Ascoltatemi bene, banda di snob! Julie Mehretu (nata nel 1970) è senza dubbio una delle più grandi alchimiste del nostro tempo, trasformando il caos del mondo in vortici astratti di una bellezza vertiginosa. Lei trasforma i nostri incubi collettivi, guerre, catastrofi climatiche, migrazioni forzate, in sinfonie visive che ci confrontano con la nostra stessa impotenza di fronte alla Storia.
Mentre alcuni si estasiavano davanti a croste del XIX secolo che rappresentano scene di caccia nella foresta di Fontainebleau, Mehretu ci sbatte in faccia l’urgenza del nostro tempo con una maestria che farebbe impallidire Leonardo da Vinci stesso. Lei non dipinge per decorare i vostri salotti borghesi, dipinge per scuotere le vostre coscienze addormentate.
Il suo primo tema è questa capacità unica di creare spazi architettonici impossibili, cartografie mentali che sfidano ogni logica euclidea. Prendete “Retopistics: A Renegade Excavation” (2001), un’opera monumentale che polverizza i nostri punti di riferimento spaziali come se Einstein avesse preso LSD con Piranesi. I piani di aeroporti, stadi e piazze pubbliche si intrecciano in una danza macabra che evoca ciò che Walter Benjamin chiamava “l’angelo della storia”, testimone impotente delle catastrofi che si accumulano ai suoi piedi.
Mehretu non fa concettualismi fini a se stessi per impressionare il pubblico. Lei si appropria dell’eredità dell’astrazione geometrica occidentale, da Malevich a Sol LeWitt, per farla implodere dall’interno. Come ha ben teorizzato Jacques Derrida, pratica una decostruzione radicale dei sistemi di rappresentazione dominanti. I suoi strati successivi di disegni architettonici, coperti da un velo di acrilico e poi sabbiati fino a creare una superficie quasi archeologica, incarnano perfettamente ciò che Gilles Deleuze chiamava la “piegatura”, quella zona di indeterminazione in cui interno ed esterno si confondono.
Il secondo tema della sua opera è il suo modo unico di incarnare i movimenti sociali e le sollevazioni popolari nella materia stessa della pittura. In “Black City” (2007), i segni gestuali sembrano prendere vita come una folla arrabbiata, che si riversa sulla superficie della tela con la potenza di uno tsunami. Queste tracce calligrafiche evocano ciò che il filosofo Jacques Rancière chiama la “condivisione del sensibile”, quei momenti in cui l’ordine stabilito vacilla e nuove forme di visibilità diventano possibili.
“Mural” (2009), questo affresco delle dimensioni di un campo da tennis, commissionato dalla banca Goldman Sachs per 5 milioni di dollari, è in realtà una bomba a orologeria concettuale. Prende i codici visivi del capitalismo finanziario, grafici azionari, piani di architetti, loghi aziendali, per farli esplodere in un maelström pittorico che evoca la fragilità dell’intero sistema.
Ciò che mi piace di Mehretu è che trasforma la violenza strutturale della nostra epoca in un’esperienza estetica che ci prende alle viscere. I suoi dipinti recenti, come “Hineni (E. 3:4)” (2018), partono da immagini di attualità, incendi in California, distruzione di villaggi Rohingya, che sfoca digitalmente prima di ricoprirli con i suoi segni caratteristici. Il risultato è ipnotico, come se Turner avesse avuto accesso a Photoshop e alle catene di notizie in diretta.
A differenza di tanti artisti contemporanei che si limitano a riciclare le stesse vecchie ricette moderniste, Mehretu inventa un nuovo linguaggio pittorico per la nostra epoca di caos globale. Lei comprende che l’astrazione non è una fuga dalla realtà ma al contrario l’unico mezzo per cogliere la complessità vertiginosa del nostro presente. L’arte più astratta conserva tracce del sociale proprio nel suo processo di astrazione.
