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Howard Hodgkin: Il pittore del quasi-detto

Pubblicato il: 25 Novembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

Howard Hodgkin costruisce un’opera paradossale dove il colore esplode e la memoria sfugge. Dipingendo su legno delle “situazioni emozionali”, cattura non gli eventi ma il loro eco affettivo. I suoi quadri traboccano dai loro telai come l’emozione che supera i limiti, creando oggetti preziosi che celebrano l’impalpabile.

Ascoltatemi bene, banda di snob, ecco un pittore che ha passato la vita a mentirci con un’onestà disarmante. Howard Hodgkin, quell’inglese nato nel 1932 e scomparso nel 2017, quel baronetto del pennello che raccoglieva onori come altri raccolgono le foglie morte, non ha mai smesso di sostenere di non fare arte astratta. Che audacia. Guardate i suoi quadri: schizzi di turchese, striature d’arancione, masse di verde che traboccano dai telai come una marea indisciplinata. Eppure protestava. No, diceva, dipingo situazioni emozionali. Dipingo la memoria. Come se la memoria fosse mai stata una macchia di vernice su compensato.

Ma proprio qui risiede tutta la perversione del suo progetto. Hodgkin ci ha dato quadri che sono al contempo tutto e niente, che promettono racconti e consegnano solo sensazioni, che portano titoli come Waking up in Naples o In a French Restaurant e non mostrano altro che l’impossibilità di mostrare qualcosa. Ha costruito un’intera opera sul divario tra ciò che può essere detto e ciò che può essere dipinto, tra il ricordo e la sua rappresentazione, tra il desiderio e la sua soddisfazione. Un pittore della mancanza, quindi, travestito da colorista gioioso.

La sua tecnica stessa tradisce questa ossessione del controllo e della perdita. Dipingeva su legno, mai su tela. Perché? Perché, diceva, “il legno risponde” [1]. La tela cederebbe, si deformerebbe, si affloscerebbe sotto il peso dei suoi pentimenti. Perché Hodgkin era un pittore lento, terribilmente lento. Un solo quadro poteva richiedergli anni, con strati successivi di pittura applicata, grattata, coperta, fino a che l’oggetto diventava un accumulo di tempo trascorso. Ogni superficie porta la traccia di questa lotta, di questa ricerca disperata di qualcosa che sfugge sempre.

E poi ci sono questi telai. Hodgkin non si limitava a incorniciare le sue opere: le traboccava, le invadava, le colonizzava. La pittura colava sul telaio, trasformandolo in parte integrante dell’immagine. Alcuni hanno visto in ciò una metafora dell’emozione che trabocca, della passione che non può essere contenuta. Altri, più pragmatici, vi hanno visto un procedimento decorativo, una coccola. Ma questo gesto rivela soprattutto un’angoscia profonda: quella della delimitazione, del confine tra l’opera e il mondo, tra l’interno e l’esterno. Come se cercasse di proteggere le sue immagini da un’intrusione, da uno sguardo che imporrebbe i propri telai.

Perché Howard Hodgkin era un uomo abitato dalla nostalgia e dal segreto. Omosessuale sposato per anni, padre di famiglia prima di osare vivere con il suo compagno Antony Peattie, collezionista di miniature indiane, lettore compulsivo di romanzi gialli di Agatha Christie, conduceva un’esistenza compartimentata, suddivisa. I suoi quadri, presumibilmente autobiografici, non rivelano nulla. O meglio, rivelano l’impossibilità di rivelare. Sono porte chiuse, finestre appannate, imposte semi-chiuse su interni che non si vedranno mai davvero.

La poesia del quasi-detto

Hodgkin era un grande lettore di poesia, ed è in questo rapporto che intratteneva con la letteratura che forse si delinea meglio la natura del suo progetto pittorico. Quando gli veniva chiesto quali poeti frequentasse, rispondeva Stevie Smith, questa inglese anticonvenzionale del XX secolo che scriveva versi di una semplicità apparente, quasi infantile, ma carichi di una malinconia straziante. Il parallelo è illuminante. Stevie Smith, come Hodgkin, praticava un’arte di spogliazione ingannevole, una ingenuità costruita che nascondeva degli abissi. La sua poesia più famosa, quella che evoca qualcuno che si sta annegando ma che si crede stia facendo cenni con la mano, potrebbe servire da epigrafe per tutta l’opera di Hodgkin.

