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Jenny Holzer: L’eloquenza terrificante del potere

Pubblicato il: 24 Marzo 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 10 minuti

Jenny Holzer trasforma il linguaggio in presenza fisica che ci confronta e ci scuote. I suoi truismi, i suoi saggi incendiari e le sue proiezioni monumentali rivelano come le parole possano essere tanto tangibili quanto la pietra.

Ascoltatemi bene, banda di snob. È tempo di parlare di Jenny Holzer, quell’artista il cui lavoro rappresenta l’antitesi stessa della nostra cultura visiva ossessionata dall’immagine. Da oltre quattro decenni, ci bombardano di parole, parole che urtano, provocano, si insinuano nelle fessure delle nostre coscienze come schegge di vetro sotto la pelle. Parole che non chiedono semplicemente di essere lette, ma di essere sentite fino alle nostre viscere.

In un mondo artistico che venera l’immagine come una divinità onnipotente, Holzer ha scelto il testo come arma di perturbazione di massa. I suoi truismi, i suoi saggi infiammatori e le sue proiezioni monumentali trasformano il linguaggio in una presenza fisica che ci confronta, scuote e sfida. Lei ha capito, molto prima dei teorici del digitale, che le parole possono essere tangibili come la pietra, luminose come il neon, incisive come un pugno.

Ciò che distingue Holzer da tanti artisti concettuali è che trasforma la freddezza clinica del testo in un’esperienza viscerale. Quando proietta “PROTECT ME FROM WHAT I WANT” (Proteggimi da ciò che desidero) su un edificio, non è semplicemente un messaggio da decifrare intellettualmente, è una supplica esistenziale che risuona nella notte come un urlo primordiale. Quando incide “ABUSE OF POWER COMES AS NO SURPRISE” (L’abuso di potere non è una sorpresa) nel marmo di una panchina pubblica, non si limita a fare una dichiarazione politica, ma iscrive una terribile verità nella permanenza della pietra.

Se si esamina attentamente l’opera di Jenny Holzer attraverso il prisma filosofico, si può scorgere una risonanza profonda con il pensiero di Ludwig Wittgenstein, quel filosofo austriaco che ha rivoluzionato la nostra comprensione del linguaggio nel XX secolo. Nella sua fase tarda, Wittgenstein ha sviluppato il concetto di “giochi linguistici”, sostenendo che il significato delle parole non risiede nel loro riferimento a una realtà oggettiva, ma nel loro uso all’interno di contesti sociali specifici [1]. Questa prospettiva trova un’eco impressionante nella pratica artistica di Holzer, che sposta costantemente le parole dai loro consueti contesti per rivelarne i significati latenti e le implicazioni politiche.

Prendiamo per esempio la serie “Truisms” (1977-1979), in cui Holzer presenta affermazioni apparentemente semplici come “PRIVATE PROPERTY CREATED CRIME” (La proprietà privata ha creato il crimine) o “TORTURE IS BARBARIC” (La tortura è barbara). Estraendole dai discorsi ideologici in cui normalmente operano e collocandole nello spazio pubblico, su manifesti, magliette, panchine o insegne LED, Holzer destabilizza il nostro rapporto abituale con il linguaggio. Come Wittgenstein avrebbe suggerito, espone così le “forme di vita” sottostanti che conferiscono significato a queste affermazioni, rivelando come il linguaggio plasmi la nostra comprensione del mondo sociale e politico.

Wittgenstein scrive nelle sue Ricerche filosofiche che “le parole sono anche azioni” [2], un principio che Holzer mette letteralmente in pratica trasformando il testo in un intervento fisico nello spazio. Installando i suoi LED a scorrimento nel museo Guggenheim o proiettando testi monumentali su edifici pubblici, materializza questa dimensione performativa del linguaggio che Wittgenstein aveva teorizzato. Le sue parole non si limitano a descrivere il mondo, agiscono su di esso, trasformando edifici, piazze pubbliche e gallerie in siti di confronto ideologico.

