Ascoltatemi bene, banda di snob, vi dirò una cosa su John Currin che nessuno osa articulare chiaramente: è il Marchese de Sade delle gallerie esclusive. Un imperatore folle che regna su un regno dove la bellezza e la bruttezza si intrecciano in una danza macabra. I suoi dipinti sono ascessi luminosi, ferite fosforescenti che sanguinano un miscuglio di pittura a olio e desiderio maschile corrotto. E adoro questo.
Le opere di Currin provocano quella sensazione strana in cui il disgusto è immediatamente seguito da una fascinazione incontrollabile. È quella sensazione che ci invade quando rallentiamo per guardare un incidente d’auto o quando non possiamo distogliere lo sguardo da un video orribile su internet. L’opera di Currin è proprio questo: un incidente magnifico tra le tradizioni pittoriche occidentali e le nostre pulsioni più inconfessabili.
Currin divenne famoso negli anni ’90 con i suoi ritratti di donne dalle proporzioni assurde. Queste donne con seni smisurati, questi volti distorti e questi corpi dalle forme improbabili divennero la sua firma. Kim Levin, critica del Village Voice, chiamò al boicottaggio della sua prima mostra nel 1992. Che errore! Era come chiedere di boicottare uno specchio che riflette le nostre stesse mostruosità. Perché quello che fa Currin è più sottile e infinitamente più disturbante di una semplice provocazione: cristallizza nella sua pittura l’angoscia maschile di fronte alla femminilità.
Il modo in cui Currin manipola la storia dell’arte richiama ciò che Michail Bakhtin [1] chiamava il “carnivalesco”, quella sospensione temporanea delle gerarchie stabilite in cui il sublime e il grottesco si affiancano senza distinzione. Come scriveva Bakhtin nella sua analisi di Rabelais, “il carnevale celebra l’affrancamento provvisorio dalla verità dominante e dal regime esistente.” Questa teoria del carnivalesco si applica perfettamente all’opera di Currin, dove i canoni estetici tradizionali sono contemporaneamente celebrati e ridicolizzati.
Prendete ad esempio il suo dipinto “Mantis” (2020). Una donna dal volto sereno, quasi angelico, è posta sopra un’altra donna rovesciata, formando entrambe una creatura ibrida metà insetto, metà ninfa. I loro corpi deformati ricordano i contorsionisti del circo o gli acrobati delle feste paesane. Ma sono dipinti con la precisione tecnica di un Pontormo o di un Cranach. Questo miscuglio deliberato di virtuosismo classico e volgarità contemporanea sembra dirci: “Guardate cosa posso fare con i miei pennelli, e guardate cosa scelgo di farne.”
La tecnica pittorica di Currin è indubbiamente impressionante. Dipinge come un maestro antico che avrebbe assorbito cinque secoli di storia dell’arte per rigurgitarli in una sintesi stranamente personale. I suoi glacis luminosi, le sue carni madreperlate, i suoi drappeggi accurati, tutto testimonia una padronanza che rende le sue scelte tematiche ancora più destabilizzanti. Usa una tecnica che servì a rappresentare le Madonne e i santi per dipingere personaggi tratti dal cinema porno scandinavo degli anni ’80.
Questa dissonanza cognitiva tra il “come” e il “cosa” della sua pittura è proprio ciò che rende il suo lavoro così affascinante. È come sentire Mozart suonato su una batteria da cucina, o Racine recitato da un clown. Il contrasto tra forma e contenuto crea una tensione che non si risolve mai completamente.
Nella sua serie “Memorial” del 2021, Currin porta questa dissonanza al suo parossismo. Donne nude in pose pornografiche sono rappresentate come statue di marmo in nicchie architettoniche. I corpi femminili, tradizionalmente oggetti dello sguardo maschile nella storia dell’arte, sono qui letteralmente pietrificati, trasformati in monumenti commemorativi di un desiderio consapevole della propria condanna. Sono fantasmi di carne congelati per l’eternità in atteggiamenti osceni, come i corpi calcificati di Pompei.
Ciò che Currin comprende meglio di chiunque altro è che la pittura figurativa occidentale è sempre stata un veicolo del desiderio maschile. Dalle Veneri di Tiziano alle odalische di Ingres, la storia dell’arte è piena di corpi femminili offerti allo sguardo. Esponendo questa tradizione con brutalità franca, Currin ci costringe a guardare in faccia ciò che preferiremmo ignorare. Come scrive Susan Sontag [2] nel suo saggio “Regarding the Pain of Others” : “Le immagini che mobilitano la coscienza sono sempre legate a una situazione storica specifica. Più sono generali, meno sono efficaci.”
I dipinti di Currin non sono generali, sono specifici e storicamente collocati nella nostra epoca di sovrabbondanza di immagini pornografiche, chirurgia estetica e confusione identitaria. Sono efficaci proprio perché ci mostrano ciò che non vogliamo vedere: la nostra complicità stessa nella riduzione dei corpi a oggetti di consumo.
Ma non illudetevi: Currin non è un moralista. È egli stesso coinvolto in ciò che critica. I suoi dipinti non provengono da un luogo di superiorità morale, ma da un riconoscimento della propria partecipazione al sistema che espone. Quando dipinge sua moglie, l’artista Rachel Feinstein, con seni giganteschi o in pose suggestive, non pretende di essere al di sopra della mischia, ammette di essere parte integrante di questa economia dello sguardo e del desiderio.
