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José Parlá: Pittore della diaspora caraibica

Pubblicato il: 18 Agosto 2025

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 11 minuti

José Parlá reinventa la pittura astratta traendo dall’eredità dell’hip-hop e della cultura urbana. Questo artista cubano-americano compone le sue tele monumentali come testimonianze contemporanee, mescolando calligrafie indecifrabili e collage di manifesti per rivelare la poesia nascosta delle nostre metropoli in continua evoluzione.

Ascoltatemi bene, banda di snob. José Parlá, quest’uomo di cinquantadue anni con le mani macchiate di vernice e la voce roca per le conseguenze del Covid, incarna oggi una delle personalità più autentiche dell’arte contemporanea. Nato a Miami nel 1973 da genitori cubani esiliati, questo artista ha saputo trasformare l’eredità del movimento hip-hop e l’esperienza diasporica caraibica in un’opera pittorica di straordinaria densità. Le sue tele monumentali, vere e proprie cartografie psicogeografiche delle nostre metropoli contemporanee, ci mettono di fronte alla bellezza brutale dell’oblio urbano e alla resilienza delle comunità emarginate.

L’opera di Parlá affonda le radici in una comprensione profonda dell’urbanità come linguaggio vivente. Le sue pitture astratte, intrecciate di calligrafie indecifrabili e collage di manifesti strappati, trasformano la tela in una testimonianza contemporanea dove si sovrappongono le stratificazioni temporali delle nostre città. Questo approccio supera di gran lunga la semplice estetica per rivelare una visione sociologica del territorio urbano come spazio di resistenza e memoria collettiva.

La scrittura come archeologia urbana

La pratica artistica di José Parlá trova fondamento teorico in una concezione di Roland Barthes della scrittura urbana, sebbene se ne distacchi radicalmente per il suo radicamento nell’esperienza vissuta. Contrariamente agli approcci poststrutturalisti che dissolvono il soggetto nel testo, Parlá reinscrive l’individuo e la sua comunità al centro del suo procedimento creativo. Le sue tele funzionano come archivi sensoriali in cui la storia collettiva dei quartieri popolari si cristallizza in gesti pittorici di rara intensità.

L’artista sviluppa un’estetica dell’accumulazione che prende tanto dalle tecniche del collage dadaista quanto dalle pratiche vernacolari del graffitismo newyorkese degli anni 1980. Le sue composizioni stratificate rivelano una temporalità complessa dove il passato emerge attraverso gli strati di materia pittorica. Questo metodo trova giustificazione teorica nei lavori di Michel de Certeau sulle pratiche dello spazio urbano, in particolare nella sua analisi degli “arti del fare” che caratterizzano le tattiche di resistenza delle popolazioni urbane [1].

Le opere recenti di Parlá, in particolare la serie “Homecoming” esposta al Pérez Art Museum Miami, illustrano perfettamente questa archeologia del quotidiano. L’artista vi incorpora frammenti di manifesti raccolti nelle strade di Miami, trasformando questi detriti visivi in elementi costitutivi di un racconto più ampio sulla migrazione caraibica e l’identità diasporica. Questa pratica di riappropriazione si avvicina alle strategie di disturbo concettualizzate da Guy Debord, ma si distingue per la sua dimensione affettiva e memoriale.

La calligrafia indecifrabile che attraversa l’intera sua opera rivela una concezione della scrittura come pura gestualità, liberata dalla sua funzione comunicativa tradizionale. Parlá si avvicina qui alle sperimentazioni di Henri Michaux sulla scrittura automatica, radicandole al contempo in un’esperienza sociale specifica. Le sue “scritture” funzionano come tracce corporee che portano la memoria di gesti collettivi, quelli dei writer della metropolitana newyorkese come quelli dei manifestanti dei movimenti di protesta contemporanei.

Questo approccio della scrittura come performance corporea trova la sua espressione più spettacolare nelle sue creazioni murali monumentali. L’opera “One: Union of the Senses” realizzata per il One World Trade Center testimonia questa concezione della pittura come danza verticale. I video della creazione mostrano Parlá saltare da impalcature mantenendo il contatto del suo pennello con la tela, creando così gesti impossibili da realizzare nelle condizioni normali dello studio. Questa dimensione performativa iscrive il suo lavoro nella tradizione dell’arte corporea mantenendo al contempo l’ancoraggio comunitario del movimento hip-hop.