È particolarmente impressionante il modo in cui Holzer, come Wittgenstein, si interessa ai limiti del linguaggio e a ciò che esso non può esprimere. Nella sua serie “Laments” (1989), creata in risposta alla crisi dell’AIDS, Holzer usa un linguaggio poetico e frammentato che sembra costantemente scontrarsi con l’ineffabile. Questa esplorazione dei confini dell’espressione evoca la famosa proposizione di Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” [3]. Tuttavia, in un gesto che forse sfida questa restrizione, Holzer tenta di dare forma all’indicibile, di materializzare l’assenza e la perdita attraverso sarcofagi di pietra incisi e testi che parlano dal regno dei morti.

La seconda prospettiva attraverso cui possiamo approfondire la nostra comprensione dell’opera di Holzer è quella della psicologia ambientale, disciplina che studia le interazioni tra gli individui e il loro ambiente fisico. Questo approccio ci permette di capire come Holzer manipoli magistralmente la psicologia degli spazi per amplificare l’impatto dei suoi interventi testuali.

Lo psicologo James J. Gibson ha sviluppato il concetto di “affordances” per descrivere le possibilità di azione che un ambiente offre a un individuo [4]. Holzer sembra comprendere intuitivamente questo principio quando devia le affordances convenzionali degli spazi pubblici. Una panchina da parco, generalmente percepita come un invito al riposo, si trasforma sotto il suo trattamento in un luogo di confronto intellettuale quando reca iscrizioni come “IT IS IN YOUR SELF-INTEREST TO FIND A WAY TO BE VERY TENDER” (È nel tuo interesse personale trovare un modo per essere molto tenero). Una facciata di edificio, normalmente un elemento architettonico neutro, si trasforma in una superficie di proiezione per verità sconvolgenti.

Questa manipolazione delle affordances spaziali raggiunge il suo apice nelle installazioni LED di Holzer, in particolare quella creata per il museo Guggenheim nel 1989 e ricreata nel 2024. Installando un display elettronico continuo che serpeggia lungo la spirale architettonica di Frank Lloyd Wright, Holzer sovverte l’esperienza usuale del museo. Lo psicologo ambientale Roger Barker avrebbe definito questo una perturbazione di un “behavior setting” consolidato [5]. Il contesto comportamentale del museo d’arte, che solitamente impone una contemplazione silenziosa e statica, si trasforma in un’esperienza dinamica in cui il visitatore deve fisicamente seguire il movimento del testo, coinvolgendo l’intero corpo nell’atto della lettura.

Più sottile ma altrettanto significativo è il lavoro di Holzer con la luminosità e l’oscurità. Le sue proiezioni notturne sfruttano ciò che gli psicologi chiamano “effetto pupilla”, la nostra tendenza ad essere attratti dalle fonti di luce nell’oscurità [6]. In una strada buia, i suoi testi luminosi catturano irresistibilmente la nostra attenzione, creando un’intimità forzata con messaggi spesso disturbanti. Questa manipolazione delle nostre risposte percettive istintive amplifica notevolmente l’impatto emotivo del suo lavoro.

Particolarmente rivelatrice è l’evoluzione delle installazioni di Holzer verso ambienti immersivi completi, come nelle sue recenti esposizioni al Guggenheim e altrove. Questi spazi avvolgenti sfruttano ciò che lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi chiama lo stato di “flow”, un’immersione totale in un’attività che cattura completamente la nostra attenzione [7]. Creando ambienti dove il testo ci circonda su tutti i lati, lampeggiando, muovendosi e pulsando a ritmi diversi, Holzer induce uno stato di coscienza alterato che bypassa le nostre difese intellettuali abituali, rendendo i suoi messaggi tanto più penetranti.

