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Martedì 18 Novembre

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Jigger Cruz : Ricoprire, cancellare, nascere

Pubblicato il: 5 Novembre 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 8 minuti

Jigger Cruz ricopre copie di maestri antichi con spesse mani di colore a olio applicate dal tubo. Questa pratica iconoclasta interroga il peso della storia coloniale nell’arte contemporanea filippina. Cancellando le immagini classiche, Cruz costruisce un linguaggio visivo che rifiuta il debito verso il canone occidentale.

Ascoltatemi bene, banda di snob : se cercate ancora nell’arte contemporanea filippina quella compiacenza postcoloniale che caratterizza tanti pittori asiatici desiderosi di compiacere le gallerie occidentali, cambiate strada. Jigger Cruz, nato nel 1984 a Malabon City, non vi offrirà né il conforto della nostalgia esotica né la facilità di una ribellione prevedibile. Questo pittore, formato alla Far Eastern University e apprendista di Manuel Ocampo, si è imposto come uno degli artisti più rilevanti della sua generazione praticando una forma di iconoclasmo che merita di essere considerata seriamente.

La pratica di Cruz consiste essenzialmente nel ricoprire dipinti classici, copie di maestri fiamminghi, ritratti in stile rinascimentale, con spesse mani di colore a olio applicate direttamente dal tubo o tramite sac a poche da pasticciere. Il risultato: superfici tormentate, strati di colori vivaci che cancellano quasi completamente l’immagine originale. Questa tecnica, che alcuni definirebbero rapidamente come vandalismo, rivela in realtà un’intelligenza acuta del peso della storia nella produzione artistica contemporanea. Cruz non distrugge per il piacere anarchico della distruzione; costruisce un discorso visivo sull’impossibilità di sfuggire al canone occidentale pur affermando la necessità di inscrivere la propria voce al suo interno.

Per comprendere l’urgenza del gesto di Cruz, bisogna tornare alla storia coloniale delle Filippine e alla figura tutelare di Juan Luna. Questo pittore filippino, formato in Europa alla fine del XIX secolo, incarna il paradosso dell’artista colonizzato: riconosciuto dalle istituzioni europee, insignito di successi nei salotti parigini, Luna rimane tuttavia prigioniero di un sistema di rappresentazione che non è il suo. Il suo quadro “La vie parisienne” (1892), conservato oggi al Museo nazionale delle Filippine, illustra perfettamente questa ambivalenza [1]. L’opera mostra tre uomini filippini, lo stesso Luna, José Rizal e Ariston Bautista Lin, che osservano una cortigiana in un caffè parigino. Questi tre intellettuali, figure principali del movimento di propaganda filippina per l’indipendenza, sono rappresentati vestiti all’europea, adottando i codici visivi della metropoli imperiale. La donna al centro, spesso interpretata come una metafora della “madrepatria” filippina, rimane passiva, oggetto dello sguardo maschile e coloniale.

Questo dipinto cristallizza il dilemma di ogni artista proveniente da un territorio precedentemente colonizzato: come creare quando gli stessi strumenti della creazione, la pittura a olio, la prospettiva, i generi pittorici, appartengono al colonizzatore? Come esprimersi in un linguaggio che non è stato concepito né per voi né da voi? Luna ha scelto l’assimilazione brillante, padroneggiando le tecniche accademiche europee al punto da superare molti dei suoi contemporanei europei. Ma questo successo rimane ambiguo, perché implica l’accettazione dei criteri estetici del colonizzatore. Cruz, più di un secolo dopo Luna, propone una risposta radicalmente diversa. Ricoprendo queste pitture accademiche di materia grezza, obliterando i volti e i paesaggi classici sotto spruzzi di colore puro, rifiuta il debito. Non cerca di dimostrare che un filippino può dipingere altrettanto bene quanto un europeo; afferma che questa stessa domanda non ha più motivo di essere posta.