Questa onestà è rinfrescante in un mondo dell’arte contemporanea spesso dominato da una postura virtuosa. Currin non nasconde le sue pulsioni dietro un discorso teorico impenetrabile. Le espone sulla tela con una franchezza disarmante. Come osservava Camille Paglia [3] : “L’arte non è una sfera purificata. È un’arena di tensioni caotiche dove si affrontano Apollo e Dioniso, la forma e la dissoluzione.”
I critici hanno spesso definito Currin misogino, ma questa etichetta è riduttiva. Sarebbe più giusto dire che dipinge la misoginia piuttosto che incarnarla. I suoi dipinti sono documenti antropologici che registrano i fantasmi maschili in tutta la loro assurdità. Non glorifica questi fantasmi, li espone, li analizza, li spinge fino al loro punto di rottura logica.
Pensate a “The Bra Shop” (1997), con le sue donne dai seni grottescamente esagerati, o a “Nice ‘n Easy” (1999), venduto per 12 milioni di dollari nel 2016. Queste opere non celebrano la donna-oggetto, rivelano il ridicolo di questa oggettivazione. I volti di queste donne, dipinti con una texture spessa e granulosa che evoca l’acne, contrastano violentemente con i loro corpi lisci e idealizzati. Questa giustapposizione crea un effetto di alienazione che ci impedisce di consumare queste immagini senza riflettere.
Il parallelo con il cinema è illuminante. Se i film di Russ Meyer o di Paul Verhoeven mettono in scena corpi femminili ipersessualizzati, è per esporre i meccanismi dello sguardo maschile e non per rafforzarli. Lo stesso vale per Currin. I suoi dipinti sono specchi deformanti che ci restituiscono i nostri stessi desideri in tutta la loro mostruosità.
Questo approccio trova eco nella teoria del cinema di Laura Mulvey sul “maschio che guarda” (male gaze). Nel suo saggio fondamentale “Visual Pleasure and Narrative Cinema”, Mulvey analizza come il cinema tradizionale struttura il suo linguaggio visivo attorno al piacere scopico maschile. Currin, riprendendo i codici di questo sguardo ma portandoli all’assurdo, riesce a sovvertirli dall’interno.
C’è qualcosa di profondamente americano nell’opera di Currin. Il suo miscuglio di ironia e sincerità, di virtuosismo tecnico e voluta volgarità, riflette le contraddizioni di una cultura che oscilla costantemente tra puritanesimo ed esibizionismo. Come scriveva Scott Fitzgerald: “Il segno di un’intelligenza di primo ordine è la capacità di avere contemporaneamente due idee opposte in mente e continuare a funzionare.”
Questa ambivalenza fondamentale spiega perché i dipinti di Currin possono essere venduti a prezzi astronomici continuando a scandalizzare. Incarnano perfettamente le tensioni della nostra epoca, in cui il politicamente corretto coesiste con un’industria pornografica fiorente, dove la sensibilità woke convive con un presidente apertamente misogino.
Perché di questo si tratta: Currin dipinge l’America delle contraddizioni, l’America del simulacro, l’America che finge di difendere la libertà mentre reprime il desiderio. Le sue donne dalle proporzioni impossibili sono le abitanti di questo paese schizofrenico, diviso tra i suoi ideali puritani e le sue pulsioni mercantili.
Un’opera come “Sunflower” (2021) illustra perfettamente questa tensione. Una donna seduta, dal corpo emaciato ma con seni sproporzionati, tiene in mano un fiore appassito. Il suo volto, con orbite vuote, guarda verso il basso come per evitare il nostro sguardo. È allo stesso tempo vittima e complice, oggetto e soggetto. Questa ambiguità morale è al centro del progetto di Currin e spiega perché i suoi dipinti resistono a qualsiasi interpretazione semplicistica.
I corpi in Currin non sono mai neutrali, portano i segni della storia, dei desideri collettivi, delle ansie culturali. In questo senso, il suo lavoro si unisce a quello di altri artisti americani che hanno esplorato le mitologie nazionali, come Edward Hopper o Cindy Sherman. Ma dove Hopper trovava poesia nella solitudine urbana e Sherman decostruiva gli stereotipi femminili, Currin si confronta direttamente con la questione del piacere visivo e della sua complicità con le strutture di potere.
Ciò che rende l’opera di Currin così potente è la sua capacità di coinvolgerci emotivamente. Si possono detestare i suoi dipinti, considerarli volgari o offensivi, ma non si può restare indifferenti. Suscitano una reazione viscérale che va oltre l’apprezzamento estetico. Ci fanno provare qualcosa, disgusto, desiderio, disagio, fascinazione, e forse questa è la definizione stessa dell’arte che conta.
Sì, Currin è il Marchese de Sade della pittura, che gode del potere di scandalizzare pur padroneggiando perfettamente i codici che trasgredisce. Ma è anche un osservatore lucido della nostra epoca, un cronista dei fantasmi che strutturano il nostro immaginario collettivo. E in un mondo saturo di immagini levigate e confezionate, questa brutalità onesta è più preziosa che mai.
- Bakhtine, Mikhaïl. Opera di François Rabelais e la cultura popolare nel Medioevo e nel Rinascimento. Gallimard, 1970.
- Sontag, Susan. Riguardo al dolore degli altri. Farrar, Straus and Giroux, 2003.
- Paglia, Camille. Sexual Personae: Arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson. Yale University Press, 1990.
















