Ascoltatemi bene, banda di snob: se ancora credete che l’arte contemporanea si riduca a qualche colpo di pennello audace su una tela bianca o a installazioni narcisistiche in gallerie asettiche, preparatevi a che Julio César Morales sconvolga le vostre sicurezze comode. Questo artista nato a Tijuana non si cura delle vostre ristrette convenzioni estetiche. Il suo lavoro, vera cronaca visiva della condizione migrante, si impone come una delle proposte più incisive dell’arte americana contemporanea. Ma attenzione: non è un militante armato di slogan semplicistici, è un poeta armato di acquerelli, un compositore il cui strumento è la memoria collettiva di un popolo in perpetuo movimento.
Morales opera al confine, geografico, certo, ma soprattutto concettuale, tra due nazioni, due lingue, due immaginari. Questa posizione liminare non è una posa intellettuale scelta per fare bella figura in un comunicato stampa. L’artista è letteralmente cresciuto nella Zona Norte di Tijuana prima che la sua famiglia si trasferisse, quando aveva dieci anni, di un solo blocco a San Ysidro, in California. Un blocco. Questa distanza derisoria contiene tuttavia tutta la violenza di una separazione geopolitica le cui conseguenze si misurano in vite spezzate. “Sono cresciuto attraversando il confine ogni giorno fino ai miei venti anni”, confida [1]. Non è un aneddoto biografico, è il materiale grezzo della sua arte.
Il cinema come grammatica dello sguardo
Quando Morales dichiara di essere “un musicista, ma [che il suo] strumento è l’arte visiva” [2], non si tratta di una metafora comoda. La sua pratica effettivamente attinge al montaggio cinematografico, alla costruzione narrativa del film documentario, all’economia visiva del neorealismo italiano. Pensate a Vittorio De Sica che filma le strade romane in Ladri di biciclette: stessa attenzione rivolta agli anonimi, stesso rifiuto del pathos facile, stessa dignità accordata alle figure marginali. Morales non illustra la sofferenza, la inquadra. Non denuncia, mostra. Sottile differenza in un panorama artistico saturo di buone intenzioni moralizzatrici.
Il suo lavoro su The Border, film hollywoodiano del 1982 con Jack Nicholson, costituisce a tal riguardo un notevole esercizio di détour. Nei suoi video “The Border (Los Pollos vs. La Migra)” e “We Don’t See” (entrambi del 2025), Morales opera una riscrittura cinematografica che non rientra né nel semplice commento critico né nella parodia. Ritagliando la silhouette dell’attore principale sui poster originali del film, filtrando le immagini per cancellare i protagonisti a favore delle comparse, l’artista compie un’operazione di giustizia poetica: rende visibile ciò che Hollywood aveva scelto di ignorare. I migranti, nel suo montaggio, non sono più ombre al servizio di un racconto eroico incentrato su un agente di frontiera bianco. Diventano i veri soggetti della storia.
Questo approccio quasi documentaristico attraversa l’intera sua produzione. Le acquerelli della serie Undocumented Interventions, iniziata nel 2010, funzionano come fermo immagine di un film horror in cui la realtà supera la finzione. Corpi umani nascosti nei cruscotti delle auto, occultati negli altoparlanti, ripiegati in piñatas a forma di personaggi dei cartoni animati, SpongeBob, Barney. L’assurdo si affianca al tragico con un’immediatezza che ricorda il miglior cinema d’autore latinoamericano, quello che rifiuta il pittoresco per abbracciare il reale in tutta la sua brutale prosaicità.
Morales costruisce le sue immagini come un regista compone i suoi piani: per accumulo di dettagli significativi, per giustapposizione di temporalità, per sovrapposizione di punti di vista. Le sue installazioni multimediali non si limitano a mostrare, creano dispositivi di immersione. L’installazione sonora My America Is Not Your America, realizzata in collaborazione con il Mexican Institute of Sound, trasforma lo spazio espositivo in camera d’ascolto, in cabina di meditazione politica. Il visitatore vi entra in due, vincolo deliberato che simula l’intimità forzata dei corpi nelle serie Gemelos. Il neon rosso che accompagna questa installazione traccia letteralmente il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, ma al contrario, come se il mondo si fosse capovolto. Proprio come quando si attraversa.