Nella sua serie “Redaction Paintings” (2005-presente), Holzer gioca con la psicologia della curiosità e della censura. I documenti governativi che riproduce, con le loro sezioni pesantemente censurate, attivano ciò che gli psicologi chiamano “effetto Streisand”, la nostra crescente fascinazione per l’informazione che ci è esplicitamente nascosta [8]. Le zone oscurate diventano così più eloquenti dei testi rivelati, costringendoci a contemplare ciò che il potere sceglie di nascondere.

Ciò che distingue veramente Holzer è la sua capacità di rendere il testo fisicamente presente, di dargli un corpo, una massa, una luminosità, una texture. Trasforma le parole in materia, e questa materialità è assolutamente centrale nella sua pratica. Le panchine di marmo incise con i suoi “Truisms” non sono semplicemente supporti per il testo, ma oggetti che esistono nello spazio, occupano un volume, possiedono un peso. Si può sedervi, toccarle, sentire le lettere incise sotto le dita. Il testo diventa tangibile, acquisisce una presenza fisica che è tanto importante quanto il suo contenuto semantico.

Ciò che è particolarmente interessante è vedere come Holzer abbia saputo adattare la sua pratica all’era digitale mantenendo allo stesso tempo questa ossessione per la materialità del linguaggio. Le sue proiezioni luminose su edifici o paesaggi naturali trasformano l’architettura o la natura in superfici di iscrizione temporanee. I suoi display LED creano fiumi di parole che scorrono nello spazio, si riflettono sulle superfici, colorano l’aria intorno a loro. Anche quando lavora con media immateriali come la luce, Holzer riesce a dare al testo una presenza fisica che ci confronta, ci avvolge, ci immerge.

Questa tensione costante tra materialità e immaterialità, tra permanenza ed effimero, tra pubblico e privato, è ciò che conferisce all’opera di Holzer la sua potenza singolare. Ci ricorda che le parole non sono semplici veicoli trasparenti per idee astratte, sono oggetti nel mondo, cose che agiscono su di noi, che ci influenzano fisicamente, emotivamente, psicologicamente.

Ed è proprio questa dimensione fisica che rende il suo lavoro così disturbante. Quando Holzer proietta “THE BEGINNING OF THE WAR WILL BE SECRET” (L’inizio della guerra sarà segreto) su un monumento pubblico, non è semplicemente una proposta intellettuale da considerare, è una presenza spettrale che infesta il nostro spazio comune, che si infiltra nella nostra coscienza collettiva.

La mostra “Light Line” al Guggenheim (2024) illustra magistralmente questa fusione tra concettuale e materiale. L’edificio stesso diventa un corpo attraversato da flussi di testo che si dispiegano come vene luminose. Le parole non sono più confinate alla pagina o allo schermo, abitano lo spazio architettonico, respirano, vivono. E noi, spettatori, siamo invitati a entrare fisicamente in questo corpo testuale, a immergerci in questo flusso di linguaggio che ci avvolge, ci attraversa, ci trafigge.

E che dire di “Cursed” (2022), quell’opera in cui Holzer ha inciso i tweet di Donald Trump su placche di metallo deformate e corrose? Qui, lei dà una forma tangibile alla tossicità del discorso politico contemporaneo, trasformando gli insulti digitali di un demagogo in oggetti fisici la cui stessa materialità esprime la loro violenza intrinseca. Questi frammenti metallici contorti, queste superfici irregolari e corrose materializzano la deformazione del linguaggio politico, il suo abbassamento, il suo degrado.

In “SLAUGHTERBOTS” (2024), Holzer interroga l’intersezione tra intelligenza artificiale e violenza creando forme geometriche generate dall’IA che presentano inquietanti asimmetrie. Queste opere non sono soltanto commenti sulla tecnologia, sono manifestazioni tangibili dell’inquietante estraneità di questi sistemi, della loro capacità di produrre imprecisione e potenzialmente violenza. La forma estetica pura di queste opere contrasta brutalmente con il loro titolo evocativo, creando una tensione tra bellezza formale e minaccia latente.

