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Martedì 18 Novembre

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Juan Muñoz: l’architetto delle illusioni

Pubblicato il: 5 Dicembre 2024

Di: Hervé Lancelin

Categoria: Critica d’arte

Tempo di lettura: 7 minuti

Juan Muñoz trasforma le nostre percezioni dello spazio con una precisione chirurgica. Le sue figure grigie, leggermente più piccole del naturale, sono gli attori di un teatro esistenziale in cui noi, spettatori, diventiamo involontariamente i protagonisti principali delle sue installazioni enigmatiche.

Ascoltatemi bene, banda di snob. Juan Muñoz (1953-2001) non era semplicemente un artista spagnolo emerso nel contesto post-franchista come tanti altri. No, era un vero e proprio mago dello spazio, un manipolatore di percezioni che ha rivoluzionato la scultura contemporanea con un’audacia che anche i più grandi maestri dell’illusione ci invidierebbero. Se pensate che stia esagerando, è perché non vi siete mai trovati di fronte a una delle sue installazioni monumentali che vi colpiscono al cuore e vi lasciano con quella sensazione inquietante che qualcosa di inspiegabile è appena successo.

Nel panorama artistico degli anni ’80 e ’90, dove la scultura minimalista dominava e l’arte concettuale dettava le sue austere regole, Muñoz ebbe il coraggio di reintrodurre la figura umana. Ma attenzione, non una figura umana qualsiasi. I suoi personaggi, leggermente più piccoli del naturale, fusi in toni di grigio o bronzo monocromi, non sono semplici rappresentazioni, sono attori di un teatro esistenziale dove noi, spettatori, diventiamo contro la nostra volontà i protagonisti principali di un dramma di cui ignoriamo il copione.

Prendiamo i suoi gruppi di figure cinesi che ridono, questi insiemi enigmatici che hanno segnato la sua produzione degli anni ’90. Questi personaggi, tutti modellati dallo stesso busto art nouveau belga, condividono un’ilarità collettiva da cui siamo irrimediabilmente esclusi. Questa messa in scena fa direttamente eco alle teorie di Emmanuel Levinas sull’alterità radicale. Quando Levinas parla dell”epifania del volto” come momento fondante dell’etica, Muñoz ci confronta con dei volti che ci rimandano la nostra stessa stranezza. Queste figure ridono, ma la loro risata è una barriera, una linea di demarcazione tra il loro mondo e il nostro.

La manipolazione magistrale dello spazio architettonico da parte di Muñoz trova la sua espressione più sorprendente nei suoi balconi sospesi. Queste strutture impossibili, che fluttuano nel vuoto come navi fantasma, incarnano perfettamente ciò che Martin Heidegger definiva “l’essere-gettato” nella sua analisi della condizione umana. Questi balconi non sono semplici elementi architettonici decontestualizzati, sono metafore tridimensionali della nostra stessa sospensione nell’esistenza. Appesi alle pareti delle gallerie ad altezze accuratamente calcolate, creano ciò che il filosofo Gaston Bachelard chiamava “spazi poetici”, luoghi in cui il sogno e la realtà si confondono.

I suoi “Conversation Pieces”, questi gruppi di figure in resina poliestere o bronzo che sembrano perpetuamente impegnate in silenziose discussioni, rappresentano forse l’espressione più compiuta della sua visione artistica. Questi personaggi privi di piedi, come sospesi in un tra-spazio temporale e spaziale, illustrano perfettamente la teoria della “différance” sviluppata da Jacques Derrida. Il filosofo francese ci parlava di questo gioco costante di presenza e assenza nella costruzione del senso. Le figure di Muñoz incarnano letteralmente questo concetto: sono fisicamente presenti ma eternamente assenti nel loro mutismo ostinato, creando una tensione perpetua tra ciò che è mostrato e ciò che è suggerito.

L’uso che Muñoz fa dei pavimenti ottici è notevole. Queste superfici geometriche che creano illusioni di profondità vertiginose non sono semplici esercizi di stile. Costituiscono una manifestazione fisica di ciò che Maurice Merleau-Ponty descriveva nella sua “Fenomenologia della percezione” come l’intreccio fondamentale del corpo che percepisce e del mondo percepito. Camminando su questi pavimenti, lo spettatore sperimenta fisicamente l’instabilità della sua percezione. È un colpo maestro che fa sembrare le installazioni immersive dei suoi contemporanei sottili come un concerto di heavy metal in una biblioteca.

Il suo capolavoro “Double Bind”, installato nella Turbine Hall della Tate Modern nel 2001, rappresenta l’apice di questo approccio. Questa installazione monumentale, con i suoi ascensori fantasma e le figure misteriose che appaiono e scompaiono tra i piani, crea ciò che Guy Debord avrebbe definito una “situazione costruita”. Trasforma l’esperienza del visitatore in una performance involontaria in cui ogni passo, ogni sguardo diventa parte integrante dell’opera. È esattamente ciò che Walter Benjamin anticipava quando parlava della perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, salvo che qui Muñoz riesce nell’impresa di creare un’aura nuova, unica per ogni visitatore.

