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Martedì 18 Novembre

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Gongkan : Quando Bangkok incontra New York

Pubblicato il: 1 Novembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Kantapon Metheekul, alias Gongkan, crea dipinti surreali popolati da figure silenziose e portali neri. Il suo lavoro esplora la migrazione interiore, le discriminazioni sociali e l’impossibilità di appartenere. Tra bacini d’acqua e buchi neri, dipinge l’ansia collettiva di una generazione bloccata tra più mondi, più identità, più impossibilità.

Ascoltatemi bene, banda di snob : questo giovane thailandese che ricopre i muri di New York con i suoi buchi neri prima di tornare a trionfare a Bangkok merita che si smetta di ridacchiare per due minuti. Kantapon Metheekul, che firma come Gongkan, non somiglia a nulla di quello che siete abituati a vedere nelle vostre gallerie asettiche. Il suo lavoro odora di sudore, nostalgia, e quella specie di rabbia silenziosa che sale quando ci si ritrova bloccati tra due mondi senza poter scegliere.

Nato nel 1989 a Bangkok, Gongkan ha seguito il percorso classico del bravo studente che finisce nella pubblicità, questa lenta morte dell’anima creativa. Ma, a differenza di molti altri che lì marciscono, lui ha avuto il coraggio di mollare tutto per New York, quella città che macina i sognatori a pacchetti di dodici. Tre anni a lottare, a incollare i suoi adesivi nella metro, a dipingere portali neri sui muri, prima di capire che la vera battaglia si combatteva altrove. Tornato a Bangkok, non ha portato un brillante diploma americano, ma qualcosa di molto più prezioso: una visione.

L’eredità di Dali o la bellezza dell’ansia

Quando Gongkan afferma: “Sono ispirato da Salvador Dali, attraverso il suo uso di colori intensi per evocare un sentimento di introspezione pensierosa; momenti surreali e silenziosi nel tempo che sono al contempo belli da vedere ma carichi di ansie nascoste”, non si limita a citare un’influenza comoda [1]. Stabilisce una filiazione che merita attenzione, perché rivela i meccanismi profondi del suo stesso linguaggio pittorico.

Salvador Dali, quel catalano flamboyant nato nel 1904, ha costruito la sua opera su una tensione simile tra superficie seducente e profondità inquietante. Il maestro spagnolo sviluppò il suo famoso metodo paranoico-critico per attingere dal suo inconscio, creando “fotografie di sogni dipinte a mano” dove oggetti realistici si trovano giustapposti in modo irrazionale [2]. Gongkan segue questa via, ma la riporta all’essenziale: figure umane, cieli graduati e quei buchi neri ossessivi che fungono da portali.

Le palette di colori nei due artisti rivelano una parentela inquietante. Dali usava beige e blu per creare contrasti surreali, paesaggi desertici privi di vita ma affascinanti. Da Gongkan si ritrovano gli stessi gradienti che vanno dal blu scuro al verde chiaro, dal viola profondo al rosa fino al giallo pallido. Questa tecnica dell’aerografo combinata con colpi di pennello crea una dimensione che ricorda i cieli spagnoli di Dali, quelle distese che sembrano allo stesso tempo infinite e claustrofobiche.

Ma dove Dali dipinge il tempo che si scioglie, Gongkan dipinge lo spostamento impossibile. I suoi personaggi non aspettano che gli orologi molli dicano loro che è troppo tardi, saltano nel vuoto. I buchi neri di Gongkan funzionano come gli orologi molli di Dali: simboli di fluidità in un mondo che pretende rigidezza. Solo che, dove il catalano mette in discussione la natura del tempo, il thailandese interroga quella dello spazio, del territorio, dell’appartenenza.

Questa filiazione estetica nasconde una differenza fondamentale di intenzione. Dali cercava di visualizzare il suo inconscio personale, le sue ossessioni erotiche, le sue paure intime. Gongkan, invece, dipinge per tutti coloro che si sentono intrappolati, discriminati, bloccati in un corpo o in una società che non gli si addice. I suoi personaggi senza sorriso, queste figure piatte e grafiche che emergono o scompaiono in portali, incarnano un’angoscia collettiva. L’artista lo dice lui stesso: “Le Teleport Art nasce dalla mia depressione, dalle mie esperienze personali e dai problemi sociali intorno a temi come l’ineguaglianza di genere e i diritti umani”.