Questa affinità con la poesia non è aneddotica. Struttura profondamente il suo approccio alla pittura. Seamus Heaney, in occasione di una mostra di Hodgkin a Dublino nel 2006, aveva citato Philip Larkin e la sua poesia The Trees, quegli alberi le cui foglie nuove sembrano “qualcosa di quasi detto”. Il quasi-detto: ecco esattamente ciò che Hodgkin cercava di catturare. Non il detto, non il mostrato, ma quel momento tremolante proprio prima dell’articolazione, quel fremito che precede la parola o l’immagine. La memoria, per Hodgkin, non era mai chiara, mai netta. Era nebbia, impressione, colore diffuso. Era il contrario della precisione documentaria.

Ecco perché rifiutava con tanta veemenza che si raccontassero le storie dietro ai suoi quadri. I critici, sempre avidi di narrazioni rassicuranti, volevano sapere: cosa è successo a Napoli quella mattina? Chi era seduto in quel ristorante francese? Hodgkin si sottraeva. Non per vezzo, ma perché sapeva che il racconto avrebbe ucciso la pittura. Che una volta rivelato l’aneddoto, il quadro non sarebbe stato altro che un’illustrazione, una nota a piè di pagina di una vita. Eppure ciò che cercava era precisamente l’opposto: fare del quadro un evento in sé, un’esperienza che non ha bisogno del racconto per esistere.

Questa posizione è profondamente poetica. La poesia, più di qualsiasi altra arte del linguaggio, resiste alla parafrasi. Non si può riassumere una poesia, la si può solo leggere, ancora e ancora, facendo l’esperienza dei suoi ritmi, delle sue sonorità, dei suoi silenzi. I quadri di Hodgkin funzionano allo stesso modo. Non vogliono dire nulla, vogliono essere provati. Il loro senso non è decifrabile, è sensibile. Dire che un quadro rappresenta un amico assente o un tramonto a Bombay non ci insegna nulla su cosa fa il quadro, su come agisce sul nostro sguardo e sul nostro corpo.

I titoli stessi partecipano a questa poetica dell’indirezione. Non descrivono, suggeriscono. Aprono piste che l’immagine né conferma né smentisce. Absent Friends, per esempio, quel quadro del 2000-2001 che dava il titolo a una mostra postuma: alcune ampie pennellate di nero, marrone, turchese. L’assenza è visibile lì? No. Ma il titolo la evoca, e improvvisamente quei colori si caricano di tristezza, di mancanza. Il titolo agisce come un filtro emotivo, colora la nostra percezione senza determinare ciò che vediamo.

Questa pratica del titolo evocativo ma non descrittivo richiama alcuni procedimenti della poesia moderna. Il titolo diventa una soglia, un portico attraverso il quale si entra nell’opera senza sapere esattamente dove si va. Crea un’attesa che non sarà mai del tutto colmata. Ed è proprio in questo incompiuto che risiede la forza del lavoro. Hodgkin dipingeva dalla memoria, ma una memoria frammentaria, lacunosa, incerta. Non cercava di ricostruire il passato ma di catturarne l’affetto, la tonalità emozionale. In questo, il suo lavoro è vicino a quello di Proust, altro grande esploratore della memoria involontaria, di quei momenti in cui il passato riemerge non come racconto coerente ma come sensazione grezza.

Ma contrariamente a Proust che sviluppava frasi infinite per cogliere questi istanti fugaci, Hodgkin comprimava, sintetizzava, riduceva. I suoi quadri sono haiku di colore, epigrammi visivi. Qualche colpo di pennello, e appare e scompare un intero mondo. Questa economia di mezzi, questa capacità di suggerire l’immensità con il minimo, è ancora una lezione di poesia. Il grande poema non è quello che dice tutto, è quello che lascia più spazio al silenzio, a ciò che non può essere detto.