Il modo in cui manipola lo spazio architettonico non è senza richiamare le teorie di Henri Lefebvre sulla produzione dello spazio sociale. Per Lefebvre, lo spazio non è un contenitore neutro ma una produzione sociale complessa. Le installazioni di Muñoz materializzano questa idea creando zone di tensione tra il reale e l’immaginario, tra lo spazio percepito e lo spazio vissuto. Le sue scale che non portano da nessuna parte, le sue balaustre isolate che suggeriscono spazi assenti, tutto ciò contribuisce alla creazione di una geografia emozionale unica.

Quando colloca un nano solitario alla fine di un corridoio o sospende una figura per la bocca, Muñoz non cerca il sensazionalismo facile. Mette in scena ciò che Julia Kristeva chiama l’abietto, quella zona ambigua tra soggetto e oggetto che ci affascina e ci respinge simultaneamente. Queste opere ci confrontano con le nostre ansie esistenziali, con la nostra paura dell’isolamento, con il nostro rapporto ambiguo con l’alterità. È un teatro dell’assurdo in tre dimensioni che avrebbe fatto sorridere Samuel Beckett.

La sua collaborazione con il compositore Gavin Bryars per “A Man in a Room, Gambling” illustra perfettamente la sua comprensione di ciò che Jacques Rancière chiama “la condivisione del sensibile”. Combinando spiegazioni di trucchi di carte con una composizione musicale minimalista, Muñoz crea un’opera che trascende i confini tradizionali tra le discipline artistiche. È un’esplorazione sofisticata dei confini tra verità e illusione, tra performance e realtà, che ci ricorda che tutta l’arte è, in definitiva, una forma di prestidigitazione mentale.

L’influenza della letteratura sul suo lavoro è particolarmente evidente nella sua serie di disegni ispirati a Joseph Conrad. Queste opere su carta, spesso realizzate su impermeabili neri con gesso bianco, evocano l’atmosfera opprimente e misteriosa dei racconti dello scrittore. Ci ricordano che Muñoz era prima di tutto un narratore, che usa lo spazio tridimensionale come altri usano le parole per creare narrazioni complesse e ambigue.

L’uso del suono e della radio come medium artistico merita anche la nostra attenzione. Le opere radiofoniche che ha creato, in particolare in collaborazione con John Berger, esplorano ciò che Roland Barthes chiamava “il grano della voce”. Queste opere sonore creano spazi mentali potenti quanto le sue installazioni fisiche, dimostrando la sua profonda comprensione di come il suono possa scolpire la nostra percezione dello spazio e del tempo.

Il rapporto di Muñoz con la storia dell’arte è particolarmente complesso e sofisticato. I suoi riferimenti vanno da Velázquez ad Alberto Giacometti, dalla prospettiva barocca alle sperimentazioni spaziali del minimalismo. Ma a differenza di tanti artisti contemporanei che si limitano a citazioni superficiali, Muñoz assimila e trasforma le sue influenze per creare qualcosa di radicalmente nuovo. La sua reinterpretazione dello spazio barocco, per esempio, non è un semplice esercizio di stile ma una riflessione profonda sulla natura della percezione e della rappresentazione.

Il trattamento che fa dei materiali tradizionali come il bronzo o la resina è altrettanto rivoluzionario. Utilizzando questi materiali nobili della scultura per creare figure deliberatamente anti-eroiche, sovverte le convenzioni del monumento pubblico. I suoi personaggi non sono figure di autorità ma presenze inquietanti che mettono in discussione il nostro rapporto con lo spazio pubblico e con la commemorazione.

La sua morte prematura nel 2001 ci ha privato di nuove esplorazioni dei territori artistici che aveva iniziato a mappare. Ma la sua influenza continua a risuonare nell’arte contemporanea come un’eco persistente. In un’epoca in cui la realtà virtuale e aumentata confonde sempre più i confini tra il reale e il virtuale, le riflessioni di Muñoz sulla natura della percezione e della rappresentazione sono più pertinenti che mai.

Il genio di Muñoz non risiede solo nella sua padronanza tecnica o nella sua capacità di creare installazioni spettacolari. Il suo vero colpo di genio è stato quello di saper creare un linguaggio visivo che parla direttamente al nostro inconscio collettivo, mantenendo al contempo un dialogo sofisticato con la storia dell’arte e la filosofia contemporanea. In un mondo saturo di immagini e informazioni, la sua opera ci ricorda che l’arte più potente non è quella che ci dà risposte, ma quella che ci costringe a mettere in discussione le nostre certezze più fondamentali.

Le sue installazioni continuano a infastidirci proprio perché rifiutano di risolversi in un significato unico. Come le migliori opere d’arte, rimangono aperte all’interpretazione mantenendo al contempo la loro integrità formale e concettuale. È un equilibrio precario che pochi artisti riescono a mantenere. Muñoz vi riesce con un’eleganza che fa sembrare facile questo esercizio, mentre in realtà si tratta di una delle sfide più complesse dell’arte contemporanea.

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Riferimento/i

Juan MUÑOZ (1953-2001)
Nome: Juan
Cognome: MUÑOZ
Genere: Maschio
Nazionalità:

  • Spagna

Età: 48 anni (2001)

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