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Jenny Saville: La reinvenzione pittorica del corpo

Pubblicato il: 11 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Jenny Saville rivoluziona la rappresentazione del corpo attraverso le sue tele monumentali. La sua tecnica brutale e sofisticata crea una superficie tattile dove le pennellate violente contrastano con zone di precisione chirurgica, riflettendo la tensione permanente tra materialità grezza e dimensione psicologica.

Ascoltatemi bene, banda di snob che sfilate nelle gallerie con le vostre sciarpe di cachemire e i vostri occhiali architettonici. Vi parlerò di Jenny Saville, nata nel 1970, questa artista britannica che fa esplodere le convenzioni della rappresentazione del corpo con la sottigliezza di un’esplosione nucleare e la precisione di un neurochirurgo.

La carne. Sempre la carne. Sin dalla sua esplosiva comparsa nell’arte contemporanea, Saville si è imposta come la grande sacerdotessa di una nuova forma di pittura figurativa in cui la materia pittorica diventa viscerale quanto la carne stessa. Le sue tele monumentali, spesso alte più di due metri, non sono semplici rappresentazioni di corpi, ma manifestazioni quasi carnali che ti catturano nella loro dimensione fisica. È un’arte che ti prende allo stomaco, letteralmente.

La storia inizia alla Glasgow School of Art, dove la giovane Saville sviluppa già una fascinazione per la rappresentazione del corpo femminile. Una borsa di studio a Cincinnati segna una svolta decisiva. È lì, nelle strade americane, che scopre quei corpi opulenti che diventeranno la sua firma. Osserva, affascinata, queste silhouette che sfidano i canoni estetici tradizionali. Questa esperienza, unita alle sue successive osservazioni nelle sale operatorie di chirurgia plastica, forgia la sua visione artistica unica.

Prendete “Propped” (1992), venduta all’asta per 9,5 milioni di euro nel 2018, un record per un’artista vivente all’epoca. Questa tela enorme presenta un nudo femminile monumentale, con iscrizioni incise al contrario nella pittura. Saville rivisita la tradizione del nudo femminile con una brutalità consapevole che riecheggia le riflessioni di Simone de Beauvoir sul corpo femminile come costruzione sociale. Il corpo non è più oggetto di desiderio, ma soggetto della propria narrazione, segnato dagli stigmi di una società che lo costringe e lo modella. Le iscrizioni, citazioni femministe intenzionalmente rese illeggibili, creano una tensione tra il testo e la carne, tra il discorso sul corpo e la sua realtà fisica.

“Plan” (1993) spinge ancora più avanti questa esplorazione. Su questa tela immensa, un corpo femminile è segnato da linee di contorno, come una mappa topografica della carne. Queste annotazioni cliniche, ispirate ai segni preoperatori della chirurgia estetica, trasformano il corpo in un territorio da conquistare, da modificare. È una critica aspra all’industria della bellezza, ma anche una riflessione profonda sul nostro rapporto con il corpo nell’era della sua riproducibilità tecnica.

In “Closed Contact” (1995-1996), realizzato in collaborazione con il fotografo Glen Luchford, Saville spinge l’esperimento fino a premere il proprio corpo contro una lastra di plexiglass. Il risultato è una serie di immagini in cui la carne, schiacciata e deformata, diventa irriconoscibile. Quest’opera segna una svolta nella sua pratica, introducendo una dimensione performativa che arricchisce la sua pittura.

La tecnica di Saville è tanto brutale quanto sofisticata. Applica la pittura a strati spessi, creando una superficie tattile che invita quasi al tatto. Le sue pennellate larghe e violente contrastano con zone di precisione chirurgica, specialmente nel rendere occhi e bocche. Questa dualità tecnica riflette la tensione permanente nella sua opera tra la materialità grezza del corpo e la sua dimensione psicologica.

“Matrix” (1999) segna un’evoluzione significativa nel suo trattamento del genere. Quest’opera presenta un corpo con attributi sessuali ambigui, confondendo i confini tra maschile e femminile. La figura, monumentale come sempre, occupa lo spazio con una presenza inquietante. Gli organi genitali, posti in primo piano, confrontano direttamente lo spettatore con i propri pregiudizi sull’identità sessuale. È un’opera che anticipa in modo notevole i dibattiti contemporanei sulla fluidità di genere.