Il surrealismo di Gongkan non è quello del gioco gratuito o dello shock estetico. È un surrealismo della sopravvivenza, dove il fantastico diventa l’unica via possibile di fronte a una realtà inaccettabile. I suoi bacini d’acqua che sostituiscono progressivamente i buchi neri nella sua opera recente funzionano come specchi deformanti, superfici riflettenti che non mostrano mai ciò che si vorrebbe vedere. “Quello che vedete è solo la punta dell’iceberg”, avverte. Sotto la superficie rasserenante dei suoi colori pastello si nascondono povertà, corruzione e discriminazione contro la comunità LGBTQ.

Il peso dei Garudhamma

Se Gongkan merita di essere preso sul serio, è anche per la sua capacità di trasformare la critica sociale in immagine senza cadere nel didattismo piatto. La sua opera Gender Equality And Righteousness attacca frontalmente una delle ipocrisie più tenaci del buddhismo: l’ineguaglianza strutturale tra monaci e monache.

Il buddhismo theravāda, religione dominante in Thailandia, impone alle bhikkhuni (monache) regole chiamate “garudhammas”, letteralmente “regole pesanti”, che le pongono in una posizione di inferiorità perpetua rispetto ai monaci [3]. La prima di queste regole stabilisce che una monaca ordinata da cento anni deve alzarsi e salutare con rispetto un monaco ordinato lo stesso giorno. Queste otto regole, la cui autenticità è contestata da molti studiosi che vi vedono aggiunte posteriori al canone originale, sono servite per secoli a scoraggiare l’ordinazione delle donne in Asia.

Gongkan spiega il suo approccio: “Questa opera critica l’ineguaglianza di genere trovata nei principi fondamentali del buddhismo e di altre religioni. L’uguaglianza e la rettitudine sono parti vitali dei diritti umani fondamentali, eppure in molte ideologie religiose esse, sfortunatamente, non sono estese alle donne. Quest’opera ritrae come le donne siano considerate pure ma non raggiungeranno mai i regni superiori del buddhismo a causa del loro sesso”.

Attaccare il buddhismo in Thailandia è come sputare sulla bandiera in piena parata nazionale. Ma Gongkan non fa provocazioni facili. Dipinge, con i suoi colori tenui e le sue forme pulite, contraddizioni che nessuno vuole vedere. L’immagine del Buddha appare nel suo lavoro non come un’icona intoccabile, ma come il testimone silenzioso di un sistema che ha tradito i propri principi di uguaglianza.

La teoria buddhista dei “cinque ostacoli” stabilisce che una donna deve rinascere uomo prima di poter proseguire adeguatamente la Via Ottuplice e raggiungere la perfetta buddhità [4]. Questa dottrina, insegnata per secoli, crea un’inferiorità ontologica della donna. Gongkan non filosofeggia su queste questioni, le dipinge. I suoi bacini d’acqua diventano metafore di questa limitata profondità della percezione umana, dove ciò che si vede in superficie non riflette mai le ingiustizie strutturali che giacciono sotto.

Ciò che rende il suo approccio particolarmente efficace è che rifiuta il manicheismo. Le sue immagini non urlano, sussurrano. I suoi personaggi non protestano, spariscono o appaiono. Questa strategia del silenzio visivo costringe lo spettatore a colmare i vuoti, a interrogarsi sull’assenza del sorriso, a chiedersi dove portano esattamente questi portali che promettono la libertà.

L’artista ancorà la sua critica in un’esperienza vissuta. Originario della comunità Teochew, etnia cinese stabilitasi in Thailandia, conosce intimamente le tensioni tra culture, le aspettative contraddittorie, il peso delle tradizioni. Le sue opere recenti integrano motivi cinesi, quelle ciotole di porcellana blu e bianca che diventano vasche da bagno per i suoi personaggi, creando collisioni visive tra eredità culturali.

