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Martedì 18 Novembre

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Jeff Koons : Il trionfo del vuoto scintillante

Pubblicato il: 17 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 6 minuti

Jeff Koons trasforma il banale in straordinario con una fervida quasi religiosa. Le sue sculture monumentali in acciaio lucidato, come “Balloon Dog” venduto per 58,4 milioni di euro, non sono tanto opere d’arte quanto totem del capitalismo tardivo, specchi perfetti della nostra società narcisistica.

Ascoltatemi bene, banda di snob che pensate di sapere tutto sull’arte contemporanea. Oggi parleremo di Jeff Koons (nato nel 1955), quel genio del marketing che si è trasformato in artista, o è il contrario?

Cominciamo con la prima caratteristica della sua opera: la mercificazione assoluta dell’arte. Koons è l’erede spirituale di Warhol, ma più cinico, più calcolatore. Ex trader di Wall Street, ha capito perfettamente che nella nostra società dello spettacolo, come avrebbe detto Guy Debord, non è tanto l’oggetto che conta quanto la sua rappresentazione. E quale rappresentazione migliore di quella del kitsch elevato al rango dell’arte?

Prendete ad esempio “Balloon Dog”. Questa scultura monumentale in acciaio inossidabile lucidato a specchio, venduta per la modica cifra di 58,4 milioni di dollari, non è altro che un gigantesco palloncino di una festa di paese. Ma questo è il genio perverso di Koons: trasformando questo oggetto banale in un’opera d’arte monumentale, non si limita a giocare con i codici dell’arte, li perverte completamente. Walter Benjamin parlava dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Koons, invece, crea un’aura artificiale intorno a oggetti che non ne hanno mai avuta.

La seconda caratteristica del suo lavoro è il suo rapporto ossessivo con la perfezione tecnica. Ogni opera è prodotta con una precisione quasi industriale nei suoi atelier, dove decine di assistenti lavorano come moderni monaci copisti. Questa ricerca della perfezione ricorda gli atelier del Rinascimento, ma mentre un Verrocchio formava i suoi apprendisti per diventare maestri (chiedete a Leonardo da Vinci), Koons trasforma i suoi assistenti in semplici operai esecutori di una visione che nemmeno si degna di materializzare personalmente.

Prendiamo “Rabbit” (1986), venduto per 91,1 milioni di dollari nel 2019, record assoluto per un’opera di un artista vivente, superando di poco il quadro “Portrait of an Artist (Pool with two figures)” di David Hockney. Questa scultura in acciaio inossidabile, riproduzione di un coniglio gonfiabile economico, è diventata l’emblema della sua arte. Perché? Perché incarna perfettamente ciò che Roland Barthes chiamava la “mitologia” moderna: un oggetto quotidiano trasformato in icona, svuotato del suo significato originale per diventare un simbolo puro. Il coniglio di Koons non è più un giocattolo per bambini, è un totem del capitalismo tardivo.

Questa trasformazione alchemica dal banale allo straordinario ci porta alla terza caratteristica della sua opera: il suo rapporto complesso con la cultura popolare. Contrariamente ai suoi predecessori del Pop Art, che utilizzavano la cultura di massa come materia prima per criticarla (pensate a Roy Lichtenstein), Koons la abbraccia senza apparente distanza critica. Non denuncia la società dei consumi, la celebra con una fervida quasi religiosa.

La sua serie “Banality” è particolarmente rivelatrice a questo proposito. Quando crea “Michael Jackson and Bubbles” (1988), una scultura in porcellana dorata che rappresenta la star del pop con il suo scimpanzé, non si limita a documentare un’icona culturale, ma partecipa attivamente alla sua mitificazione. È ciò che Jean Baudrillard avrebbe chiamato un “simulacro”: una copia senza originale, una rappresentazione che diventa più reale di ciò che rappresenta.

La scelta dei materiali da parte di Koons non è mai casuale. L’acciaio inossidabile lucidato a specchio delle sue sculture più celebri crea un effetto di riflessione che obbliga lo spettatore a vedersi nell’opera. Questa interazione narcisistica è perfettamente calcolata: in una società ossessionata dall’immagine di sé, cosa c’è di più seducente di un’opera d’arte che ci restituisce letteralmente il nostro riflesso?

La sua serie “Celebration”, iniziata nel 1994, spinge questa logica al suo parossismo. I “Balloon Dog”, il “Hanging Heart”, il “Diamond”, tutte queste sculture monumentali sono oggetti del desiderio perfettamente calibrati per la nostra epoca di Instagram e selfie. Sono allo stesso tempo immediatamente riconoscibili e abbastanza spettacolari da generare un flusso costante di foto sui social network. Questa è la cosa che Guy Debord non aveva previsto nel suo saggio “La Société du Spectacle”: l’arte che diventa non solo spettacolo, ma anche generatrice di spettacoli secondari all’infinito.