“Fulcrum” (1999) rappresenta forse l’apice del suo primo periodo. Questa tela monumentale di quasi cinque metri di larghezza mostra tre corpi femminili intrecciati, creando una montagna di carne che sfida ogni nozione convenzionale di bellezza. La composizione ricorda i gruppi scultorei barocchi, ma trasferisce questa grandiosità in un contesto decisamente contemporaneo. I corpi, nella loro massa imponente, diventano un paesaggio carnale, una nuova forma di sublime che trascende le categorie estetiche tradizionali.

Nella sua evoluzione artistica, Saville si è progressivamente allontanata dalla pura rappresentazione anatomica per esplorare una forma di cubismo carnale. Le sue opere recenti, come la serie “Fate” (2018), sovrappongono più punti di vista di un medesimo corpo, creando composizioni in cui la carne sembra moltiplicarsi nello spazio. Questo approccio richiama le teorie di Maurice Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione, dove il corpo non è più semplicemente un oggetto nello spazio ma il fulcro di tutta l’esperienza vissuta.

La trasgressione in Saville non risiede tanto nei suoi soggetti quanto nel modo in cui li tratta. Lei prende le convenzioni della pittura classica, il nudo, il ritratto, la monumentalità, e le rovescia come un guanto insanguinato. Il suo approccio ricorda la violenza controllata di Francis Bacon, ma laddove Bacon sfigurava i suoi soggetti, Saville li configura in modo diverso, creando una nuova grammatica del corpo.

L’influenza delle sue osservazioni nelle sale operatorie è particolarmente evidente in opere come “Hybrid” (1997). Questa tela presenta un corpo composto da diverse parti, come un patchwork di carne. Non è senza ricordare i tavoli anatomici del Rinascimento, ma con una dimensione contemporanea che evoca le possibilità e le angosce legate alla modificazione corporea. L’opera diventa così un commento sulla nostra epoca, in cui il corpo è sempre più percepito come malleabile, modificabile a volontà.

Il gigantismo delle sue tele non è solo una questione di scala, è una scelta filosofica. Nella tradizione dell’arte occidentale, la monumentalità era riservata ai soggetti nobili, alle scene religiose, alle battaglie storiche. Saville utilizza questo formato per corpi ordinari, spesso segnati dall’imperfezione, creando così una tensione tra la grandezza del formato e la banalità apparente del soggetto. Questo approccio richiama le riflessioni di Walter Benjamin sulla democratizzazione dell’arte, ma invertendo il processo: invece di rendere l’arte accessibile alle masse, lei rende le masse monumentali.

Il suo utilizzo del colore merita un’attenzione particolare. La sua palette, dominata da rosa, rossi e bianchi lattiginosi, evoca la carne viva, pulsante. Ma non esita a introdurre toni più freddi, blu e verdi, che suggeriscono l’ecchimosi, la decomposizione, ricordando che il corpo è anche il luogo della mortalità. Questa tensione cromatica partecipa alla dimensione esistenziale della sua opera.

La maternità è diventata un tema centrale nel suo lavoro recente. Le sue rappresentazioni di madri con i loro figli si inseriscono in una lunga tradizione pittorica, ma ne sovvertono i codici. Là dove la tradizione rappresentava la maternità come un’esperienza idealizzata, Saville ne mostra la dimensione fisica, talvolta brutale. I corpi delle madri e dei figli si fondono gli uni negli altri, creando composizioni che evocano tanto la simbiosi quanto la lotta.

Nelle sue ultime opere, Saville esplora sempre di più il confine tra figurazione e astrazione. I corpi si dissolvono parzialmente in vortici di pittura, come se la materia pittorica stessa si ribellasse al vincolo della forma. Questa evoluzione testimonia una maturazione artistica che non sacrifica nulla della sua forza iniziale.