L’architettura del ritiro

L’altra chiave per comprendere Hodgkin si trova nel suo rapporto con lo spazio, con l’architettura, il luogo di creazione. Il suo atelier londinese, situato sul retro della sua casa georgiana a Bloomsbury, è uno spazio straordinario. Ex latteria del XIX secolo, fu trasformato nel 1991 in un santuario interamente bianco. Muri bianchi, pavimento bianco, soffitto di vetro translucido che diffonde una luce uniforme, senza ombre. Uno spazio di quasi trecento metri quadrati svuotato da ogni distrazione, da ogni colore. L’architetto Robert Barnes aveva progettato un tetto utilizzando milioni di tubi di vetro per creare una luminosità costante, qualunque fosse il meteo [2].

Questa assoluta bianchezza non è casuale. Per un pittore famoso per le sue esplosioni cromatiche, la scelta di lavorare in un ambiente così spoglio costituisce un paradosso rivelatore. Hodgkin aveva bisogno di questo vuoto, di questa neutralità, di questa assenza. Diceva che la luce del suo atelier era come una busta. Una busta protettiva, ma anche una busta che contiene, che delimita, che separa l’interno dall’esterno. L’atelier era per lui un luogo di ritiro in senso monastico, uno spazio di solitudine radicale dove poteva confrontarsi con le sue immagini senza mediazioni, senza interferenze.

Questa concezione dell’atelier come spazio sacro, quasi liturgico, dice molto sulla sua pratica. Hodgkin non dipingeva mai con la musica, mai circondato dagli oggetti che pure collezionava con passione. Solo lui, la luce bianca, e il quadro in corso. Questa ascetica era necessaria. Dipingere, per lui, era un atto di concentrazione estrema, una forma di meditazione dolorosa. Passava più tempo seduto a guardare i suoi quadri, aspettando il momento giusto per intervenire, che a dipingere effettivamente. Questa pazienza, questa capacità di non fare nulla, era il cuore del suo processo.

Lo spazio dell’atelier funzionava anche come una camera di isolamento sensoriale. Eliminando ogni stimolo esterno, creando una sorta di vuoto, Hodgkin poteva concentrarsi sulle immagini interiori, quelle che emergevano dalla sua memoria. La bianchezza dell’atelier era lo schermo su cui si proiettavano i suoi ricordi. Era la pagina bianca prima della scrittura, il silenzio prima della musica. Questa bianchezza non era un’assenza ma una potenzialità, un serbatoio infinito di possibili.

C’è qualcosa di profondamente architettonico nel modo in cui Hodgkin costruiva i suoi dipinti. Le cornici, come abbiamo detto, facevano parte integrante dell’opera. Ma al di là di questo gesto, è tutta la sua composizione che deriva da un pensiero architettonico. I suoi quadri creano spazi. Non spazi illusionistici, finestre aperte su un mondo fittizio alla maniera del Rinascimento. No, spazi reali, fisici, tridimensionali. Il legno su cui dipingeva non è un supporto trasparente ma un oggetto, una cosa che ha il suo peso, la sua materialità, la sua presenza.

Questa materialità è essenziale. Hodgkin insisteva sul fatto che i suoi quadri dovessero essere innanzitutto oggetti, cose che esistono fermamente nel mondo. Questa solidità era necessaria perché tutto il resto, la memoria, l’emozione, il senso, era così instabile, così fluido. Il quadro come oggetto era un punto di ancoraggio in un mondo di flussi. Era un’architettura minima, un rifugio contro l’evanescenza del tempo.

Le cornici, sforando, creavano una zona di transizione tra l’immagine e il suo ambiente. Funzionavano come soglie, portali, stipiti di porte. Si pensa all’architettura di John Soane, che Hodgkin ammirava profondamente. Soane, questo visionario neoclassico, maestro degli effetti di luce e degli spazi intrecciati, creava interni in cui ogni stanza si apriva su un’altra, dove gli specchi moltiplicavano le prospettive, dove non si sapeva mai esattamente dove ci si trovasse. Questa complessità spaziale, questa dissoluzione dei confini chiari tra dentro e fuori, tra uno spazio e un altro, trova un’eco nei quadri di Hodgkin.

La mostra delle sue stampe al Pitzhanger Manor di Soane dal 1° ottobre 2025 all’8 marzo 2026 non è un caso. C’era un’affinità profonda tra questi due creatori di spazi. Entrambi lavoravano sull’idea dell’avvolgimento, dell’inquadratura, della messa in scena dell’esperienza visiva. Da Soane, le aperture circolari, le volte, le nicchie creavano inquadrature successive che guidavano lo sguardo. Da Hodgkin, le cornici dipinte, i bordi che strabordano, i piani di colore che si sovrappongono creavano effetti simili di profondità e mistero.

