le trasforma in qualcosa di radicalmente nuovo. I suoi dipinti sono come testimonianze visive dove passato e presente si sovrappongono e si intrecciano, creando immagini che sono allo stesso tempo familiari e profondamente inquietanti.
Questa perturbazione delle nostre aspettative visive è rafforzata dalla sua impeccabile maestria tecnica. La precisione con cui riproduce gli elementi tradizionali del ritratto, le texture dei tessuti, la brillantezza dei gioielli, la sottigliezza delle carnagioni, rende le sue interventi surreali ancora più sorprendenti. È proprio perché padroneggia perfettamente il linguaggio della pittura tradizionale che può sovvertirlo in modo così efficace.
È interessante vedere come il suo lavoro dialoghi con le preoccupazioni contemporanee restando profondamente radicato nella tradizione pittorica. I suoi ritratti parlano di questioni molto attuali: l’identità di genere, il potere delle immagini, la costruzione sociale del femminile, ma lo fanno attraverso il prisma della storia dell’arte. Questa tensione tra passato e presente, tra tradizione e sovversione, conferisce al suo lavoro una profondità e una risonanza particolari.
Le implicazioni filosofiche del suo lavoro sono considerevoli. Mascherando sistematicamente i volti dei suoi soggetti, Juszkiewicz ci costringe a interrogarci sulla natura stessa dell’identità e della rappresentazione. Che cosa costituisce un ritratto? È la somiglianza fisica, la cattura di una personalità, o qualcosa di più sfuggente? Le sue opere suggeriscono che l’identità stessa è forse meno un’essenza fissa che una serie di maschere che indossiamo e scambiamo.
Questa riflessione sulla natura della maschera ci riporta alla questione del potere e della rappresentazione nell’arte. I ritratti storici che lei reinterpreta erano strumenti di potere sociale, servivano a affermare e perpetuare le gerarchie di classe e di genere. Trasformando queste immagini, Juszkiewicz non si limita a criticarle, le reinventa come spazi di possibilità e trasformazione.
Il suo lavoro ci invita a ripensare non solo il nostro rapporto con la storia dell’arte, ma anche la nostra comprensione del presente. In un mondo saturo di immagini, dove le rappresentazioni del femminile sono più che mai codificate e commercializzate, i suoi ritratti mascherati ci ricordano la natura costruita e contingente di queste rappresentazioni. Ci suggeriscono che dietro ogni immagine “perfetta” si nasconde un’assenza, un vuoto, una possibilità di sovversione.
Mentre contempliamo questi volti assenti, queste maschere vegetali e questi capelli scolpiti, siamo invitati a partecipare a una forma di resistenza visiva. Juszkiewicz ci mostra che è possibile appropriarsi dei codici del passato non per perpetuarli, ma per trasformarli in strumenti di critica e liberazione. La sua opera ci ricorda che l’arte più significativa è spesso quella che sa utilizzare la tradizione come trampolino verso l’innovazione radicale.
