La sua serie Introspection spinge questo approccio ancora più lontano, esplorando la psicologia individuale come riflesso dei disfunzionamenti sociali. In un’epoca in cui i problemi di salute mentale esplodono ma restano un tabù, Gongkan osa mostrare la rabbia, il risentimento, la paura, la sospetto. Espone la sua stessa vulnerabilità, questo lato più oscuro della sua mente, creando al contempo uno spazio di riflessione per lo spettatore. Le sue installazioni digitali interattive, le sue indagini psicologiche che accompagnano le mostre, trasformano la galleria in un laboratorio di introspezione collettiva.

La mostra Asynchronous Affinities del 2025 a Hong Kong riassume questo approccio: l’idea di “buona persona, cattivo momento” applicata non solo alle relazioni interpersonali ma ai rapporti con luoghi, culture, società. Gongkan si rappresenta accanto a figure di generi e razze diverse, creando un senso narrativo senza mai fornire abbastanza informazioni per completare la storia. Questa tecnica lascia lo spettatore in uno stato di incertezza produttiva, proprio là dove inizia il pensiero critico.

L’arte dello spostamento verticale

Ecco quindi. Kantapon Metheekul non è né il nuovo Dali né il Banksy asiatico, e per fortuna. Costruisce qualcos’altro: un linguaggio visivo che parla di migrazione interiore, di claustrofobia sociale, di libertà impossibile. I suoi buchi neri e le sue vasche d’acqua non sono espedienti grafici, ma proposte esistenziali. Pone una domanda semplice e terribile: dove andare quando nessun posto è vivibile?

Ciò che rende il suo lavoro necessario è proprio che rifiuta le consolazioni. I suoi colori sono belli, sì, ma questa bellezza non promette nulla. I suoi personaggi trovano portali, ma nessuno sa cosa li attende dall’altro lato. Questa brutalità onesta, avvolta in un’estetica seducente, crea una tensione che rimane a lungo dopo aver lasciato la galleria.

Il mercato lo ha capito, del resto. Quando Tim Cook, CEO di Apple, compra quattro sue tele in un giorno, non è solo perché i colori sono belli. È perché anche i giganti della Silicon Valley sentono confusamente che sono, anche loro, prigionieri di un sistema, alla ricerca di un portale verso un altrove. Il genio di Gongkan è stato trovare una forma che parla simultaneamente ai giovani thailandesi discriminati e ai miliardari californiani in cerca di senso.

Ma attenzione: se il suo lavoro piace, non è perché offre risposte rassicuranti. Al contrario. Ogni tela ricorda che la purezza richiesta dalla religione, dalla società e dalla famiglia è una trappola mortale. Che i regni superiori promessi ai puri sono menzogne per mantenere le gerarchie. Che l’unica salvezza possibile passa per l’accettazione dell’impurità, del miscuglio, dello spostamento costante.

Gongkan dipinge per coloro che hanno capito che il mondo non cambierà abbastanza in fretta, che le strutture sono troppo solide, che le garudhamma saranno ancora lì tra cento anni. Allora offre portali. Non verso un altrove migliore, non è abbastanza ingenuo per questo, ma verso un altrove diverso. E in un mondo che si indurisce, che si chiude, che erige muri ovunque, dipingere buchi diventa un atto di resistenza fondamentale.

Ecco perché questo artista che non sorride mai nelle foto merita più dei vostri sguardi di sbieco. Costruisce, pazientemente, un’opera che documenta la nostra epoca meglio di mille discorsi militanti. Dipinge le nostre impasse con un’eleganza che le rende sopportabili senza renderle accettabili. E se non capite ancora perché conti, forse il problema non è lui. Forse siete voi, bloccati nel vostro stesso buco, incapaci di immaginare che si possa uscirne in altro modo che arrampicandosi.


  1. Citazione di Kantapon Metheekul, intervista con Thanarat Asvasirayothin, Made in Bed, 2021.
  2. Salvador Dali, “Metodo paranoico-critico”, The Art Story.
  3. “Eight Garudhammas”, articolo Wikipedia consultato nell’ottobre 2025.
  4. “Women in Buddhism”, articolo Wikipedia consultato nell’ottobre 2025.
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Riferimento/i

Kantapon METHEEKUL (1989)
Nome: Kantapon
Cognome: METHEEKUL
Altri nome/i:

  • Gongkan

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Thailandia

Età: 36 anni (2025)

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