La sua serie “Ancestors” (2018) segna una svolta significativa. Queste opere incorporano riferimenti espliciti alla storia dell’arte, in particolare al Rinascimento italiano, ma li trasformano radicalmente. Le figure si intrecciano e si sovrappongono, creando testimonianze carnali che confondono i confini tra passato e presente, tra individuale e collettivo.

Il trattamento dello spazio nelle sue opere merita di essere approfondito. Contrariamente alla tradizione del ritratto che spesso colloca il soggetto in un contesto definito, le figure di Saville sembrano fluttuare in uno spazio indeterminato. Questa assenza di contesto spaziale rafforza la loro presenza fisica conferendo loro al contempo una dimensione universale. I corpi diventano archetipi contemporanei, incarnazioni del nostro rapporto complesso con la corporeità.

L’aspetto performativo del suo lavoro non deve essere trascurato. Sebbene Saville sia principalmente conosciuta come pittrice, la sua pratica implica spesso una dimensione fisica importante. Sia nelle collaborazioni fotografiche, sia nel suo modo di lavorare la pittura, impegna il proprio corpo nel processo creativo. Questa dimensione performativa stabilisce un collegamento diretto tra l’atto di dipingere e il soggetto dipinto.

La questione dello sguardo è centrale nella sua opera. Le sue figure spesso ci guardano direttamente, con un’intensità che sfida ogni oggettivazione. Questo sguardo diretto stabilisce una relazione complessa con lo spettatore, mescolando sfida e vulnerabilità. Ci costringe a riconoscere la nostra posizione di voyeur affermando allo stesso tempo l’autonomia del soggetto rappresentato.

Il suo ultimo corpus di opere segna un’evoluzione significativa. I corpi non sono più semplicemente masse di carne, ma diventano spazi di trasformazione e metamorfosi. I confini tra le figure si sfumano, creando ibridi che ricordano le metamorfosi di Ovidio, ma radicati in una brutalità contemporanea. Questa nuova direzione artistica suggerisce una riflessione più ampia sull’identità fluida e sulla natura mutevole del corpo nell’era digitale.

La dimensione politica del suo lavoro, sebbene mai didattica, è indiscutibile. Scegliendo di rappresentare corpi che si discostano dalle norme estetiche dominanti, mostrando la carne in tutta la sua vulnerabilità e potenza, Saville propone una critica implicita agli standard di bellezza e ai sistemi di potere che li impongono. La sua opera può essere letta come un manifesto femminista che non passa attraverso il discorso, ma attraverso la pura presenza fisica.

Il suo contributo alla storia dell’arte è già assicurato. È riuscita a reinventare la pittura figurativa in un’epoca in cui molti la consideravano obsoleta. Fondendo l’eredità della grande pittura con una sensibilità contemporanea, ha creato un linguaggio pittorico unico che parla direttamente della nostra esperienza corporea nel XXI secolo.

Jenny Saville non è semplicemente un’artista che dipinge corpi. È una filosofa della carne che usa la pittura come strumento di indagine. La sua opera ci costringe a confrontarci con la nostra stessa corporalità, i nostri pregiudizi sulla bellezza e il nostro rapporto complesso con il nostro involucro carnale. In un mondo sempre più virtuale, il suo lavoro ci ricorda con un’urgenza viscerale che siamo, prima di tutto, esseri di carne e sangue.

Questa è la vera forza di Saville: non si limita a rappresentare il corpo, lo reinventa. Non dipinge semplicemente la carne, ne fa un manifesto. E voi, piccoli snob con sciarpe di cachemire, è tempo di riconoscere che la vera grandezza dell’arte contemporanea non risiede nei concetti eterei, ma nella sua capacità di farci sentire, fisicamente ed emotivamente, la realtà della nostra condizione umana. Di fronte a una tela di Saville, è impossibile restare nell’astrazione intellettuale: il corpo riconquista i suoi diritti, in tutta la sua splendore e imperfezione.

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Riferimento/i

Jenny SAVILLE (1970)
Nome: Jenny
Cognome: SAVILLE
Genere: Femmina
Nazionalità:

  • Regno Unito

Età: 55 anni (2025)

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