La scrittura di Parlá rivela così la sua dimensione politica: costituisce un atto di resistenza all’invisibilizzazione delle culture popolari urbane. Trasponendo i codici visivi del graffito nello spazio istituzionale dell’arte contemporanea, l’artista opera una riappropriazione critica che mantiene lo spirito sovversivo originale ampliandone il pubblico. Questa strategia evita l’insidia della mercificazione preservando l’illeggibilità fondamentale delle sue scritture, che resistono così a ogni appropriamento definitivo.

Architettura della sopravvivenza

L’impegno di José Parlá con l’architettura contemporanea rivela una dimensione ulteriore della sua pratica, quella che interroga la capacità dell’arte di trasformare i nostri rapporti con lo spazio abitato. La sua collaborazione con l’agenzia Snøhetta per la creazione della Far Rockaway Writer’s Library costituisce un modello esemplare di questo approccio integrato. L’edificio, la cui facciata intera è coperta dalle sue calligrafie, funziona come un manifesto architettonico dove l’arte diventa letteralmente struttura portante di senso.

Questa biblioteca pubblica, inaugurata dopo sette anni di sviluppo, incarna una visione dell’architettura come servizio pubblico ampliato. La scelta del nome “Writer’s Library” rivela l’intelligenza strategica di Parlá, che riunisce sotto questa denominazione le tradizioni letterarie del quartiere e l’eredità del graffiti. Questo doppio riferimento istituisce un dialogo tra cultura legittima e cultura popolare, rompendo le gerarchie tradizionali del campo culturale.

L’iscrizione architettonica del suo lavoro si radica in una comprensione fine delle sfide territoriali contemporanee. Far Rockaway, quartiere periferico del Queens segnato dalla povertà e dall’isolamento geografico, diventa sotto il suo intervento un laboratorio di riqualifica urbana tramite l’arte. Questo approccio si ispira alle analisi di Henri Lefebvre sul diritto alla città, in particolare alla sua concezione dello spazio urbano come produzione sociale collettiva [2].

La facciata di vetro serigrafata sviluppa un sistema cromatico sofisticato che varia in base all’intensità luminosa e alle stagioni. Questa dimensione ambientale testimonia una coscienza ecologica che inscrive l’arte nei cicli naturali. L’opera funziona così come una meridiana contemporanea, segnando il passaggio del tempo con le sue variazioni coloristiche. Questa temporalità ciclica entra in risonanza con i ritmi biologici e sociali del quartiere, creando una forma di comunione tra arte e vita quotidiana degli abitanti.

L’architettura di Parlá va oltre la semplice decorazione per proporre una rifondazione simbolica dello spazio pubblico. La biblioteca diventa un territorio di sperimentazione democratica dove si negoziano nuovi rapporti tra individui e collettività. Questa dimensione politica dell’architettura si manifesta particolarmente nella programmazione culturale dell’istituzione, che ospita regolarmente performance musicali e laboratori di scrittura aperti a tutti.

La questione della scala costituisce una sfida centrale di questa pratica architettonica. Parlá domina perfettamente la dialettica tra intimo e monumentale, creando opere che funzionano altrettanto bene da lontano quanto da vicino. Questa polivalenza scalare riflette la sua formazione da writer, abituato alle restrizioni di leggibilità imposte dallo spazio urbano. I suoi interventi architettonici conservano questa doppia esigenza dell’impatto visivo immediato e della ricchezza di dettaglio rivelata dall’osservazione prolungata.

L’integrazione delle tecnologie digitali nel processo di creazione architettonica apre prospettive inedite per l’arte pubblica. La tecnica di sinterizzazione utilizzata per la facciata di Far Rockaway permette una riproduzione fedele delle sottigliezze cromatiche dei suoi dipinti garantendo al contempo la loro durata di fronte agli agenti atmosferici. Questa padronanza tecnica libera l’artista dai vincoli materiali tradizionali e gli permette di concepire progetti di un’ambizione formale senza precedenti.

L’architettura di Parlá funziona infine come un modello di resistenza alla gentrificazione. Ancorando i suoi interventi nella storia locale e privilegiando l’accessibilità democratica, propone un’alternativa alle logiche speculative che trasformano l’arte pubblica in semplice plusvalore immobiliare. Questa dimensione critica della sua pratica architettonica lo rende un attore principale dei dibattiti contemporanei sulla giustizia spaziale e il diritto alla città.