Il gesto di Cruz si inscrive in quella che si potrebbe definire un'”archeologia aggressiva” della pittura. Ognuna delle sue tele conserva la traccia dell’immagine originale, talvolta visibile per trasparenza, talvolta del tutto sepolta. Questa stratigrafia pittorica funziona come una metafora della storia coloniale filippina: i riferimenti occidentali rimangono presenti, inevitabili, ma non dettano più il significato ultimo dell’opera. I colori sgargianti che Cruz sovrappone, rosa accecanti, verdi acidi e gialli tossici, creano un nuovo racconto visivo che non attende più l’approvazione del centro. Non si tratta di fare tabula rasa, ma di una riscrittura violenta, assunta e gioiosa.

Lo stesso artista riconosce questa dimensione politica implicita del suo lavoro. Interrogato sulla sua pratica, dichiara: “Cerco semplicemente di scherzare su tutto ciò, di connettermi con la storia dell’arte, ma anche di creare una nuova scena e una nuova superficie per osservarla da un’altra prospettiva” [2]. Questa “battuta” non deve essere presa alla leggera. Rivela una strategia di sovversione che passa attraverso l’umorismo e la derisione piuttosto che attraverso il puro discorso teorico. Cruz rifiuta di posizionarsi come vittima della storia; ne diventa il manipolatore giocoso, trasformando il fardello del passato in un materiale malleabile.

Ora è opportuno affrontare il secondo asse di riflessione suggerito dall’opera di Cruz: la questione filosofica della distruzione creatrice. Qui, è impossibile non pensare a Friedrich Nietzsche e a questa formula fulminante tratta da “La genealogia della morale”: “Perché un tempio venga eretto, un tempio deve essere distrutto” [3]. Questa sentenza riassume perfettamente la logica in opera nella pratica di Cruz. Il filosofo tedesco non parlava di semplice iconoclastia nichilista, ma di una necessità ontologica: ogni vera creazione richiede la distruzione preventiva dei valori antichi. Non si costruisce sul vuoto; si costruisce sulle rovine.

Cruz applica letteralmente questo principio alla pittura. Le sue tele non sono pure astrazioni emerse ex nihilo; sono testimonianze violente in cui l’antico viene simultaneamente cancellato e mantenuto. Questa tensione tra presenza e assenza, tra distruzione e costruzione, conferisce al suo lavoro una densità concettuale che lo distingue dall’espressionismo astratto americano a cui si potrebbe troppo rapidamente associarlo. Dove un Jackson Pollock o un Willem de Kooning cercavano di liberare la pittura da ogni riferimento esterno, Cruz mantiene deliberatamente il riferimento sotto la superficie. La storia dell’arte occidentale rimane visibile, ma come un fantasma, uno spettro che bisogna costantemente esorcizzare per andare avanti.

La dimensione nietzscheana di questo lavoro va oltre la semplice metafora della distruzione. Tocca la questione del valore stesso. Cosa dà valore a un dipinto? La sua abilità tecnica? La sua capacità di riprodurre fedelmente la realtà? Il suo posto in una tradizione riconosciuta? Cruz spazza via questi criteri con un colpo di manicotto. Coprendo copie di maestri fiamminghi, dipinti già privi di qualsiasi originalità poiché copie, interroga frontalmente la nozione di autenticità che fonda il mercato dell’arte occidentale. Una copia coperta di pittura gestuale diventa più autentica della copia stessa? Il gesto iconoclasta di Cruz ha più valore dell’abilità del copista?

Queste domande non sono semplici giochi intellettuali. Tocca il cuore di ciò che significa essere artista in un contesto post-coloniale. L’artista filippino contemporaneo non può fingere di ignorare la storia coloniale del suo Paese, né può pretendere di creare in un vuoto culturale. Ma non deve neppure lasciarsi paralizzare da questa storia. La soluzione di Cruz consiste nell’assumersi pienamente la violenza del suo gesto: sì, distrugge; sì, copre; sì, cancella. Ma proprio perché distrugge coscientemente, metodicamente, crea le condizioni di una vera novità.

L’evoluzione recente della sua pratica conferma questa interpretazione. Durante l’Art Fair Philippines 2024, Cruz ha presentato opere notevolmente semplificate. Meno strati, meno colori, forme geometriche semplificate. L’artista spiega: “Ho superato tutto questo. Non ho bisogno di piacere a nessuno… Quando si è giovani, bisogna essere arroganti. Ma era giusto anche passare attraverso questa fase, questo processo di crescita” [4]. Questa dichiarazione rivela una maturità artistica che non abbandona la radicalità ma la sposta. Cruz non rinuncia al suo progetto di decostruzione; ora lo compie con una maggiore economia di mezzi, il che paradossalmente ne rafforza la potenza.

