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Jean-Charles Blais : Il poeta dei manifesti strappati

Pubblicato il: 9 Gennaio 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Jean-Charles Blais trasforma da quarant’anni manifesti strappati in opere d’arte impattanti. Le sue sagome senza volto, dipinte su supporti pubblicitari dirottati, interrogano il nostro rapporto con l’immagine e la società dei consumi con un’audacia sempre rinnovata.

Ascoltatemi bene, banda di snob, è tempo di parlare di Jean-Charles Blais, nato nel 1956 a Nantes, un artista che ha saputo trasformare i rifiuti urbani in oro, non l’oro luccicante degli speculatori, ma il vero oro dell’arte che disturba e che dura. Ecco un tipo che, da quarant’anni, fa un dito medio magistrale all’establishment artistico dipingendo su manifesti strappati.

Negli anni 1980, mentre la maggior parte degli artisti si abbandonava a una figurazione libera tanto spensierata quanto una serata karaoke, Blais scavava una solca più profonda, più radicale. I suoi primi giganti dai corpi gonfi, teste minuscole o assenti, sembravano portare il peso del mondo sulle loro spalle smisurate. Questi personaggi grotteschi, questi esseri deformi erano come uno schiaffo in faccia all’arte benpensante. Una risposta tagliente all’umanesimo borghese, come avrebbe osservato Walter Benjamin nelle sue riflessioni sulla riproduzione meccanica dell’arte. Queste figure mostruose, bloccate nello spazio pittorico come sardine nella loro scatola, incarnavano la condizione umana moderna meglio di tutti i trattati filosofici.

Guardate “La Vergogna” del 1983, questo dittico monumentale di 278 x 192 centimetri. Due titani con arti smisurati che sembrano voler fuggire dal loro telaio come prigionieri nella loro cella. I loro gesti maldestri, le loro pose grottesche raccontano meglio il nostro malessere esistenziale di tutte le analisi di Sartre. È teatro dell’assurdo in versione pittorica, un Beckett in due dimensioni. E non venitemi a dire che è “solo” pittura su manifesti strappati. È come dire che Guernica è “solo” pittura su tela.

Questo primo periodo di Blais è uno schiaffo magistrale all’arte contemporanea benpensante. I suoi personaggi dai corpi enormi e dalle teste lillipuziane sono una metafora perfetta della nostra società: corpi gonfi di consumo ma teste rimpicciolite dal pensiero unico. Questo è ciò che Theodor Adorno avrebbe chiamato una “dialettica negativa”, l’arte che rifiuta di riconciliarsi con la realtà che denuncia.

Ma non lasciatevi ingannare, non si trattava di un semplice esercizio di stile o di una provocazione gratuita. Utilizzando manifesti strappati come supporto, Blais compiva un atto radicale di dirottamento artistico. Come scriveva John Berger in “Modi di vedere”, l’immagine pubblicitaria promette un futuro trasformato in oggetto di consumo. Dipingendo su queste promesse strappate, Blais trasformava la menzogna commerciale in verità artistica. Gli accidenti del supporto, i suoi rigonfiamenti, le sue strappi diventavano parte integrante dell’opera, come le cicatrici su un volto raccontano una storia.

Questa scelta del supporto non era casuale. In una società saturata di immagini pubblicitarie, utilizzare quelle stesse immagini come materiale grezzo era un gesto politico tanto quanto estetico. Come avrebbe analizzato Guy Debord, era un modo di ritorcere lo spettacolo contro se stesso. Ogni manifesto strappato, ogni strato di carta lacerata diventava sotto le sue mani un manifesto contro la società di consumo.

Dal 1990, l’artista ci ha offerto un secondo atto altrettanto incisivo. Addio ai bravacci grotteschi, spazio a sagome fantasmatiche, ombre che danzano sulla carta come i prigionieri della caverna di Platone. La stazione della metropolitana Assemblée Nationale a Parigi è diventata il suo terreno di gioco a grandezza naturale. Una frise monumentale dove le sue figure spettrali sembrano dirci: “Guardate, voi che passate frettolosi, ecco cosa diventa l’umanità nell’era della velocità”.

Questa evoluzione non era una rottura ma una metamorfosi necessaria. I corpi massicci si sono assottigliati fino a diventare sagome evanescenti, come se la materialità stessa della pittura si fosse dissolta nell’aria del tempo. È ciò che Maurice Merleau-Ponty avrebbe chiamato “la carne del visibile”, quel momento in cui la forma diventa così pura da sfiorare l’invisibile.

Linda Nochlin avrebbe apprezzato come Blais demolisca sistematicamente i codici della rappresentazione. I suoi personaggi senza volto sfidano il nostro bisogno di identificazione, le nostre aspettative di narrazione. È un’arte che rifiuta di lasciarsi ricondurre a una semplice storia, che resiste alla tentazione del senso unico come un adolescente ribelle alle ingiunzioni genitoriali. Ogni opera è una sfida lanciata allo spettatore: “Allora, credi di potermi capire così facilmente?”

Gli anni ’90 videro quindi Blais esplorare nuovi territori. Si avventurò nella terza dimensione con sculture di busti e teste in “gravità elastica”. Collaborò con sarti, trasformando le sue sagome in modelli per la moda, giocando con l’idea stessa del corpo come costruzione sociale. Queste sperimentazioni non erano divagazioni ma estensioni naturali della sua ricerca sulla figura umana e le sue metamorfosi.