Psicogeografia della rinascita

L’esperienza di morte imminente vissuta da José Parlá durante la sua contaminazione da Covid-19 nel 2021 costituisce una svolta importante nella sua evoluzione artistica. Questo confronto diretto con la finitudine umana ha generato una serie di opere di potenza espressiva inedita, dove la dimensione spirituale del suo percorso si rivela pienamente. Le serie “Ciclos: Blooms of Mold”, “Polarities” e “Phosphene” testimoniano questa rinascita creativa, segnata da un’intensificazione delle sue ricerche sulla percezione e la memoria.

Il processo di creazione sviluppato durante la sua convalescenza rivela un metodo di lavoro di una radicalità impressionante. Trasformando la sua stanza d’ospedale in un laboratorio improvvisato, Parlá ha proseguito la sua pratica pittorica in condizioni di estrema precarietà fisica. Questa persistenza creativa di fronte all’avversità si colloca nella tradizione degli artisti che hanno fatto della loro malattia un laboratorio estetico, da Toulouse-Lautrec a Frida Kahlo.

Allucinazioni provocate dal suo coma indotto medicalmente alimentano direttamente la sua produzione recente. Queste visioni fantastiche, che mescolano ricordi personali e proiezioni fantasiose, generano un materiale narrativo di eccezionale ricchezza. L’artista sviluppa così un’estetica dell’intermezzo, situata al confine tra coscienza e inconscio, reale e immaginario. Questa liminalità trova la sua espressione plastica in composizioni di fluidità organica che evocano tanto le sinapsi neurali quanto le reti micorriziche.

La serie “Phosphene” esplora specificamente i fenomeni di visione residua che appaiono con le palpebre chiuse. Questa indagine dei meccanismi percettivi elementari rivela una dimensione fenomenologica del suo lavoro che dialoga con le ricerche contemporanee nelle neuroscienze. Parlá sviluppa una pittura dell’invisibile che materializza i processi mentali più intimi, creando un’arte veramente psicosomatica.

Questa esplorazione della coscienza modificata si radica nell’eredità sciamanica delle culture caraibiche da cui proviene l’artista. Le tradizioni afro-cubane del sincretismo religioso, particolarmente la santería, propongono modelli di circolazione tra diversi stati di coscienza che nutrono il suo immaginario pittorico. Questa dimensione spirituale si manifesta nell’uso ricorrente di motivi a spirale e di strutture reticolari che evocano le visioni estatiche delle pratiche rituali.

L’iscrizione autobiografica di questa esperienza traumatica evita tuttavia l’insidia del narcisismo artistico. Parlá universalizza la sua esperienza personale inserendola in una riflessione più ampia sulla condizione umana contemporanea. Le sue opere recenti funzionano come meditazioni sulla vulnerabilità condivisa, particolarmente pregnante nel contesto pandemico. Questa dimensione empatica della sua arte lo fa un testimone privilegiato della nostra epoca.

La questione del tempo costituisce l’ossessione centrale di questa produzione post-Covid. L’artista sviluppa un’estetica dell’urgenza che traduce plasticamente l’angoscia esistenziale generata dalla prossimità della morte. I suoi gesti pittorici guadagnano in veemenza, le sue composizioni in densità espressiva. Questa intensificazione formale traduce una coscienza acuta della precarietà temporale che conferisce a ogni opera una dimensione testamentaria.

L’uso di materiali organici nelle sue composizioni recenti, mousse, detriti vegetali e tracce di decomposizione, rivela un’accettazione della mortalità che arricchisce considerevolmente la sua tavolozza espressiva. Questa estetica della putrefazione, lontana dal cadere nel morboso, celebra i cicli naturali di rigenerazione. Parlá sviluppa così un’ecologia artistica che iscrive la creazione umana nei ritmi cosmici di distruzione e rinascita.

L’etica della traccia

L’opera di José Parlá pone con particolare acutezza la questione dell’impegno artistico contemporaneo. La sua iscrizione nell’eredità del movimento hip-hop lo pone fin dall’inizio dalla parte delle culture di resistenza, ma il suo successo istituzionale solleva la questione complessa del recupero delle pratiche sovversive da parte del mercato dell’arte. Questa tensione attraversa l’intera sua produzione e alimenta una riflessione critica sulle condizioni di possibilità di un’arte veramente politica.

