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Jean-Michel Basquiat : Il bambino terribile dell’arte

Pubblicato il: 18 Novembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Jean-Michel Basquiat ha dissezionato l’America come un anatomista spietato, creando radiografie visive che rivelano le fratture aperte della società contemporanea. I suoi quadri sono pergamene moderne dove si sovrappongono storia, politica e poesia, formando una diagnosi senza indulgenza della nostra civiltà malata.

Ascoltatemi bene, banda di snob! Jean-Michel Basquiat (1960-1988) ha fatto esplodere come una granata a frammentazione l’establishment artistico degli anni ’80, trasformando per sempre la nostra percezione dell’arte contemporanea. Nelle strade di Manhattan, quel ragazzo di Brooklyn ha riversato la sua rabbia creativa, trasformando la città in una tela gigante dove i suoi messaggi criptici firmati SAMO© risuonavano come mantra urbani. Ma non fatevi ingannare: ridurre Basquiat a un semplice writer sarebbe tanto assurdo quanto confondere Duchamp con un idraulico disoccupato.

Ciò che mi interessa prima di tutto in Basquiat è il suo modo di dissezionare anatomica l’America, come se praticasse un’autopsia in diretta della società contemporanea. I suoi quadri sono radiografie spietate che rivelano le fratture profonde di questo paese. Prendete “Defacement” del 1983, dipinto dopo la morte di Michael Stewart, un artista nero ucciso dalla polizia: l’opera non è una semplice denuncia, è una dissezione chirurgica della violenza istituzionale. Le sagome disarticolate, i teschi frantumati e i corpi smembrati che popolano le sue tele non sono solo motivi estetici, sono sintomi di una società malata che Basquiat esamina senza indulgenza.

Michel Foucault avrebbe adorato il modo in cui Basquiat espone i meccanismi del potere attraverso le sue opere. In “Obnoxious Liberals” (1982), l’artista decostruisce con un’ironia mordace le ipocrisie della sinistra benpensante newyorkese. Il quadro funziona come una genealogia foucaultiana del potere culturale, rivelando come l’establishment artistico fagociti e neutralizzi le voci dissidenti. La figura centrale, un colono con il suo cappello da cowboy, simboleggia questa appropriazione culturale che trasforma la rabbia autentica in merce asettica.

Questa capacità di ibridare le referenze fa di Basquiat un artista profondamente postmoderno. Pratica ciò che Fredric Jameson chiama “pastiche”: una giustapposizione di stili ed epoche che crea un nuovo linguaggio. In “Dustheads” (1982), mescola l’espressionismo astratto, l’art brut, la calligrafia giapponese e lo street art per creare un’opera che trascende tutte queste categorie. È un’arte dell’interstizio, che si sviluppa nelle crepe tra i generi stabiliti.

Ma Basquiat non è solo un critico sociale. La sua seconda forza risiede nella capacità di reinventare il linguaggio pittorico. Crea una nuova sintassi visiva dove le parole diventano immagini e le immagini parole. I suoi quadri sono manoscritti stratificati in cui si intrecciano e si scontrano riferimenti storici, citazioni bibliche, formule matematiche e loghi pubblicitari. Questo approccio riecheggia le teorie di Jacques Derrida sulla decostruzione: ogni elemento del quadro è allo stesso tempo significante e significato, creando un vertigine semiotico che destabilizza le nostre certezze.

Prendete “Horn Players” (1983): a prima vista è un omaggio al jazz e a Charlie Parker. Ma guardate più da vicino: i volti dei musicisti sono maschere africane, i loro corpi sono diagrammi anatomici, le note musicali si trasformano in formule chimiche. Basquiat crea una polifonia visiva dove ogni elemento risuona con gli altri, producendo quello che Gilles Deleuze definirebbe un “agencement”, una macchina desiderante che produce senso continuamente.

In “Charles the First” (1982), Basquiat propone una rilettura radicale della storia attraverso il prisma del jazz e della cultura afroamericana. Il quadro giustappone riferimenti al re Carlo I d’Inghilterra e a Charlie Parker, creando un corto circuito storico che rivela le persistenze del colonialismo nella cultura contemporanea. Le corone che fluttuano nello spazio pittorico sono allo stesso tempo simboli di potere reale e segni di una regalità culturale alternativa, quella del bebop e della controcultura nera.