Nella sua serie “su misura” del 1998, spinge ancora più avanti questa esplorazione facendo realizzare le sue opere in tessuto da uno studio di sartoria. Un approccio che avrebbe fatto sorridere Marcel Duchamp, che amava tanto confondere i confini tra arte e artigianato. Queste opere tessili sono come fantasmi delle sue pitture, echi materiali delle sue sagome dipinte.

Dagli anni 2000, Blais si è lanciato nell’avventura digitale con la stessa audacia iconoclasta. Alcuni direbbero che ha tradito le sue origini pittoriche. Io dico che prosegue la sua ricerca con una coerenza notevole. Le sue proiezioni digitali sono per i pixel ciò che i manifesti strappati erano per la carta: un materiale grezzo da trasformare, da trascendere. Come avrebbe sottolineato Rosalind Krauss, esplora le condizioni di possibilità del medium stesso.

Nel 2013, la Pinakothek der Moderne di Monaco presenta “Die digitale Linie”, una mostra che raccoglie le sue opere digitali. Si scoprono forme in movimento, ombre che danzano, figure che si fanno e si disfano come in un sogno elettronico. È Blais che porta la sua ricerca sulla figura fino alla sua ultima dematerializzazione. Friedrich Kittler avrebbe visto qui una perfetta illustrazione della sua teoria dei media: come il digitale trasforma il nostro rapporto con l’immagine e il corpo.

Ma ciò che mi piace di più in Blais è che mantiene una tensione permanente tra astrazione e figurazione, tra presenza e assenza. Le sue sagome recenti, dipinte sul lato anteriore dei manifesti pubblicitari, sono come fantasmi che infestano le rovine della nostra società di consumo. Figure che emergono dagli interstizi tra gli slogan cancellati, creando ciò che potremmo chiamare una politica dell’interstizio. Invece di girare i manifesti pubblicitari come faceva negli anni Ottanta, ora dipinge sulla loro faccia stampata, lasciando trasparire frammenti di testi e immagini commerciali sotto le sue figure nere. È un modo per dire che siamo tutti abitati da quelle immagini, quegli slogan, quelle promesse di felicità commerciale. Ma è anche un modo per trascenderli, per trasformarli in qualcos’altro.

Nel suo studio a Saint-Paul de Vence, dove lavora dagli anni Ottanta, non lontano dalla Fondation Maeght dove sono stato Curatore Invitato, Blais continua a esplorare questo territorio unico che si è creato. Tra le spesse mura di questa vecchia cappella trasformata in studio, prosegue la sua ricerca con energia intatta. Come dice lui stesso: “Sono un artista che non ha idee, né un soggetto per il quadro in mente, né un progetto. La mia pittura è senza intenzione…” Una falsa modestia che nasconde una verità profonda: la vera arte nasce spesso da questa totale disponibilità a ciò che accade.

I critici superficiali diranno che Blais si ripete, che gira intorno alle sue ossessioni. Ma è non capire nulla della natura stessa del suo approccio. Come scriveva Gilles Deleuze, la ripetizione non è la riproduzione dell’identico, ma la produzione della differenza. Ogni nuova opera di Blais è una variazione che arricchisce il suo linguaggio pittorico, che approfondisce la sua ricerca sulla figura umana e le sue metamorfosi.

Le opere di Jean-Charles Blais non sono finestre sul mondo, ma specchi tesi alla nostra società frettolosa, distratta, ossessionata dall’immagine. Ogni figura che emerge da questi strati di manifesti è come una sopravvissuta della nostra cultura dell’usa e getta, una testimone del nostro rapporto complesso con l’immagine e il consumo. Questo è ciò che Jacques Rancière chiamerebbe una “condivisione del sensibile”, una redistribuzione dei rapporti tra il visibile e l’invisibile, il dicibile e l’indicibile.

Blais è esattamente ciò di cui il nostro tempo ha bisogno: un artista che rifiuta le etichette facili, che continua a esplorare, a sperimentare, a sorprenderci. In un mondo dell’arte dominato da strategie di marketing e colpi mediatici, mantiene una rara esigente, un’autenticità che impone rispetto.

Le sue opere sono presenti nelle più grandi collezioni pubbliche del mondo, dal MoMA di New York al Centre Pompidou di Parigi, passando per la Tate Gallery di Londra. Ma ciò che conta davvero è che dopo quattro decadi di creazione, continua a interpellarci, a interrogarci, a disturbarci. La sua arte non è fatta per decorare i salotti dei nuovi ricchi o generare contenuti per i social network. È lì per ricordarci che l’arte può ancora essere un’esperienza che trasforma il nostro sguardo sul mondo.

Allora sì, andate a vedere le sue esposizioni. Confrontatevi con queste figure senza volto che tanto ci somigliano. Lasciatevi destabilizzare da questi corpi frammentati, queste silhouette enigmatiche che infestano i nostri muri come gli spettri della nostra umanità in crisi. E se non vi parla, pazienza per voi. Potete sempre andare ad ammirare le ultime installazioni instagrammabili di moda. Ma non venite a piangere quando fra trent’anni si parlerà ancora di Blais mentre i vostri artisti alla moda saranno da tempo dimenticati.

Perché alla fine, questa è la grandezza di Jean-Charles Blais: aver creato un’arte che sfugge alle mode pur restando profondamente radicata nella sua epoca. Un’arte che ci parla della nostra condizione umana senza mai cadere nel patetico o nella facilità. Un’arte che, come avrebbe detto Roland Barthes, raggiunge quel punto in cui i segni cominciano a sognare.

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Riferimento/i

Jean-Charles BLAIS (1956)
Nome: Jean-Charles
Cognome: BLAIS
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Francia

Età: 69 anni (2025)

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