Sociologia della ferita aperta
Se Morales agisce da cineasta, pensa da sociologo. Il suo lavoro si inscrive in una tradizione intellettuale che va ben oltre la testimonianza artistica per costituire una vera analisi dei meccanismi di frontiera. Gloria Anzaldúa, importante teorica chicana, scriveva nel 1987 che “la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico è una ferita aperta dove il Terzo Mondo strofina contro il primo e sanguina” [3]. Questa formulazione, di una violenza poetica struggente, potrebbe servire da sottotitolo all’intero corpus di Morales.
Ma lì dove Anzaldúa teorizzava la “coscienza mestiza”, quell’identità frammentata e ricomposta dei soggetti di frontiera, Morales ne propone un’incarnazione visiva. Le sue acquerelli non sono illustrazioni di una teoria preesistente, sono la teoria stessa, tradotta in linguaggio plastico. Ogni immagine della serie Gemelos costituisce una tesi in miniatura sullo spazio liminale, quel non-luogo dove gli individui smettono di appartenere al loro paese d’origine senza aver ancora raggiunto quello di destinazione. In questi interstizi pericolosi, la sociologia incontra l’ontologia: cosa significa essere umani quando tutte le strutture sociali che vi definivano sono crollate?
L’artista usa l’acquerello, medium delicato per eccellenza, per rappresentare questi passaggi clandestini. “La sua delicatezza mi permette di aggiungere un senso di tenerezza alle esperienze dolorose e spesso violente vissute dalle persone che tentano di attraversare la frontiera”, spiega [4]. Scelta tecnica che è anche scelta etica: rifiutare il sensazionalismo, preferire la dolcezza cromatica alla rappresentazione gore. È proprio questa riserva formale che rende l’opera così devastante. I corpi intrecciati negli spazi angusti evocano tanto la matrice quanto la bara, la rinascita quanto la morte. Questa dualità strutturale rimanda peraltro al mito maya dei gemelli eroi del Popol Vuh, che attraversano anch’essi portali tra i mondi, muoiono e rinascono, si sacrificano per accedere a una nuova esistenza.
Il vocabolario sociologico dell’economia informale attraversa anche il suo lavoro. Morales documenta metodicamente le strategie di sopravvivenza adottate dai migranti: traffico di esseri umani, passaggi clandestini, economie parallele. Ma rifiuta ostinatamente qualsiasi gerarchia morale. I “coyotes”, passeurs, fanno parte della sua famiglia, allo stesso titolo di giudici e poliziotti. Questa complessità familiare riflette la complessità sociologica della zona di confine stessa, uno spazio dove le categorie abituali del legale e dell’illegale, del bene e del male, perdono la loro pertinenza. Non si tratta di relativismo morale ma di realismo sociologico: in questi territori di confine, la sopravvivenza impone regole che le burocrazie statali non possono né comprendere né regolamentare.
I neon che Morales utilizza frequentemente costituiscono una firma visiva ma anche un marcatore sociologico. Questa luce rossa che evoca le insegne di Tijuana, i bar dell’Avenida Revolución, inscrive l’opera in una geografia specifica conferendole al contempo una dimensione universale. Il neon, tecnologia della visibilità commerciale, diventa qui uno strumento di rivelazione sociale. L’installazione Las Líneas 2028/2022/1845/1640 traccia quattro frontiere storiche successive, ricordando che queste linee presumibilmente immutabili non hanno cessato di spostarsi al ritmo delle conquiste, dei trattati, delle guerre. La frontiera non è un dato naturale, è una costruzione storica, e quindi reversibile, modificabile e contestabile.
La poetica del portale
Le otto acquerelli della serie Gemelos, presentate di recente presso la Gallery Wendi Norris a San Francisco (dal 19 settembre al 1° novembre 2025), meritano una certa attenzione. Morales vi rappresenta coppie di corpi, da cui il titolo “gemelli”, compressi in spazi impossibili. Questi spazi, l’artista li concepisce esplicitamente come portali: soglie tra due stati di esistenza, passaggi tra due mondi. L’immaginario rimanda al mito precolombiano pur documentando una realtà contemporanea verificabile: circolano fotografie che mostrano effettivamente bambini nascosti nell’imbottitura di seggiolini per auto per attraversare clandestinamente il confine.