Il colore, in Cruz, è particolarmente interessante. Daltonico, percepisce le tonalità diversamente dalla maggior parte degli spettatori. Questa particolarità fisiologica diventa un vantaggio strategico: liberato dalle convenzioni cromatiche, può accostare colori che l’occhio “normale” giudicherebbe discordanti. I suoi verdi e viola, che lui non distingue, creano tensioni visive inaspettate. Questa incapacità diventa una capacità, trasformando un presunto handicap in una firma stilistica. Ancora una volta, Cruz trasforma lo stigma in forza creativa.

Va anche menzionata la dimensione materiale, quasi feticista, del suo approccio. Cruz non si limita a dipingere; scolpisce la pittura, creando rilievi spessi che debordano dalla cornice, invadono i listelli, trasformano il quadro in un oggetto tridimensionale. Questa insistenza sulla materialità grezza della pittura, la sua texture, il suo peso e la sua presenza fisica, contrasta violentemente con la crescente dematerializzazione dell’arte contemporanea. In un’epoca in cui l’arte digitale e gli NFT pretendono di rendere obsoleta la pittura su tela, Cruz riafferma la sensualità della materia pittorica. Le sue opere odorano, pesano, si impastano. Resistono alla riproduzione fotografica, esigendo un confronto fisico diretto.

La traiettoria di Cruz, dal giovane pittore ambizioso al padre di famiglia in cerca di semplicità e onestà, illustra anche una critica implicita al mito dell’artista tormentato. Troppe volte, il mercato dell’arte valorizza la sofferenza, l’angoscia, il tragico. Cruz, invece, rivendica ora una forma di leggerezza, di innocenza ritrovata. Osservare sua figlia disegnare cerchi e triangoli gli ha ricordato che la creazione può essere gioiosa, spontanea, libera dal peso teorico. Questa evoluzione non significa un abbandono della dimensione critica del suo lavoro, ma piuttosto uno spostamento: la critica non passa più attraverso l’accumulo dimostrativo di strati di pittura, ma dalla precisione del gesto minimale.

L’opera di Jigger Cruz ci obbliga a ripensare i rapporti tra centro e periferia nell’arte contemporanea globalizzata. Rifiuta sia l’esotismo compiacente sia la semplice imitazione dei modelli occidentali. La sua soluzione, coprire, occultare e ricostruire, non è né una sintesi armoniosa né un rifiuto netto, ma un atto di trasformazione in cui la storia coloniale diventa materiale di costruzione piuttosto che un fardello paralizzante. I templi della storia dell’arte occidentale sono distrutti sulle sue tele, ma le loro rovine costituiscono le fondamenta di nuovi edifici. Questa dialettica di distruzione e creazione pone Cruz al centro dei dibattiti contemporanei sull’identità culturale, la postcolonialità e l’autonomia artistica. Il suo lavoro dimostra che un artista può essere profondamente radicato nel proprio contesto nazionale pur parlando un linguaggio universale, che può assumersi l’eredità coloniale senza sottomettersi ad essa e che può distruggere con metodo per costruire meglio con libertà. In un’epoca saturata da discorsi sulla decolonizzazione degli immaginari, Cruz offre una risposta plastica, materiale e indiscutibilmente efficace: dipingere sopra, ancora e ancora, finché l’immagine originale diventi illeggibile, finché emerga finalmente qualcosa di irriducibilmente nuovo.


  1. Juan Luna, “La vie parisienne”, noto anche con il titolo “Interno di un caffè”, 1892, olio su tela, Museo Nazionale delle Belle Arti, Manila, Filippine.
  2. Jigger Cruz, citato in Quiet Lunch Magazine, 2018.
  3. Friedrich Nietzsche, “La genealogia della morale”, 1887.
  4. Jigger Cruz, citato in The Nation Thailand, 2024.
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Riferimento/i

Jigger CRUZ (1984)
Nome: Jigger
Cognome: CRUZ
Altri nome/i:

  • Jigger P. Cruz

Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Filippine

Età: 41 anni (2025)

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