Questa dimensione architettonica del suo lavoro è anche legata alla sua ossessione per gli interni. Hodgkin era un decoratore nato, un creatore di atmosfere. La sua casa a Bloomsbury era famosa per la sua raffinata eccentricità: centinaia di copie dello stesso libro rilegati in verde e rosso per coprire una parete e assorbire il rumore, paralumi fatti di sacchetti di plastica bianchi ed economici per ottenere la luce più diffusa possibile, sedie di tutte le epoche e stili disposte con una cura maniacale. Ogni dettaglio contava, partecipava alla creazione di un ambiente controllato, uno spazio in cui tutto era calcolato.

Questa attenzione ossessiva al decoro, lungi dall’essere superficiale, rivela una preoccupazione profonda: quella del rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, tra il sé e ciò che lo circonda. Gli interni di Hodgkin, che siano dipinti o vissuti, non sono mai neutrali. Sono carichi di memoria, di presenze fantasma, di emozioni residue. Un quadro come Grantchester Road evoca la casa di un amico architetto, ma ciò che si vede non è una rappresentazione fedele. È un’impressione, un’atmosfera, la sensazione di essere in quello spazio a un dato momento. L’architettura diventa affetto.

L’eredità paradossale

Che cosa resta, in fin dei conti, di questa impresa? Oggetti preziosi, certo, che si vendono molto cari e ornano le pareti dei musei. Ma soprattutto, forse, una lezione sull’impossibilità della restituzione. Hodgkin ha passato la sua vita a cercare di dipingere ciò che non può essere dipinto: il tempo che passa, gli amici scomparsi, le emozioni svanite. È fallito, magnificamente. I suoi quadri non catturano nulla, non fissano nulla. Puntano solo a ciò che manca, a ciò che è stato perso.

Il suo amico Patrick Caulfield, visitando la propria retrospettiva, piangeva ripetendo “non abbastanza, non abbastanza” [3]. Hodgkin riportava quest’aneddoto con un’emozione tangibile, perché era anche il suo stesso sentimento. Mai abbastanza. Mai del tutto quello. Sempre una distanza tra l’intenzione e il risultato, tra il ricordo e la sua traduzione pittorica. Questa insoddisfazione cronica, lontano dall’essere una debolezza, era il motore del suo lavoro.

Verso la fine della sua vita, curiosamente, i suoi quadri si sono spogliati. Meno strati, meno materia, più vuoto. Come se, dopo decenni di lotta, avesse capito che meno si dice, più si colpisce nel segno. Che il silenzio può essere più eloquente del discorso. Queste ultime opere, con i loro pochi colpi di pennello su legno nudo, raggiungono una forma di saggezza. Non pretendono più nulla. Si limitano a essere lì, modeste, fragili, commoventi.

La morte lo ha colto nel 2017, a ottantaquattro anni, mentre stava ancora preparando delle mostre. Si immagina che avrebbe continuato indefinitamente se il suo corpo glielo avesse permesso. Non per ambizione ma per necessità. Perché dipingere, per lui, non era una scelta ma una condizione di esistenza. Un modo di abitare il tempo, di far fronte all’inevitabile scomparsa. I suoi quadri sono monumenti all’effimero, architetture per l’impalpabile. Celebrano ciò che fugge tentando di trattenerlo, sapendo che questo tentativo è destinato a fallire. Ed è proprio in questo fallimento accettato che risiede la loro bellezza.


  1. Veery journal, citato in Wikipedia, consultato il 5 novembre 2025 durante la ricerca documentaria.
  2. Robert Barnes, Lettera al Direttore, London Review of Books, Vol. 43 No. 13, 1 luglio 2021.
  3. Charlotte Burns, “Howard Hodgkin: ‘I felt like an outcast in the art world'”, The Guardian, 4 maggio 2016.
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Riferimento/i

Howard HODGKIN (1932-2017)
Nome: Howard
Cognome: HODGKIN
Altri nome/i:

  • Sir Gordon Howard Eliot Hodgkin

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 85 anni (2017)

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