L’ambiguità visiva di questi corpi intrecciati – stanno nascendo o morendo? – non è un effetto estetico gratuito. Essa traduce l’ambivalenza fondamentale dell’esperienza migratoria: ogni partenza è una piccola morte, ogni arrivo una rinascita incerta. I migranti che Morales rappresenta occupano una posizione esistenziale paradossale, comparabile a quella dei gemelli eroi maya che dovevano morire per rinascere trasformati. Solo che per i migranti contemporanei la resurrezione non è mai garantita. Alcuni muoiono in questi passaggi stretti, asfissiati, schiacciati. Altri sopravvivono ma portano per sempre le stigmate psicologiche di questo attraversamento.
Il bianco dell’acquerello che circonda questi corpi funziona come un vuoto ontologico, uno spazio di sospensione dove le coordinate abituali dell’esistenza si dissolvono. Non ancora là, già non più qui, “ni de aquí ni de allá”, come recita l’espressione spagnola. Questa zona intermedia, questo “terzo spazio” di cui parla Morales nelle sue interviste, costituisce il vero soggetto della sua arte. Non la frontiera come linea di demarcazione, ma la frontiera come condizione esistenziale, come modo di essere al mondo.
La sua recente installazione tomorrow is for those who can hear it coming, citazione distorta di uno slogan pubblicitario di David Bowie, pone una domanda semplice e terribile: nel clima politico attuale, chi ha il privilegio di avere un futuro? I raid dell’ICE, la retorica xenofoba, le politiche di espulsione di massa creano una situazione in cui alcuni esseri umani vengono letteralmente privati del diritto di immaginare il loro domani. Il neon di Morales, con la sua scrittura gotica presa in prestito dalla cultura lowrider chicano, afferma però una forma di resistenza: sentire arrivare il domani significa rifiutarsi di essere ridotti al presente immediato della sopravvivenza.
Verso un’etica dello sguardo
Una verità si impone: siamo di fronte a un artista che ha capito che la rappresentazione non è mai neutra, che mostrare è già prendere posizione. Ma a differenza di tanti suoi contemporanei che trasformano l’arte in tribuna militante, Morales opera con una sottigliezza che rispetta l’intelligenza dello spettatore. Non detta cosa bisogna pensare, crea le condizioni per un pensiero possibile.
Il suo uso sistematico di materiali trovati, di documenti reali, di immagini preesistenti, si avvicina a una metodologia da archivista tanto quanto da artista. Ogni opera funziona come un pezzo di accusa in un processo che non avrà mai luogo, quello che giudicherebbe le politiche migratorie per quello che sono: macchine per schiacciare l’umano. Gli acquerelli delicati, i neon luminosi, le installazioni sonore compongono insieme una forma di memoriale per i dispersi al confine, quelle migliaia di anonimi la cui morte non farà mai la prima pagina dei giornali.
Ciò che rende il lavoro di Morales così necessario oggi è proprio il suo rifiuto del pathos facile. Niente piagnistei, niente indignazione performativa, niente colpevolizzazione dello spettatore. Solo una presentazione fattuale di situazioni insostenibili, accompagnata da una dolcezza formale che rende il tutto ancora più insopportabile. Perché di questo si tratta: rendere visibile l’insostenibile, dare forma all’inaccettabile, senza mai scivolare nell’oscenità della sovra-rappresentazione.
L’artista ha recentemente dichiarato: “Voglio dare valore e rendere omaggio al lavoro degli immigrati e alle loro vite, non solo dall’America Latina, ma da tutto il mondo”. Questa ambizione potrebbe sembrare ingenua nella sua semplicità. Non lo è. È al contrario di una radicalità assoluta in un contesto dove l’esistenza stessa di queste persone viene negata, dove la loro umanità è sistematicamente rifiutata dai discorsi politici dominanti. Rendere visibile è resistere. Testimoniare è combattere.
