Ascoltatemi bene, banda di snob, lasciatemi parlare di Jesse Mockrin (nata nel 1981 a Silver Spring, Maryland), questa artista che fa tremare le fondazioni della nostra bella storia dell’arte occidentale con una deliziosa insolenza. L’ho vista decostruire i grandi maestri europei con una precisione chirurgica che farebbe impallidire un neurochirurgo sotto cocaina.
Innanzitutto, immergiamoci nella sua riappropriazione sovversiva delle opere classiche. Non è solo un semplice copiaincolla per impressionare, come alcuni artisti contemporanei che si limitano a riciclare la storia dell’arte con la sensibilità di un elefante in un negozio di porcellane. No, Mockrin pratica una vera e propria chirurgia estetica su questi dipinti storici. Li seziona, li frammenta, li ricompone con una maestria tale che perfino Roland Barthes perderebbe il senso della morte dell’autore. I suoi dittici e trittici non sono semplici esercizi di stile, creano rotture temporali che fanno esplodere le nostre certezze sulla rappresentazione del corpo e del genere.
Prendete le sue mani manieriste, quelle dita che sembrano danzare sulla tela come eleganti tentacoli. È Bronzino sotto acido, Rubens che ha fatto un cattivo trip. L’artista spinge l’eleganza fino all’assurdo, fino al punto che la bellezza diventa grottesca. Queste mani impossibili, private delle loro articolazioni, raccontano una storia più profonda sulla nostra ossessione collettiva per la perfezione estetica. È Judith Butler che incontra Jacques Derrida in un hammam barocco.
E parliamo della sua tecnica! I suoi sfondi neri non sono solo vuoti decorativi per far sembrare “profondo”. No, sono spazi teatrali che trasformano ogni frammento in una scena drammatica degna dei migliori drammi barocchi. La sua padronanza tecnica è così precisa che diventa quasi oscena. Tre strati di pittura minimo per ogni carnagione, ossessivamente sfumati fino a rendere la pelle liscia come lo schermo di un iPhone. Il risultato? Figure che oscillano tra l’iperrealismo e l’artificialità più inquietante, come se la Madonna di Raffaello si fosse fusa con un manichino da vetrina.
Mockrin non è qui per cullarci con illusioni sulla grandezza dell’arte occidentale. Prende queste opere canoniche, quei quadri davanti ai quali si sono esaltate generazioni di conservatori, e li trasforma in commenti pungenti sul nostro tempo. Le sue appropriazioni non sono semplici omaggi rispettosi, sono atti di sofisticato pirataggio culturale che rivelano i pregiudizi di genere e le costruzioni sociali nascosti nel nostro patrimonio artistico.
Guardate come tratta la luce nelle sue opere recenti. Non è più il chiaroscuro drammatico dei suoi inizi, ma una luminosità più complessa che gioca con le nostre aspettative. Crea controluce impossibili, ombre che sfidano la logica fisica. È come se Caravaggio avesse avuto accesso a Photoshop e si fosse detto “E perché no?”. Questa manipolazione della luce non è solo un effetto visivo, è una metafora di come continuiamo a manipolare e a ricontestualizzare le immagini storiche nell’era digitale.
Quello che amo particolarmente è il suo modo di affrontare il genere e l’identità. Le sue figure hanno un’androgina inquietante, come se avesse preso i canoni di bellezza maschile e femminile e li avesse passati nel mixer. Il risultato? Essere che sfuggono a ogni facile categorizzazione, che ci costringono a mettere in discussione i nostri stessi pregiudizi di genere. È Giuditta che decapita Oloferne che incontra San Sebastiano in un club intellettuale BDSM.
I suoi riferimenti alla storia dell’arte non sono semplici citazioni pedanti. Quando si appropria di una Venere o di una Lucrezia, non si limita a riprodurre l’immagine, ma la decostruisce per rivelare i meccanismi di potere e desiderio che la sostengono. È come se prendesse il “male gaze” teorizzato da Laura Mulvey e lo rovesciasse contro se stesso con un’eleganza vendicativa.
I suoi ultimi lavori su specchi e vanità sono particolarmente incisivi. Prende questo motivo classico della donna allo specchio, tanto caro ai pittori maschili amanti della “vanità femminile”, e lo trasforma in una riflessione complessa sulla percezione e l’auto-rappresentazione. Queste opere non sono semplici commenti sul narcisismo contemporaneo nell’era dei selfie, rivelano come le strutture di potere e le aspettative sociali continuino a plasmare il nostro rapporto con l’immagine.
La cosa più affascinante è il suo modo di giocare con il tempo. Le sue opere creano cortocircuiti temporali vertiginosi dove il barocco incontra Instagram, dove i santi martiri si affiancano alle star della K-pop. Non è kitsch postmoderno facile, è una riflessione profonda su come le immagini viaggino nel tempo e nello spazio, accumulando e trasformando i loro significati.
I drappeggi nei suoi quadri non sono semplici esercizi di virtuosismo tecnico. Diventano personaggi a pieno titolo, masse di tessuto che inghiottono lo spazio pittorico con una presenza quasi minacciosa. È come se lei prendesse le convenzioni del barocco, dove il drappeggio era un simbolo di ricchezza e potere, e le spingesse all’assurdo, trasformando questi significati di status sociale in commenti critici sulla nostra ossessione per le apparenze.
La sua tecnica è di una precisione quasi maniacale. Le carnagioni delle sue figure sono lavorate con tale meticolosità da diventare inquietanti, troppo perfette per essere reali, come maschere di porcellana che nasconderebbero qualcosa di più turbante. È un commento sottile sulla nostra epoca ossessionata dai filtri di Instagram e dalla perfezione digitale.
Ciò che rende il suo lavoro così rilevante oggi è la sua capacità di rivelare le continuità storiche nel nostro rapporto con le immagini. Quando dipinge una scena di toilette ispirata al XVIII secolo, ci mostra che i nostri riti contemporanei di bellezza e auto-presentazione non sono che gli ultimi avatar di una lunga storia di performance sociale e costruzione identitaria.
Il suo lavoro sulle scene di violenza storiche è particolarmente sconvolgente. Frammentando e ricontestualizzando queste immagini, ci costringe a guardare davvero la violenza che sottende molti dei nostri “capolavori” occidentali. Non è sensazionalismo gratuito, è un invito a riflettere su come l’arte abbia storicamente estetizzato e normalizzato la violenza, particolarmente quella diretta contro le donne.
Mockrin non è qui per confortarci con immagini carine. Usa la bellezza come un cavallo di Troia per introdurre interrogativi più profondi sul potere, il genere, la violenza e la rappresentazione. Il suo lavoro è come uno specchio deformante puntato sulla nostra storia dell’arte, uno specchio che rivela i punti ciechi e i pregiudizi che preferiamo ignorare.
Le sue opere sono macchine del tempo che bypassano le nostre certezze sul progresso e la modernità. Giustapponendo riferimenti storici con preoccupazioni contemporanee, ci mostra che le nostre lotte attuali su genere, potere e rappresentazione sono solo gli ultimi capitoli di una storia ben più lunga.
Mockrin usa il virtuosismo tecnico non come fine in sé, ma come strumento per decostruire e reimmaginare il nostro patrimonio visivo. Ci mostra che la bellezza può essere un’arma di massiccia sovversione quando è maneggiata con intelligenza e precisione.
