La fedeltà dell’artista ai valori comunitari dell’hip-hop si manifesta nel suo rifiuto sistematico della starificazione individuale. Le sue collaborazioni con suo fratello Rey Parlá, la sua partecipazione ai collettivi Wide Awakes e For Freedoms testimoniano una concezione collettiva della creazione artistica che si oppone alle mitologie romantiche del genio solitario. Questa etica collaborativa si radica nelle pratiche del crew graffiti dove la firma individuale si iscrive sempre in un’identità di gruppo.

L’attenzione costante dedicata alle questioni di giustizia sociale colloca il suo lavoro nella linea dell’arte socialmente impegnata, ma secondo modalità specifiche che evitano il rischio della propaganda. Parlá sviluppa un’estetica dell’allusione che suggerisce più di quanto non dimostri, creando uno spazio di riflessione critica piuttosto che un discorso univoco. Questa strategia retorica preserva l’autonomia dello spettatore orientando però sottilmente la sua percezione verso le problematiche sociopolitiche contemporanee.

La dimensione memoriale della sua opera costituisce un atto di resistenza all’amnesia collettiva che caratterizza le nostre società contemporanee. Iscrivendo nelle sue tele le tracce delle lotte urbane passate e presenti, Parlá crea un archivio alternativo della storia degli oppressi. Questa funzione testimoniale dell’arte si unisce alle preoccupazioni dell’istoriografia critica che cerca di restituire la parola agli attori ignorati dai racconti ufficiali.

L’iscrizione della sua pratica nello spazio pubblico rivela una concezione democratica dell’arte che supera le divisioni tradizionali tra cultura colta e cultura popolare. Le sue interventi murali si rivolgono indifferentemente ai passanti occasionali e agli appassionati esperti, creando opere dalla geometria variabile che si adattano alle capacità interpretative di ogni spettatore. Questa accessibilità differenziale costituisce un modello di arte democratica particolarmente pertinente nelle nostre società multiculturali.

La questione ecologica, sempre più presente nella sua produzione recente, rivela un’evoluzione della sua coscienza politica verso le sfide planetarie contemporanee. Le sue ricerche sulle reti micorriziche e i cicli di decomposizione naturale propongono modelli alternativi di organizzazione sociale ispirati agli ecosistemi viventi. Questa eco-poetica apre prospettive inedite per ripensare i rapporti tra arte e natura nell’Antropocene.

L’etica di Parlá trova infine la sua espressione più compiuta nella sua concezione dell’arte come servizio pubblico. I suoi interventi architettonici, i suoi laboratori pedagogici, le sue collaborazioni comunitarie testimoniano una volontà di mettere il suo talento al servizio dell’interesse generale. Questa dimensione civica della sua pratica ne fa un modello per gli artisti contemporanei desiderosi di superare la sfera ristretta del mercato dell’arte per ritrovare una funzione sociale effettiva.

José Parlá incarna oggi una delle sintesi più riuscite tra tradizione popolare e innovazione contemporanea. La sua opera dimostra che è possibile attingere all’eredità delle culture di resistenza urbana senza cadere nella nostalgia, sviluppare un’estetica dell’impegno senza sacrificare la complessità formale, creare un’arte democratica senza rinunciare all’esigenza artistica. Questa rara coerenza tra etica ed estetica, vita e creazione, fa di lui uno dei testimoni più autentici della nostra epoca turbolenta.

Le sue tele ci ricordano che la vera arte nasce sempre dalla frizione diretta con il reale, nella sua dimensione più cruda come in quella più sublime. Trasformando i detriti delle nostre metropoli in materia poetica, metamorfosando la sofferenza individuale in bellezza condivisa, facendo dell’architettura uno spazio di comunione democratica, José Parlá ci mostra che la creazione artistica rimane uno dei nostri ultimi rimedi contro la barbarie contemporanea. Il suo esempio ci insegna che a volte basta un uomo in piedi su un’impalcatura, un pennello in mano e il cuore pieno di speranza, per ricordare al mondo intero che la bellezza resta possibile, anche nell’avversità.


  1. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano. 1. Arti del fare, Parigi, Gallimard, 1990.
  2. Henri Lefebvre, Il diritto alla città, Parigi, Economica, 2009.
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Riferimento/i

José PARLA (1973)
Nome: José
Cognome: PARLA
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Stati Uniti

Età: 52 anni (2025)

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