Morales costruisce pazientemente, opera dopo opera, una contro-archivio del confine. Dove i media vedono solo cifre, arresti, espulsioni, morti in mare o nel deserto, lui vede individui. Dove il discorso politico percepisce solo una “crisi migratoria”, identifica strategie di sopravvivenza, reti di solidarietà, economie parallele, culture ibride. La sua arte è politica non nonostante la sua dimensione poetica, ma proprio grazie a essa. La poesia, qui, diventa uno strumento di conoscenza, una via d’accesso a realtà che i discorsi razionali non riescono a cogliere.
La retrospettiva attuale al Jan Shrem and Maria Manetti Shrem Museum of Art dell’Università della California a Davis, dal 7 agosto al 29 novembre 2025, arriva al momento giusto. Permette di misurare la coerenza di un percorso che si estende su più di trent’anni, dalle prime performance fino alle recenti installazioni multimediali. Questa coerenza non è quella di uno stile fisso ma di una preoccupazione ossessiva: come rappresentare dignitosamente coloro che il mondo contemporaneo ha deciso di rendere invisibili?
Nel momento in cui l’arte contemporanea si compiace troppo spesso in giochi formali autoreferenziali o in un attivismo di postura, Morales ci ricorda che un artista può essere allo stesso tempo rigorosamente formale e profondamente impegnato. Che la bellezza plastica non è incompatibile con l’urgenza politica. Che la delicatezza di un acquerello può portare più carica critica di mille manifesti vendicativi. La sua opera dimostra che si può parlare della realtà più brutale con i mezzi più raffinati, che si può documentare l’orrore senza rinunciare alla grazia formale.
Alla fine, e forse questo è il suo contributo più prezioso, Julio César Morales ci offre una lezione di umanesimo radicale. Non quell’umanesimo astratto e confortevole che celebra l’Uomo con la U maiuscola dal comfort di una poltrona accademica, ma un umanesimo concreto, radicato in corpi sofferenti, traiettorie spezzate, speranze mutilate. Un umanesimo che sa che la dignità non si proclama, si costruisce nello sguardo che si posa sull’altro. E lo sguardo che Morales posa sui migranti non è mai condiscendente, mai pietistico. È uno sguardo paritario, quello di un uomo che ha lui stesso attraversato la linea e che sa cosa significa.
La sua arte ci ricorda che dietro ogni statistica migratoria si nasconde una vita singolare, una rete familiare, una storia personale. Che ridurre queste esistenze al loro status amministrativo, legale, illegale, documentato, senza documenti, costituisce una forma di violenza simbolica tanto devastante quanto le violenze fisiche subite durante il viaggio. Morales restituisce a questi anonimi la loro piena umanità, non con un discorso moralizzatore, ma con la semplice forza della rappresentazione artistica. Offre loro ciò che la società nega loro: una visibilità, una presenza, un’iscrizione nella storia collettiva.
Ecco perché la sua opera conterà ancora a lungo dopo che i dibattiti politici attuali si saranno esauriti. Perché tocca qualcosa di universale e intemporeale: la condizione dell’esiliato, il dolore dello strappo, la complessità dell’identità meticcia. Perché pone le domande giuste senza pretendere di detenere le risposte. Perché ci costringe a guardare ciò che preferiremmo ignorare, offrendo al contempo abbastanza bellezza formale affinché questo sguardo rimanga sopportabile. Tra la violenza del reale e la dolcezza dell’acquerello, Julio César Morales ha trovato l’esatto equilibrio che definisce la grande arte: quella che illumina senza accecare, che ferisce senza distruggere e che testimonia senza esaurirsi nella testimonianza.
- Natasha Boas, “Julio César Morales Looks at Life on the Edge-Lands”, Hyperallergic, 3 novembre 2025
- Mary Corbin, “Julio César Morales’ tender work renders the pain of migration”, 48 Hills, 7 ottobre 2025
- Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, Aunt Lute Books, 1987
- Mary Corbin, “Julio César Morales’ tender work renders the pain of migration”, 48 Hills, 7 ottobre 2025
