La rabbia di Basquiat contro il razzismo sistemico non ha perso nulla della sua rilevanza. Le sue corone di spine, le sue teste urlanti e i suoi corpi crocifissi risuonano con una attualità bruciante nell’epoca in cui le violenze della polizia continuano a colpire gli Afroamericani. Opere come “Jim Crow” (1986) o “Untitled (Skull)” (1981) anticipano le teorie contemporanee sull’intersezionalità e la persistenza delle strutture coloniali nelle nostre società suppostamente post-razziali.

Emmanuel Levinas parlerebbe qui di “volto”, quella presenza dell’altro che ci interpella eticamente. I ritratti di Basquiat, con i loro occhi sporgenti e le bocche spalancate, ci confrontano con un’alterità radicale che esige una risposta. Non sono rappresentazioni passive ma interpellanze dirette che ci costringono a prendere posizione.

In “The Nile” (1983), Basquiat esplora le complesse connessioni tra l’antico Egitto, la storia della schiavitù e la cultura contemporanea. Il dipinto funziona come una mappa concettuale dove le linee di forza storiche si incrociano e si intrecciano. Gli geroglifici moderni di Basquiat creano un ponte temporale tra le antiche civiltà africane e l’esperienza afroamericana contemporanea.

Walter Benjamin vedeva nella riproduzione meccanica dell’arte la perdita della sua “aura”. Basquiat reinventa questa aura nell’era della cultura di massa. I suoi quadri fotocopiati, le sue serigrafie e le collaborazioni con Warhol non sono copie ma moltiplicatori di significato. Ogni replica aggiunge un nuovo strato di senso, creando quella che Benjamin chiamerebbe una “costellazione” di significati.

L’uso che Basquiat fa dei simboli anatomici, particolarmente in opere come “Untitled (Head)” (1981), rivela una fascinazione per la vulnerabilità del corpo umano. Questi teschi e sistemi nervosi esposti possono essere letti come metafore della condizione nera in America, un corpo sociale sezionato, esposto, eppure sempre vibrante di vita e resistenza.

La morte prematura di Basquiat a 27 anni lo ha reso un’icona tragica, un James Dean dell’arte contemporanea. Ma non lasciamoci accecare dal mito: la sua opera resta di un’attualità fulminante. In un mondo in cui le disuguaglianze si approfondiscono e le tensioni razziali esplodono, i suoi quadri sono più che mai specchi della nostra epoca. Non era un profeta, era un sismografo ultrasensibile che registrava i tremori della nostra civiltà.

Il suo approccio al testo come elemento pittorico in opere come “Per Capita” (1981) anticipa la nostra era dei social media, dove parole e immagini si intrecciano costantemente. Le liste, i diagrammi e le annotazioni che cospargono le sue tele creano una forma di narrazione visiva che risuona stranamente con le nostre timeline digitali attuali.

Oggi, mentre le sue tele vengono strappate a prezzi d’oro, non si può fare a meno di pensare a ciò che Roland Barthes chiamava la “mitologia”, quel processo per cui la società trasforma la storia in natura, neutralizzando il potenziale sovversivo delle opere museificandole. Ma i quadri di Basquiat resistono a questa domesticazione. La loro energia bruta, la violenza poetica e la radicalità politica continuano a scuoterci, costringendoci a guardare in faccia i demoni del nostro tempo.

In “Hollywood Africans” (1983), Basquiat esplora la rappresentazione dei neri nell’industria dell’intrattenimento americana. Il dipinto funziona come una critica acerba del razzismo sistemico di Hollywood, celebrando al contempo la resilienza e la creatività degli artisti afroamericani che sono riusciti a trascendere queste limitazioni.

Perché è proprio questo il genio di Basquiat: aver creato un’arte che sfugge a ogni tentativo di recupero, un’arte che rimane viva e pericolosa nonostante la consacrazione istituzionale. Le sue opere sono bombe a orologeria che continuano ad esplodere nelle nostre coscienze, ricordandoci che l’arte non serve a decorare i muri ma a far tremare le certezze.

Il mercato dell’arte può pure speculare sulle sue tele, i musei possono pure rinchiuderle nelle loro cimase climatizzate, il potere sovversivo di Basquiat resta intatto. Come scriveva Giorgio Agamben, il contemporaneo è colui che, con gli occhi fissi sul suo tempo, ne percepisce non le luci ma l’oscurità. Basquiat era questo contemporaneo per eccellenza, colui che ha saputo vedere nelle tenebre del suo tempo e ce ne ha restituito l’immagine accecante.

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Riferimento/i

Jean-Michel BASQUIAT (1960-1988)
Nome: Jean-Michel
Cognome: BASQUIAT
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 28 anni (1988)

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