Il suo lavoro richiama le riflessioni del filosofo Paul Virilio sulla “dromosfera”, quello spazio-tempo accelerato dove gli eventi si scontrano alla velocità della luce. Nei suoi dipinti più recenti, come “A Mercy (after T. Morrison)” (2019), le tracce gestuali sembrano aspirate in un vortice spazio-temporale, come se la pittura stessa fosse catturata nell’accelerazione vertiginosa della Storia.
Ciò che rende Mehretu così importante oggi è che crea opere che resistono al consumo rapido delle immagini catturando al contempo l’energia esplosiva della nostra epoca. I suoi dipinti non sono finestre sul mondo ma specchi deformanti che ci restituiscono la complessità terrificante del presente. Come scriveva Maurice Merleau-Ponty, “il pittore porta il suo corpo”, e Mehretu porta il suo con tutta la sua storia di spostamenti e mescolanze.
I critici superficiali vedono nel suo lavoro solo una versione sofisticata dell’action painting. Ma è perdere di vista l’essenziale: Mehretu reinventa la pittura storica per l’era dei social network e del cambiamento climatico. I suoi dipinti sono macchine di pensiero visive che ci costringono a riconsiderare il nostro rapporto con il tempo, lo spazio e il potere.
Sono affascinato dal modo in cui lei utilizza l’architettura come metafora del potere istituzionale. I piani di edifici che incorpora nelle sue opere, dal Colosseo romano alle torri di uffici contemporanee, sono tanti simboli dei sistemi di controllo che strutturano le nostre vite. Ma sotto il suo pennello queste strutture rigide si dissolvono in un caos controllato che evoca ciò che Michel Foucault chiamava eterotopia, quegli spazi altri dove le norme sociali sono sospese.
Il suo magistrale uso della trasparenza e dell’opacità richiama le riflessioni di Édouard Glissant sul “diritto all’opacità”. Nei suoi strati successivi di pittura e disegno, Mehretu crea zone di resistenza alla chiarezza forzata, spazi dove il senso rimane deliberatamente ambiguo. È una lezione politica oltre che estetica.
I collezionisti disillusi che acquistano le sue opere a prezzi d’oro pensano di possedere un pezzo di storia dell’arte contemporanea. Ciò che non capiscono è che Mehretu in realtà vende loro uno specchio che riflette la loro stessa complicità con i sistemi di potere che lei decostruisce. È quello che chiamo un contraccolpo concettuale!
La sua recente mostra alla Biennale di Venezia dimostra che non ha perso nulla della sua radicalità. Al contrario, il suo lavoro guadagna urgenza man mano che il mondo sprofonda nel caos. I suoi nuovi dipinti su tessuto Mesh poliestere, i “TRANSpaintings”, sono tra le sue opere più audaci fino a oggi. Permettendo alla luce di attraversare la superficie pittorica, crea letteralmente nuovi spazi di possibilità.
Mehretu ha un ostinato rifiuto della facilità. Avrebbe potuto accontentarsi di ripetere la sua formula vincente degli anni 2000, quei dipinti architettonici che le hanno fatto guadagnare fama. Invece, continua a sperimentare, a correre rischi, a spingere i limiti di ciò che la pittura può dire e fare nella nostra epoca.
Il suo ultimo capolavoro? La donazione di oltre due milioni di dollari al Whitney Museum per permettere l’accesso gratuito ai minori di 25 anni. Ecco un’artista che comprende che l’arte ha senso solo se resta accessibile a chi ne ha più bisogno. Mentre alcuni artisti collezionano Ferrari, Mehretu investe nel futuro.
Sì, i suoi dipinti possono sembrare intimidatori a prima vista, con i loro strati complessi di riferimenti storici e teorici. Ma è proprio questo che ne fa la loro forza: esigono da noi un vero impegno, uno sforzo di pensiero che va oltre il consumo passivo delle immagini. Forse è il dono più grande che un’artista possa farci.
Julie Mehretu non è solo una grande artista, è una veggente che legge nelle viscere della nostra epoca. I suoi dipinti sono carte di navigazione per un mondo che ha perso i suoi punti di riferimento. Se non capite il suo lavoro, forse non siete pronti ad affrontare la verità che rivela sul nostro presente.
