In un mondo in cui il linguaggio è sempre più dematerializzato, disperso nel flusso continuo dei social media e delle comunicazioni digitali, Holzer ci ricorda ostinatamente la sua materialità fondamentale. Ci costringe a riconoscere che le parole hanno un peso, una presenza, un impatto. Che possono ferire, infestare, trasformare. Che sono, in definitiva, cose tanto reali quanto i corpi che influenzano.

La critica ha spesso associato Holzer all’arte femminista per il suo interesse verso le questioni di potere e genere. Ma ciò che distingue veramente la sua pratica è la sua capacità di trasformare queste preoccupazioni in esperienze sensoriali totali piuttosto che in semplici dichiarazioni didattiche. Quando evoca la violenza sessuale o la soggettività femminile, non lo fa sotto forma di manifesto astratto, ma attraverso interventi che ci coinvolgono fisicamente, emotivamente, visceralmente.

“Lustmord” (1993-1995), la sua risposta alle violenze sistematiche perpetrate durante la guerra in Bosnia, è forse l’esempio più evidente di questo approccio. Scrivendo testi sulla pelle di persone viventi, usando un inchiostro che evoca il sangue, Holzer trasforma il corpo umano stesso in un sito di iscrizione, confondendo radicalmente i confini tra il testo e la carne, tra la rappresentazione della violenza e la sua incarnazione. Quest’opera non ci permette di mantenere una distanza confortevole, ci coinvolge direttamente nell’orrore che evoca.

Ciò che rende grande Holzer, in definitiva, è la sua capacità di navigare tra diversi registri di esperienza, l’intellettuale e il viscerale, il politico e il poetico, il pubblico e l’intimo, senza mai lasciarsi rinchiudere in una sola dimensione. Le sue opere possono essere lette come interventi politici, esperienze formali, esplorazioni filosofiche, confessioni personali, e sono tutto questo insieme, senza ridursi a nessuna di queste categorie.

In un panorama artistico spesso dominato dallo spettacolare vuoto di senso o dall’intellettualismo arido, Holzer ci ricorda che l’arte più potente è quella che riesce a toccarci sia nel corpo che nella mente, nella nostra coscienza politica e nella nostra intimità emotiva. Ci mostra che è possibile creare un’arte che sia allo stesso tempo concettualmente sofisticata e visceralmente impattante, politicamente impegnata e formalmente rigorosa.

Allora sì, lo affermo senza esitazione: Jenny Holzer è una delle artiste più importanti del nostro tempo, proprio perché ha capito che le parole non sono semplici segni astratti che fluttuano nell’etere concettuale, ma sono oggetti nel mondo, forze in azione, presenze materiali che ci plasmano tanto quanto noi plasmiamo loro. In un mondo saturo di linguaggi vuoti e comunicazioni insignificanti, ci ricorda che le parole hanno un peso, una densità, una gravità. E in questo riconoscimento risiede una vera potenza artistica rivoluzionaria.


  1. Wittgenstein, Ludwig. Ricerche filosofiche. Gallimard, 1961.
  2. Ibid.
  3. Wittgenstein, Ludwig. Tractatus logico-philosophicus. Gallimard, 1993.
  4. Gibson, James J. The Ecological Approach to Visual Perception. Houghton Mifflin, 1979.
  5. Barker, Roger G. Ecological Psychology: Concepts and Methods for Studying the Environment of Human Behavior. Stanford University Press, 1968.
  6. Hess, Eckhard H. “Valutazione pupillometrica”. Research in Psychotherapy, Vol. 3, 1968.
  7. Csikszentmihalyi, Mihaly. Flow: La psicologia dell’esperienza ottimale. Harper & Row, 1990.
  8. Jansen, Bernard J. et al. “L’effetto del divieto di informazione”. Journal of Information Science, Vol. 35, No. 2, 2009.
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Riferimento/i

Jenny HOLZER (1950)
Nome: Jenny
Cognome: HOLZER
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 75 anni (2025)

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