Ascoltatemi bene, banda di snob, vi parlerò di un artista che scuote le vostre certezze borghesi su ciò che è la pittura contemporanea. Jia Aili, nato nel 1979 a Dandong, questa città gelida del nord-est della Cina che si trova di fronte alla Corea del Nord, non è qui per cullarvi con illusioni o dipingere ninfee che starebbero così bene sopra il vostro divano in pelle italiano.
Mentre alcuni si estasiavano davanti a riproduzioni di Monet come carta da parati, Jia Aili crea mondi apocalittici di una bellezza viscerale che ti prendono allo stomaco. Formatosi all’Accademia delle Belle Arti Lu Xun di Shenyang, avrebbe potuto accontentarsi di perpetuare la tradizione del realismo socialista che ha segnato generazioni di artisti cinesi. Ma no, sarebbe troppo semplice, troppo prevedibile per questo spirito tormentato che dialoga tanto con Caspar David Friedrich quanto con Francis Bacon.
La prima caratteristica del suo lavoro è il modo in cui tratta lo spazio e il vuoto come personaggi a pieno titolo. Le sue tele monumentali, e quando dico monumentali, parlo di formati che farebbero sembrare un Rothko una cartolina, creano paesaggi mentali dove la solitudine non è una posa Instagram, ma un’esperienza esistenziale che ti gela il sangue. Come avrebbe detto Nietzsche, quando contempli l’abisso nelle opere di Jia Aili, l’abisso ti contempla a sua volta. E questo abisso non ha nulla a che vedere con il vuoto di pensiero di chi confonde l’arte contemporanea con una decorazione d’interni.
Le sue figure mascherate, ricorrenti nella sua opera, non sono lì per cavalcare l’onda post-covid. No, incarnano la frammentazione dell’identità nel nostro mondo iper-connesso, dove siamo tutti diventati avatar digitali erranti in un deserto di senso. È Baudrillard che incontra il realismo magico cinese, uno scontro frontale tra tradizione e ipermodernità che ti fa rendere conto di quanto la tua visione dell’arte contemporanea cinese sia rimasta bloccata nei cliché degli anni ’90.
La seconda caratteristica della sua opera è il modo in cui tratta la tecnologia come una forza mistica e distruttiva. In “Sonatine” (2019), un’opera magistrale di quasi 10 metri di lunghezza, Jia Aili crea un universo dove le forme geometriche fluttuano come detriti di un futuro in decomposizione. È Blade Runner che incontra la pittura paesaggistica tradizionale cinese, ma mille volte più profondo. I poliedri che attraversano lo spazio pittorico non sono semplici esercizi di stile, sono i testimoni silenziosi di una civiltà che crolla sotto il peso della propria hubris tecnologica.
Ogni pennellata è una negoziazione tra caos e ordine, tra la padronanza tecnica ereditata dalla sua formazione accademica e una libertà gestuale che farebbe invidia a Willem de Kooning. Gli strati di pittura si accumulano come stratificazioni geologiche, creando superfici che sono altrettanti testimoni della nostra epoca travagliata.
I suoi paesaggi post-apocalittici non sono semplici esercizi di stile distopici. No, sono il riflesso di una coscienza acuta della nostra condizione contemporanea. Quando dipinge queste vaste distese desolate dove figure solitarie vagano come spettri, non cade nel facile miserabilismo. Pone domande fondamentali sul nostro rapporto con l’ambiente, con la tecnologia, con noi stessi. È Heidegger che incontra Mad Max, ma con una sofisticazione pittorica mozzafiato.
I critici superficiali vi vedranno forse una semplice estetica del disastro, ma perdono l’essenziale. In “The Action of Three Primary Colors” (2018), Jia Aili dimostra una profonda comprensione della storia dell’arte occidentale pur trascendendola. I colori non sono lì per abbellire il tuo salotto, sono forze tettoniche che si scontrano sulla tela, creando esplosioni cromatiche che fanno sembrare i fuochi d’artificio delle fiammiferi.
La sua padronanza tecnica è indiscutibile, ma non è questo che lo rende un artista di rilievo. È la sua capacità di creare opere che sono allo stesso tempo profondamente radicate nella tradizione pittorica cinese e decisamente contemporanee. Quando integra elementi di calligrafia o riferimenti ai paesaggi classici cinesi, non è per compiacere i conservatori dei musei, ma per creare un dialogo teso tra passato e presente.
L’influenza di Francis Bacon è evidente nel suo modo di deformare le figure, ma Jia Aili va oltre. I suoi personaggi non sono semplicemente torturati, sono testimoni di una profonda trasformazione della condizione umana nell’era digitale. È come se Foucault avesse preso lezioni di pittura e deciso di rappresentare visivamente le sue teorie sul potere e sulla sorveglianza.
Nelle sue opere più recenti, Jia Aili esplora i confini tra astrazione e figurazione con un’audacia che farebbe tremare Gerhard Richter. Le forme geometriche che attraversano le sue tele non sono semplici esercizi di stile, sono manifestazioni visive di una realtà frammentata, dove il virtuale e il reale si confondono in una danza macabra.
Il suo studio a Pechino è diventato una sorta di laboratorio in cui sperimenta con materiali diversi, ceneri, vetro, pigmenti, creando superfici che sfidano ogni facile categorizzazione. Questo è ciò che Theodor Adorno chiamava la negatività dell’arte moderna, ma portata al parossismo nel contesto della Cina contemporanea.
Le opere di Jia Aili non sono qui per confortarti o per decorare le tue pareti. Sono specchi deformanti della nostra epoca, testimonianze visive di una civiltà che si trova a un crocevia critico. Come avrebbe detto Roland Barthes, questi quadri sono “mitologie” contemporanee che decostruiscono le nostre certezze sul progresso, la tecnologia e l’umanità.
La sua recente serie di dipinti di montagne, ispirata ai suoi viaggi ai confini della Cina, non è un semplice esercizio di stile romantico. È una meditazione profonda sulla nozione di limite, di frontiera, in un mondo che pretende di averle abolite. Quando dipinge queste masse montuose attraversate da linee geometriche astratte, crea una tensione visiva che riecheggia le tensioni geopolitiche del nostro tempo.
C’è qualcosa di profondamente perturbante nel modo in cui Jia Aili mescola riferimenti alla storia dell’arte occidentale con elementi della cosmologia cinese tradizionale. È come se Giorgio de Chirico avesse deciso di reinterpretare i paesaggi della dinastia Song, ma con una consapevolezza acuta dei traumi del XXI secolo.
L’arte di Jia Aili resiste a ogni forma di chiusura definitiva. Ci troviamo di fronte a un artista che ridefinisce cosa significa essere pittore oggi. Non si tratta semplicemente di dominare tecniche o di creare immagini seducenti. Si tratta di creare opere che ci costringono a confrontare le contraddizioni e le angosce della nostra epoca. E se questo ti mette a disagio, probabilmente fai parte di coloro che preferiscono che l’arte resti saggia e decorativa, confinata nei limiti rassicuranti della tua zona di comfort borghese.
