Ma forse è nella sua serie “Antiquity” che Koons rivela meglio il suo genio perverso. Accostando riproduzioni di opere classiche con oggetti contemporanei, non si limita a giocare con la storia dell’arte, la cannibalizza. Quando pone una sfera riflettente blu su una copia perfetta del “Torse du Belvédère”, non rende omaggio all’antichità, la trasforma in un accessorio del suo stesso spettacolo.

Il paradosso di Koons è che è al tempo stesso totalmente sincero e profondamente cinico. Quando afferma di voler “eliminare la colpa e la vergogna” attraverso la sua arte, possiamo credergli. Ma questa missione apparentemente nobile nasconde una realtà più inquietante: eliminando ogni distanza critica, trasformando l’arte in puro intrattenimento, partecipa attivamente alla distruzione di ciò che rende l’esperienza artistica unica.

Il confine tra arte e commercio non esiste più. Ma a differenza di Marcel Duchamp, che utilizzava i ready-made per interrogare la natura stessa dell’arte, Koons utilizza oggetti della vita quotidiana per creare icone della società consumistica. Questo è ciò che Theodor Adorno avrebbe chiamato la perfetta incarnazione dell’industria culturale.

La controversia intorno alla sua opera “Bouquet of Tulips”, donata alla Francia in omaggio alle vittime degli attentati terroristici del 2015, illustra perfettamente le contraddizioni della sua arte. Questa mano gigante che tiene tulipani-palloncino colorati, destinata a evocare la Statua della Libertà, è stata criticata come un gesto cinico di auto-promozione. Ma non è forse proprio questo che Koons fa dall’inizio della sua carriera? Trasformare la tragedia in spettacolo, il lutto in intrattenimento?

Il suo ultimo progetto intitolato “Jeff Koons: Moon Phases”, che prevede l’invio di 125 sculture miniaturizzate sulla Luna, porta questa logica al suo parossismo cosmico. Koons non si limita più a conquistare il mercato dell’arte terrestre, mira letteralmente alle stelle. È ciò che Friedrich Nietzsche avrebbe forse chiamato la volontà di potenza portata al suo estremo paradosso.

La vera domanda forse non è se Koons sia un grande artista, ma capire cosa il suo successo dica della nostra epoca. In un mondo in cui il valore è sempre più disconnesso dalla realtà, dove l’immagine prevale sulla sostanza, dove lo spettacolo è diventato l’unica realtà, Koons non è tanto un artista quanto un sintomo.

Le sue opere sono perfettamente adattate a un’epoca in cui l’arte è diventata un asset finanziario come un altro, dove i musei competono per attrarre le folle con opere “instagrammabili”, dove il confine tra cultura e intrattenimento si è completamente cancellato. In questo senso, Koons è forse l’artista più onesto dei nostri tempi: non pretende di trascendere il sistema, lo incarna perfettamente.

Perché in fondo, cosa ci dice davvero Koons con i suoi conigli gonfiabili giganti, i suoi cani-palloncino monumentali e le sue Venere dalle curve lisce come la plastica? Ci dice che nel nostro mondo postmoderno, la differenza tra high art e low art, tra autentico e fittizio, tra profondo e superficiale non ha più alcun senso. Ed è forse questo il più inquietante: non che Koons sia un ciarlatano, ma che sia lo specchio perfetto della nostra epoca.

Come avrebbe detto Jean-François Lyotard, siamo entrati nell’era della “condizione postmoderna”, dove i grandi racconti che davano senso all’arte sono crollati. Koons non racconta una nuova storia, celebra questa assenza di storia. Le sue opere non significano nulla al di là del loro stesso spettacolo, ed è proprio questo a renderle così perfettamente contemporanee.

In conclusione, Jeff Koons non è né un genio né un impostore, è l’artista perfetto del nostro tempo, colui che ha compreso che in un mondo in cui tutto è merce, la migliore strategia è abbracciare questa condizione piuttosto che combatterla. Le sue opere non sono tanto oggetti d’arte quanto specchi, nel senso proprio e figurato, in cui la nostra società narcisista contempla il proprio riflesso con un misto di fascinazione e orrore.

E voi, banda di snob che guardate dall’alto le sue opere facendo selfie davanti a esse, non siete forse gli spettatori perfetti che ha sempre desiderato? Consumatori di immagini che si credono critici mentre partecipano allo spettacolo? Come direbbe Baudrillard, benvenuti nell’iperrealtà dell’arte contemporanea.

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Riferimento/i

Jeff KOONS (1955)
Nome: Jeff
Cognome: KOONS
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 70 anni (2025)

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